Fonte: micromega
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LA CLASSE NON E’ ACQUA – di BRUNO PASTORINO – ed. DE FERRARI
di Pierfranco Pellizzetti
Per un sopravvissuto dei tempi andati, suscita una qualche emozione riascoltare il suono fioco di una voce che allora era potente; e che proveniva da un mondo ormai perduto: l’universo scomparso degli operai e della fabbrica.
Sia chiaro, gli operai (fortunatamente) sopravvivono in quanto persone. Non sono più il soggetto sociale significativo che furono; nella sequenza imposta dall’equivoco post-industriale, fattosi falce che recide crudelmente ogni centro di resistenza alla controriforma novistica del capitalismo finanziarizzato: marginalizzazione – annientamento – cancellazione.
Un soggetto politico, ma anche “un mondo della vita”, cui Bruno Pastorino ha dedicato la sua prima prova letteraria: cinque monologhi, uno al femminile e quattro al maschile; ambientati due a Torino e ben tre a Genova. Perché l’autore è all’ombra della lanterna che affonda le sue radici più profonde. In quell’antica tradizione di cui Turati parlava in termini entusiastici: «l’organizzazione operaia genovese con le sue cooperative e l’ordinamento del lavoro, con le sue epiche lotte contro il parassitismo e il krumirismo è il più bel modello di organizzazione italiana». Giudizio ribadito da Luigi Einaudi nel suo “Le lotte del lavoro”, dove esprime tutta la sua ammirazione verso gli scioperanti genovesi a difesa della loro Camera del lavoro, chiusa per decreto prefettizio in quanto giudicata “sovversiva” dal reazionario governo Saracco (poi sfiduciato a seguito degli esiti di tale scontro).
Infatti ci fu un tempo in cui Genova era la città “più operaia” del triangolo industriale, quindi d’Italia: qui, secondo i dati del censimento 1931, ogni 100 persone in condizione professionale e di età dai 10 anni in poi, si contavano 47 operai salariati. A Torino erano 46 e a Milano 43.
Una forza imponente, concentrata nei comuni di Ponente. Le cosiddette “cittadelle rosse”, cui il Fascismo provvide a diluirne le capacità di resistenza con la creazione nel 1926 della “Grande Genova”; che inglobava nello spazio borghese queste isole di sovversione abitate da “ceti pericolosi” per il Regime. Quegli operai – dopo l’8 settembre 1943 – che difesero al prezzo della vita i macchinari delle loro fabbriche contro gli invasori nazisti, che cercavano di trasferirli in Germania come un bottino; quegli stessi che nel secondo dopoguerra negoziavano con il potere democristiano rappresentato dal ministro Paolo Emilio Taviani la ripartizione delle sfere d’influenza nel governo cittadino: ai “bianchi” il centro e il Levante residenziale, ai “rossi” le fabbriche del Ponente.
Il sociologo Luciano Cavalli ne formalizzò il modello parlando di “Genova, città divisa”. Le stesse maestranze che nel 1960 occuparono la città manu militari come risposta alla provocazione – per una città medaglia d’oro della Resistenza – di dover ospitare un congresso di neofascisti ringalluzziti dalla svolta del ministro Fernando Tambroni, che imbarcava il MSI nell’area della maggioranza governativa. Esperimento di breve durata, che proprio dall’insurrezione genovese ricevette il definitivo benservito.
A quel tempo la voce operaia risuonava stentorea. E – tra l’altro – parlava di un particolare modo di concepire il lavoro, non solo come redenzione ma anche come fierezza. Responsabilità sulle banchine del porto, dove i camalli si battevano per l’autogoverno delle mansioni, dignità nelle fabbriche, a difesa del ruolo sociale coperto. In un contesto che – a differenza dell’industria-caserma torinese dell’auto – non avrebbe mai subito l’irreggimentazione del modo fordista di produzione massificata: le Grandi Fabbriche – come la San Giorgio della Famiglia Odero o l’Ansaldo dei Perrone – produttrici di “pezzi unici”, dalle locomotive ai transatlantici. Nell’eccellenza acquisita nell’ambito dell’integrazione sistemica di tecnologie, meccaniche, metallurgiche, elettromeccaniche; che avrebbe potuto prefigurare modi di produrre innovativi; magari toyotismi al basilico… Ma a questo punto la storia finisce e il ricordo svanisce.
Da qui l’operazione benemerita di Pastorino, per il recupero di quella ricchezza umana; che risulta dissipatorio, prima ancora che doloroso, consegnare al macero dell’oblio. In uno scritto intriso di umana comprensione e di malinconica tenerezza. Ed è qui che l’estensore di queste note smarrisce parzialmente la sintonia con il testo; in un atteggiamento rispetto al passato diverso da quello del nostro autore. Forse perché Pastorino, pur provenendo da una famiglia operaia, è altro. Un militante di sinistra che ha ricoperto cariche locali di responsabilità (è stato segretario provinciale di Rifondazione Comunista); sicché lo si potrebbe definire gramscianamente un “intellettuale organico”. Ma non un uomo di fabbrica. Per questo ciò che il suo libro trasmette in prevalenza è l’amaro di un sconfitta totale.
Altri – come lo scrivente – mantengono il ricordo diretto di una grande fierezza, di identità forti che si affrontavano nel conflitto a viso aperto con la controparte borghese; sempre convergendo sul comune apprezzamento per il ben fatto.
Identità collettive che elaboravano un’etica, un’epica e perfino un’estetica. E magari una propria cultura (operaia) che si traduceva nel patrimonio di conoscenze non formalizzate (Primo Levi ricorda ne La chiave a stella che i lavoratori avevano imparato ad aggiustare loro stessi i guasti delle macchine, nel caso con un colpo di quel martello soprannominato “l’ingegnere”) e addirittura in medicina alternativa di fabbrica (il rotolo di carta piegato in quel certo modo per estrarre lo sfrido dalla cornea del fresatore).
Oltre la sconfitta, forse è proprio questo il ricordo da serbare. Per tradurre in modi rinnovati la fierezza della propria responsabilità e della propria dignità nelle nuove lotte del lavoro che verranno, se verranno. Dopo lo scempio di qualità umana, consumato, da quando la mattanza del lavoro organizzata ha lasciato via libera ai massacratori di Giustizia e Libertà. Nella lunga gelata da cui – forse – stiamo uscendo. E che un economista francese definisce “i quaranta ingloriosi”.