La città dell’acciaio

per Gabriella
Autore originale del testo: Enrico Cerrini
Fonte: pandorarivista.it
Url fonte: https://www.pandorarivista.it/articoli/citta-acciaio-alessandro-portelli/

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LA CITTA’ DELL’ACCIAIO – di ALESSANDRO PORTELLI – ed. DONZELLI

Recensione di Enrico Cerrini


Il mito della fabbrica appare come messo sotto la sabbia per le difficoltà del mondo moderno di comprendere le sfide poste dal mondo operaio, troppo complesse per essere risolte. Nelle stesse realtà operaie si fa strada l’idea della fabbrica come pesante fardello del secolo scorso che inquina le risorse naturali e rallenta il progresso del settore terziario a fronte di scarsi benefici per l’occupazione. Si tende a dimenticare sia il ruolo storico di laboratorio per l’acquisizione dei diritti della classe lavoratrice che quello ancora attuale di rilevante bacino occupazionale.

L’opera di Alessandro Portelli ha grande valore perché ci ricorda cosa ha rappresentato per la società ternana vivere a contatto con una delle più grandi acciaierie italiane. Portelli, professore di letteratura angloamericana all’Università La Sapienza di Roma, ha raccolto quarant’anni di interviste con oltre 200 testimonianze degli abitanti della città, lavoratori e tanti personaggi direttamente o indirettamente partecipi alla vita della comunità. Le interviste sono rafforzate dalla ricerca effettuata negli archivi dei quotidiani, in particolare «Il Messaggero», il quale ha una sezione dedicata alla cronaca cittadina, e «L’Unità», un tempo attento alla questione operaia.

La passione di Portelli crea un’opera monumentale, lunga e complessa perché il professore cede la parola ai suoi intervistati che si esprimono in dialetto ternano e fanno saltare le connessioni logiche. Agli occhi dell’Autore, la scelta di trascrivere le interviste è necessaria per fornire fonti più autentiche possibili. Il metodo scelto ci conduce in un viaggio nel tempo e nello spazio sia fisico che mentale, dato che le interviste sono spesso soggette ad un forte grado di interpretazione.

Ad esempio, le testimonianze dell’operaio, contadino, calzolaio, barista, partigiano e poeta Dante Bartolini sono spesso più poetiche che realistiche, anche se riescono a svelare alcuni episodi controversi, come l’uccisione di alcuni gerarchi fascisti barricati in una casa di Poggio Bustone, nella campagna reatina. Altre testimonianze non ne chiariscono le dinamiche e concordano solo sul fatto che i fascisti aprirono il fuoco e furono falcidiati dalla rapida reazione partigiana. La versione romanzata di Bartolini, il quale afferma che “…[i gerarchi] dovevano morire insieme agli altri”, lascia intendere che i suoi compagni hanno trovato difficoltà ad ammettere che i gerarchi furono fucilati con un esecuzione, malgrado fosse considerata un atto di giustizia.

Ma la testimonianza che ha più affascinato Portelli tanto da indurlo a scrivere il libro è quella di Alfredo Filipponi, primo dirigente del Partito Comunista ternano, intervistato, ormai anziano e malato, nel 1973. I ricordi si mescolano ai desideri di carriera politica frustrati dai contrasti per cui fu allontanato dal Partito a seguito della lotta partigiana. Filipponi non racconta la realtà ma storie mitiche, come un’evasione dal carcere di Civitavecchia insieme ad Antonio Gramsci o un contrasto di visione politica con Palmiro Togliatti, risolto con un voto dei militanti a favore di quest’ultimo.

Portelli non appare tanto interessato a ricostruire gli avvenimenti storici quanto la società ternana attraverso i ricordi dei suoi intervistati, inevitabilmente legati agli avvenimenti che hanno segnato la città. Il volume inizia con la descrizione dei riti e delle credenze proprie della realtà contadina che segnava gli anni che vanno dall’Unità d’Italia alla costruzione dell’acciaieria nel 1884. L’acciaieria aveva il compito di supportare l’esercito, per questo erano essenziali la vicinanza con Roma, la lontananza dai confini nazionali e la possibilità di utilizzare l’energia idroelettrica. La produzione di acciaio affiancava le lavorazioni già esistenti come la fabbrica d’armi e il lanificio Grüber. A questa prima realtà industriale si affiancheranno velocemente la tipografia Alterocca, lo iutificio Centurini, le officine meccaniche Bosco e gli stabilimenti chimici nelle frazioni di Papigno e Collestatte.

Il primo nucleo industriale di Terni rivoluziona la città creando innovazioni enormi sul piano sociale. Inizialmente le condizioni lavorative sono durissime, gli ambienti di lavoro e di vita insalubri e gli infortuni innumerevoli. Sin dai primi decenni del novecento le condizioni cambiano e si notano le prime distinzioni, come quelle tra le operaie del lanificio Grüber e quelle dello iutificio Centurini. Se le prime sono considerate l’élite della classe operaia perché lavorano in un ambiente salubre, le seconde sono emarginate per le condizioni più aspre per cui vengono additate come rozze e inclini al libertinaggio.

In questo ambiente nascono le prime rivendicazioni e i primi giornali socialisti. Quando nel 1905 gli operai delle acciaierie scioperano per richiedere un regolamento di fabbrica, la dirigenza presenta nel 1907 un testo inaccettabile per la parte sindacale. Da qui nasce un’interminabile serrata che vede l’intervento di tutta la popolazione ternana. Le stagioni di lotta continuano con il biennio rosso, di cui il calo della domanda di armi dopo la fine della prima guerra mondiale è solo una delle cause.

La classe borghese subisce in questo frangente una serie di umiliazioni che le fanno intravedere nel fascismo la propria possibilità di rivalsa. La vita durante il fascismo è descritta da ampie interviste da cui si percepisce come sia stata mantenuta una certa solidarietà tra la popolazione, malgrado il clima di estrema tensione. Le pagine successive raccontano i momenti della resistenza, a volte in chiave epica a volte aspra e senza gloria.

Come ammette l’operaista Mario Tronti, Terni non ha vissuto a pieno la stagione dell’autunno caldo del 1968 e le successive rivendicazioni operaie degli anni Settanta. La rabbia operaia sembra essersi spenta a seguito della grande protesta del 1953, anno in cui l’azienda decide di licenziare circa duemila operai. Gli anni Settanta e Ottanta sono descritti quindi attraverso gli occhi di altre forme di ribellione e di emarginazione, come gli ultras della Ternana, la locale squadra di calcio, e i tossicodipendenti.

Le successive lotte operaie si ricollegano ai mutamenti relativi alla globalizzazione e all’avvento del paradigma neoliberista. Nel 1994 la fabbrica passa dalle mani pubbliche che garantiscono una continua interlocuzione politico-sindacale sul futuro dello stabilimento a quelle della multinazionale tedesca ThyssenKrupp, i cui obiettivi si rivelano difficili da decifrare. Dopo una prima stagione di risanamento elogiata da tutte le parti in causa, si affaccia l’idea di sacrificare i prodotti meno pregiati per concentrarsi sull’acciaio magnetico a grano orientato, utilizzato per la produzione di trasformatori.

L’acciaio magnetico, al contrario dell’inossidabile, è il fiore all’occhiello della fabbrica ternana grazie allo sviluppo locale del brevetto OGH che permette di realizzare un prodotto di alta qualità a prezzi sostenibili. Scelte sbagliate fanno naufragare il progetto tanto da mettere in discussione la vita stessa del reparto magnetico nel 2004. Gli operai vivono un momento di lotta che ottiene la solidarietà di tutta la popolazione e che culmina il 29 gennaio quando i manager dell’azienda, riuniti insieme a sindacalisti e politici, vengono assaltati con i resti di un rinfresco.

Dopo una prima vittoria sindacale, l’azienda riesce a chiudere il reparto magnetico l’anno seguente, grazie all’utilizzo di canoni di comunicazione volti a separare la classe operaia sia al suo interno che dal resto della popolazione. Da quel momento il declino di Terni accelera e la città appare in balìa di multinazionali che tengono la popolazione all’oscuro dei loro progetti. La situazione di incertezza e di lenta smobilitazione è simboleggiata dall’altra fabbrica Thyssen in Italia, quella di Torino, tristemente famosa per il gravissimo incidente del dicembre 2007, qui narrato attraverso gli occhi del primo soccorritore.

Le ultime pagine del libro sono importanti per comprendere la necessità di riaffermare il ruolo della politica in un settore industriale in balìa di multinazionali che sono tenute a rispettare esclusivamente le regole della concorrenza proprie dei regolamenti comunitari. Fuori da queste regole, le aziende possono scegliere dove e come localizzare licenziando e trasferendo migliaia di lavoratori.

I governi e l’opinione pubblica appaiono impotenti e si rifugiano nel dogma del libero mercato perché faticano a comprendere le dinamiche produttive, come l’importanza di mantenere l’acciaio magnetico anziché l’inossidabile. Di conseguenza, è necessaria una cultura politica che sappia studiare problematiche complesse e decidere quale politica industriale perseguire in modo che la fabbrica non sia considerata solo un mezzo al servizio degli azionisti ma soprattutto dei lavoratori e del territorio che la circonda.

Alessandro Portelli è considerato tra i fondatori della storia orale. Professore di Letteratura angloamericana all’Università «La Sapienza» di Roma, ha fondato e presiede il Circolo Gianni Bosio per la conoscenza critica e la presenza alternativa della cultura popolare. Collabora con la Casa della Memoria e della Storia di Roma e con «il manifesto».

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