di Alfredo Morganti – 31 ottobre 2017
Ne ho lette tante sulla Catalogna, ma non una che abbia indicato esattamente, a mio giudizio, quale sia il tema vero del contendere. Ossia il conflitto di sovranità. C’è chi ha parlato di soluzione federale, chi di PIL regionale, chi di antichi dissidi nazionalistici, chi di avventurismo, chi di linguistica, chi di Europa, chi di regionalismo, chi di esempio per l’Italia, chi di sgretolamento, chi di crisi dello Stato, chi di globalizzazione, chi di altro. Di tutto meno che di conflitto di sovranità, appunto. Perché oggi abbiamo di fronte, squadernato, un vero stato d’eccezione, non uno di quelli fasulli, che si citano sui giornali a ogni pie’ sospinto nelle situazioni più svariate. Ma uno stato d’eccezione effettivo e coi controfiocchi. Che non significa generica ‘crisi’ costituzionale, oppure mero effetto di un provvedimento emergenziale o di una decretazione sospensiva in termini temporali della norma, dinanzi cui tende inevitabilmente ad aprirsi un parapiglia politico-isituzionale dagli esiti non scontati. No, qui l’eccezione c’è, eccome. Ossia l’effetto di una decisione assoluta che tende a invalidare una norma generale e a creare le premesse per la fondazione di un’altra norma (e un altro Stato).
La Catalogna ha deciso la propria indipendenza, e lasciamo stare se ciò sia stato fatto in termini velleitari (sulla questione della ‘forza’ ci torno). La Catalogna ha pronunciato la propria sovranità in opposizione alla norma fondamentale, ponendo altresì le basi per la promulgazione di una nuova costituzione di tipo repubblicano. Ecco l’eccezione, in quanto condizione radicale per fondare un nuovo ordine e una diversa normazione. Lo strappo radicale, potremmo dire, il fatto ‘politico’ che lascia intravedere un nuovo ordinamento. Parliamo ovviamente di sovranità quale concetto limite, quale elemento dinamico che fondi costitutivamente lo Stato. Cerchiamo, naturalmente, di interpretare il famoso incipit schmittiano a ‘Teologia Politica’ in termini letterali: “Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”, ossia lo produce, e così facendo apre (o tenta di aprire) un nuovo capitolo ordinamentale a partire da un nuovo stato ‘normale’ ritenuto più adeguato. È curioso come in molti ancora leggano la preposizione ‘sullo’ come se fosse ‘nello’: come se l’eccezione fosse un evento autonomo o contingente, entro il quale ci si batte, solo successivamente alla sua venuta, per aggiudicarsi la sovranità in una gara, e come se la sovranità fosse ‘derivata’ dall’eccezione e non ‘inderivabile’ (in senso schmittiano, appunto). Come se si trattasse di una partita di calcio a campo e regole già date.
Qual è la cosa, se volete, curiosa? Questa: che il conflitto non è stato aperto dai vertici istituzionali e dalle potenze centrali dello Stato spagnolo, che invece si rappresenta come Stato ordinamentale e come tutore dell’articolo 155 della Costituzione, ma da una parte locale di esso, dalla regione catalana, che parrebbe disporre a occhio e croce di minore ‘forza’ politica e coercitiva (di qui il presunto velleitarismo) di Madrid. Compiere atti di sovranità senza forza (o con minor forza) è una contraddizione in termini. Ma è pur vero che la ‘forza’ politica è ben più che prevalere “sin dalla domenica sera”. Ben più che “vincere”. Inoltre, la forza politica oggi esprime anche potenza di risorse economiche, comunicative, culturali e persino emotive. E su questo si fonda l’atto di sovranità catalana, la decisione ‘sullo’ stato d’eccezione contro la norma fondamentale ispanica, ben più che nella esibizione di potenza coercitiva in senso stretto, di cui è invece titolare lo Stato nella sua totalità ordinamentale. Un atto di sovranità poggiato sul soft power, dunque, che è un ribaltamento dell’ipotesi classica, ma che, non di meno, risulta tale. Un’eccezione dei tempi moderni, nei quali la legittimazione politica deriva spesso dalla comunicazione, dalla finanza e pure dall’emotività pura del ‘popolo’, la cui evocazione è destinata ad accrescere questa potenza di fuoco.
Colpisce come tanti commenti abbiamo ignorato questi aspetti, e abbiano scelto altri standard interpretativi, mostrando così come la politica e la teoria politica oggi abbiano davvero imbroccato una brutta china. In fondo, ritenere che la partita si giochi solo sull’Europa, e per di più un’Europa di tecnica, di finanza, di burocrazia, ha prodotto una caterva di equivoci e fraintendimenti. Quelli per cui la politica stessa si possa ridurre in toto alla tecnica, oppure a dosati meccanismi istituzionali, o ancora a funzionali marchingegni economici, e da questi dipenda il nostro futuro di individui, di classi, di istituzioni. La fine della politica la si scorge anche nella convinzione diffusa, soprattutto tra le élite, che andare a scavare nei meccanismi tecnici aiuti di più che mettere in campo i partiti, le classi, le persone e il loro movimento. Che il sapere e le competenze possano di più della volontà e dell’organizzazione. Che la sovranità monetaria surroghi globalmente quella politica, pensando che la prima sia, in definitiva, la prevalente se non l’unica. Che le istituzioni siano aule sorde, grigie e prive di poteri reali. Che i mezzi sopravvengano i fini. Perché in fondo siamo prigionieri di una sorta di amor fati tecnico, che ci fa apparire inutile la volontà e gli uomini, e che cela, in sostanza, quella effettivamente in gioco di volontà.
Se così fosse, davvero bisognerebbe andarsene tutti a casa, lasciando qualche nostro campione di intelligenza a conquistare, e poi a presidiare, la famosa stanza dei bottoni. E invece sono le classi e le persone che fanno la storia: i servi non i padroni, la volontà organizzata delle persone non gli individui singoli, le istituzioni democratiche non gli ‘uffici’ per quanto costituiti da eminenti burocrati forgiati in qualche grande ateneo. La Catalogna è stata un’improvvisa irruzione di politica dinanzi a commentatori ed élite che di politica ne sanno poco e ne insegnano sempre meno. Che poi Puigdemont abbia torto o ragione poco importa. Io preferirei una Spagna unita, perché unire è un atto politico di grande responsabilità. Ma ‘Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione’. E saranno il conflitto, i rapporti di forza, la volontà, la potenza politica (e anche mediatica, purtroppo) a riconoscere, infine, come appropriato, adeguato e confacente lo stato ‘normale’ proposto come possibile soluzione dell’eccezione ‘sollevata’. Purché si abbia ‘forza’ politica dietro, nel senso prima detto, e non soluzioni tecniche disincarnate dal movimento reale. Mai come in questi casi la classe dirigente è obbligata ad attingere al catino sociale, e la politica alla propria forza autonoma, se ancora ne dispone.
(Lo so, è un po’ lungo)