La casa di Piero Vincenzi
Ogni sera tarda durante il Lockdown uscivo da una casa per andare in un’altra. Percorrendo le strade deserte in un silenzio di tomba. Solo qualche gazzella, l’ombra furtiva e dileguante di un rider in bicicletta e autobus illuminati da luci fioche come nei tram di Berlino est negli ’80. Un autista solitario, talvolta accompagnato da un solo passeggero seduto sul fondo. Mi sono chiesto spesso chi potesse essere quel passeggero notturno. D’onde venisse e dove andasse. A cosa pensasse mentre mi guardava dal finestrino. Forse che eravamo rimasti solo noi.
Mi ha detto l’Anna che ogni giorno, durante la serrata, prendeva il treno da San Giovanni e poi giunto a Bologna un autobus che lo portava all’ospedale per curare un tumore che lo aveva aggredito un anno e mezzo avanti e ormai giunto alla fase terminale. Sempre da solo, unico passeggero transitante nel limbo, col pass delle ragioni mediche in tasca. Una navetta che avanza lenta e caracollante nel paesaggio divenuto lunare. Gli umani receduti nelle loro nicchie, le cose allineate quali sono state lasciate. Come nelle civiltà misteriose scomparse tutto d’un tratto o nelle fabbriche abbandonate e serrate dai sigilli del curatore fallimentare. Un viaggio cimiteriale e mistico verso la casa ultraterrena. Il proprio funerale senza invitati. Il vanderer davanti all’isola dei morti di Bocklin. Unico corteo proteso verso la propria salma. Dead man walking in lockdown. In effetti Piero in una fase della sua vita amava dipingere. Figure informali, materiche e indefinite che seguendo Burri abbrustoliva col fuoco. E in un’altra si perdeva a scrutare gli astri col telescopio nella solitudine delle notti. Forse segni premonitori della grande malinconia e della stasi che avrebbero segnato l’ultima fase di vita.
La cronaca dice che circa due settimane fa è stato ritrovato disteso sul pavimento della casa delle Budrie. Trasferito in ospedale è stato trovato positivo al covid 19, cosicchè l’Anna, cara compagna che l’ha amato disperando per una vita intera e che dopo averlo perso come marito se l’era infine ripreso tutto intero al tempo della malinconia, non ha potuto accudirlo negli ultimi giorni. E’ morto nella notte fra il 28 e il 29 di Giugno, solo come un bergamasco, indi cremato come un gatto. Senza funerale. Sparito nell’informale, evaporato nel nulla. Come doveva essere secondo la sua volontà testamentaria, aliena a ogni orpello rituale. Essendo la vita coincidente con la sua essenza irrituale.
Piero lo conobbi nel ’69 quando frequentava la Suc col branco dei persicetani, i Marzocchi figli dell’Armando. la Ghelfi e altre avvenenti compagne della bassa ovest. Tutte slavate come tipico delle persicetane e anche di molti maschi. Frutto di ibridazioni barbariche di ignota origine. Forse popoli dell’est stanziatisi nel bordo golenale della Padusia. Magro, segaligno, capelli corvini e lunga barba. Una specie di Cacciari ruvido già in avanti nella facoltà di medicina. In prospettiva un ‘medico dai piedi scalzi’, un umanista missionario, uno psichiatra basagliano tratto da una famiglia di lavoratori autonomi urbani: nonno scarpaio, nonna venditrice. Progetto destinato però ad abortire proprio sulla soglia del parto, come illustrato in una memoria biografica allegata a ‘La generazione che non toccò il cielo’, volume edito da Minerva, curato da Garuti e da me postfazionato con un lungo saggio socio-antropologico che giudico fra le cose che mi son riuscite meglio. Mentre si reca a dare il ventiseiesimo esame di medicina (anatomia patologica, ultimo impegnativo step della scalata alla laurea) incontra un picchetto operaio e si abbandona al risucchio della lotta operaia. Finisce che non diventa medico per perdersi in uno stile di vita singolare a corrente alternata: professionismo politico, militanza, vita di boheme, precariato sociale. Un ‘uomo sciolto’. E’ stato a più riprese funzionario Pci, anche segretario del partito a Persiceto, e ha fatto innumerevoli lavori: muratore, amministratore informatico, porcaio, bracciante, operaio ceramico, raccoglitore di rifiuti, portiere di notte …..
Se si volesse azzardare una sintesi Piero era un tipo ‘eccedente’ e multiverso: uomo curioso, dotato di troppi talenti, scientifici e artistici, perciò destinati a restare in sospeso. Un uomo stabilmente al limite di più mondi o (il che è lo stesso) ipercinetico nello stesso posto. Un uomo multipolare con un mistero, un buco nero incomunicabile, incastonato nelle more dello spirito. Socievole quanto solitario, libertino quanto ascetico, operaio e aristocratico, per i fatti propri quanto generoso e leale sino all’inverosimile, comunista tutto d’un pezzo quanto libertario…..Alieno al danaro come ad ogni appagamento burocratico. Una autentica trasandatezza era il suo stile. Un mistico senza Dio. Dotato di forza interiore inesausta come un rovello. Del resto tale era anche la sua morfologia. Magro e con tono muscolare dimesso aveva nervi d’acciaio capaci di sovrumana energia. Un fisico da bracciante, nonostante la sua ascendenza urbana. Me ne accorsi quando riuscì a trasferire nella mia dimora in costruzione sulla Saragozza, praticamente da solo e per ben due rampe di scale, un pesantissimo pianoforte tratto da un saloon dell’ottocento. Venerava la donna e credo sia stato un amatore instancabile. : .
A compendio della sua vita si possono annoverare due ‘opere’ (nel senso Arendtiano del termine, per quanto effimera si sia rivelata la loro durata). Una di carattere collettivo: le realizzazioni politiche nella San Giovanni degli ’80, al culmine del ciclo berlingueriano. L’altra di carattere individuale: il cottage edificato alle Budrie. La casa di Piero.
Negli ottanta San Giovanni, la stalingrado della bassa, diventa un luogo di straordinaria vivacità intellettuale. Mentre vige la più grande casa del popolo dell’occidente e una biblioteca pubblica che non ha eguali (ivi son conservati, fra l’altro, gli scritti di Petazzoni, il grande storico socialista delle religioni), ma anche il centro Fanin covo dei ‘bianchi’ incattiviti, San Giovanni conosce le più ardite sperimentazioni: è recuperato il teatro comunale (vero gioiello) nel mentre Pellegrini, lo scenografo americano arrivato per caso da quelle parti, fa del Broletto un caso di post-modernità surreale. Sotto la segreteria di Piero si esperimentano forme d’avanguardia di democrazia partecipata e l’amministrazione comunale diventa un caso unico di gineceo comunista integrale. La generazione dei ’60 che frequentava come comitiva a sè stante la Jaime Pintor succede per intero ai padri dell’epoca agraria e resistenziale mettendo in fila una serie di sindaci di grande rispetto, dalla Serra alla Marani, passando per Antonio Nicoli (architetto, col quale ogni tanto ancora adesso è piacevole soggiornare a fianco della sua barca colma di libri) e Giorgio Nicoli, allievo dell’entomologo Celli prematuramente scomparso lungo la trasversale di pianura. Capitava di trovarsi talvolta nella casa di Piero e le discussioni erano fantastiche. Un vortice di idee. I persicetani erano bizzarri e creativi, piantati in loco e cosmopoliti. Persiceto caput mundi.
Ma la più grande opera di Piero è la sua casa alle Budrie, specie di controcanto del progetto ascetico razionalista di Wittgenstein degli anni ’20. Su un piccolo lotto sul quale insisteva un fienile diroccato edifica nei primi degli ’80 una casa a due piani. Anche nel suo caso c’è in campo una sorella che abita a fianco del lotto e che concede a Piero di soggiornare nel periodo di latenza in un solaio al quale si accedeva per una scala a pioli analoga a quelle che usano le galline nei pollai. E anche per lui vale il motto all’insegna del quale fu concepita la casa sulla Kundmangasse: tutto per la perfezione e il compimento dell’opera, senza rispetto per tempo e denaro. Infatti l’impresa di Piero si protrasse per ben tre anni e quanto al danaro, diversamente dalla famiglia Wittgenstein, semplicemente non ne aveva. Infatti tutta la casa è stata eretta a misura dei materiali di scarto prelevati brevi manu nelle tante case contadine dirupate che costellano la campagna bolognese: travi, pietre, infissi. Attingendo agli inerti della civitas rupta antiqua come era in uso nella città medioevale. Lo schema è semplice: un cubo su due piani per non più di ottanta/novanta metri calpestabili come base. Tutto il resto in progress modellando il manufatto a seconda dei materiali recuperati. Piero non ha mai abbandonato la curiosità per la tecnica (aveva costruito persino un igrometro). Seguendo un tosto manuale di costruzioni si fa ingegnere civile, idraulico, termotecnico, elettricista, falegname, mastro vetraio. Alla fine ne vien fuori qualcosa di assolutamente originale. Un ibridus architettonico che può ricordare varie cose: uno chalet alpino, un cottage rurale, una casa cantoniera, un casello ferroviario. Ogni piano è open space senza pareti divisorie: a terra cucina e sala, di sopra camera da letto e studio. Ovunque ci sono libri sistemati nelle scansie per scarpe del nonno. Il tetto è ripido e a spiovere dando alla fabbrica un vago carattere gotico. Le pietre sono disposte secondo motivi decorativi romanici e per le finestre inventa un mirabile escamotage. Le mura con bottiglie e damigiane multicolori cosicchè la luce è fatta trapelare dall’esterno, nella sua varietà, come nelle vetrate delle cattedrali. Si perchè, fra tutto il resto, la casa è anche una pieve votiva. E un battistero di campagna. Applica Loos alla rovescia facendo dell’ornamento austero ed autocostruito il più semplice e perfetto dei delitti. Astrazione ed eclettismo. Arte povera e filologia romanza. Tutto da solo, in tre anni….Che sforzo, che ingegno, che opera, che talento, che grandezza ! Tutti noi, figli di operai, avevamo lo sbuzzo dei costruttori. E’ un tratto della nostra generazione come coorte sociale specifica. Ma alzi la mano chi di noi o altri sarebbe stato capace di arrivare al suo livello di perfezione..
Ma tutto passa, si trasfigura e talvolta ne porta alla luce il senso.
Delle realizzazioni del partito berlingueriano incarnato dai nostri eroi sono rimaste alcune vestigia come ruderi piranesiani. Una civiltà defunta. Nel 2016, dopo la trasfigurazione renziana e la vasta mediocrizzazione pseudo modernista che l’ha segnata, San Giovanni, che fu il primo comune rosso della bassa, che ebbe a sindaco Odoardo Lodi, che fu sede dell’invenzione del socialismo municipale a base cooperativa e che ebbe in Marzocchi il primo sindaco della liberazione, la San Giovanni mirabile melange di tradizione rurale paleosocialista, di una manifattura manchesteriana e di intellighenzia urbana come solo nelle grandi kleinstadt, è passata nelle mani di tal Pelagatti. Ora venendo dalla persicetana ci si può imbattere in un cartello che ne recita il toponimo in dialetto bertoldesco, come si fosse in Brianza. Una tabula rasa dove la Lega spadroneggia. Forse la malattia cominciò quando il crogiuolo andò in frantumi. Con la svolta, quando ci dividemmo. Piero infatti si schierò col no e divenne anche capogruppo di Rc in comune per poi transitare a una solitaria esistenza da cane sciolto. Da allora ci perdemmo di vista e diventammo estranei. Il filo magico della nostra giovinezza s’era rotto. Forse aveva ragione lui, o forse non poteva andare altrimenti. Nondimeno mi sento in colpa. Amico mio.
Nel mentre la casa di Piero è sprofondata nel suo polisemico caos primordiale. Due anni fa, dopo quasi un terzo di secolo, mi decisi di andarlo a trovare. Volevo fare un servizio sulla casa nell’ambito di un reportage sullo sprofondo rosso della pianura occidentale. Ebbi difficoltà a ritrovare le Budrie e giunto sul luogo neanche riconobbi la casa. Infatti era completamente sommersa da un intrico di rovi, alberi e altra vegetazione selvatica. Sulla soglia Piero mi attendeva assieme ad Anna. Penetrammo nella casa come si entra in una tana silvana e passammo qualche ora a conversare nel fondo ascoso della dimora. La casa fagocitata dalla selva, che era come dovevano essere apparsi agli esploratori francescani i templi di Tikal e Palenque, era anche diventata sede di una intensa vita animale, uccelli e topi di campagna. Si era letteralmente radicata nella terra, ricongiungendosi al regno vegetale ed animale. E insieme issata in cielo come una foresta. Dietro di lei la pianura piatta, i campi arati a seminativo a perdita d’occhio fino alle colline. Feci molte foto, che poi ho perso cambiando il cellulare. Ma per fortuna l’Anna ne ha recuperate alcune che qui ripropongo. C’è un pezzo di facciata della casa inselvatichita e ci sono due foto dove io e Piero sostiamo a tergo della casa davanti alla campagna. Piero è fronte e retro con una foltissima barba bianca, resa ancora più evidente dal persistente nero dei capelli. Nenche mi accorgo, impegnato a far foto, che l’amico ritrovato è perso in chissà quali mondi. Sul confine fra la casa e i campi. L’ultima apparizione, un fotoshop fantasmatico, prima dell’ultimo viaggio, con tutta la comitiva a seguire. Siamo arrivati sin qui, in questo deserto, e neanche ce ne siamo accorti. We are lost, amico mio grande.