Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 13 marzo 2015
Perché dovrebbe essere ‘buona’ una scuola che affida al preside ogni potere, e lo tramuta nell’ormai classico ‘uomo solo al comando’, applicando anche qui, alla scuola appunto, la modalità ‘Italicum’? Circondato, peraltro, da uno staff di fedelissimi provenienti dall’albo territoriale, pronti a tutto per lui, pure a giudicare i ‘colleghi’ assieme agli studenti? Come se fossero una sorta di ‘consulenti’ esterni di cui la PA è già abbastanza sovraccarica numericamente e ideologicamente? Perché dovrebbe essere ‘buona’ una scuola che resta TALE E QUALE sul piano della didattica e dell’offerta formativa, e al più introduce l’inglese con metodo Clil (senza spiegare quanto tempo ci vorrà a introdurlo, visto che gli insegnanti dovrebbero essere formati), un po’ più di arte (perché siano un popolo di artisti?), di diritto (perché siamo i discendenti dei romani?) ed economia (perché, si sa, oggi la finanza domina e siamo nell’era della globalizzazione e delle merci interplanetarie?)? Dove starebbe la ‘bontà’ di tutto questo? Nel fatto che oggi, come dice l’esperto, ‘le scuole si scelgono i docenti’ e non il contrario? Che tradotto vuol dire: i presidi si scelgono i docenti.
Resta insomma l’impressione di una riforma (l’ennesima, perché restiamo in attesa della prossima futura) che si concentra sulla scatola, ma si disinteressa o quasi del contenuto. Che accoglie alcune massime del senso comune (i professori non valgono niente, ci vorrebbe una pagella anche per loro; oggi l’informatica è tutto; senza inglese non si va da nessuna parte, ecc.) e tenta di tramutarle in ideologia spendibile all’interno di un disegno di legge (senza il coraggio di farne un decreto). Dopo di che resta il tema della didattica, del ‘contenuto’, del senso della scuola italiana e della sua missione effettiva, che, nella riforma renziana sembra essere affidata unicamente ai presidi, ai ‘leader educativi’. Una missione da far tremare i polsi: cioè far studiare i nostri figli, indicare un metodo di studio, aggiornare le materie senza dimenticare che dai banchi si deve uscire con delle abilità imprescindibili. Abilità che restano il saper leggere (che vuol dire essere alfabetizzati secondo i parametri dell’epoca – dalla carta al digitale – ed essere capaci di un apprendimento efficace ma critico), il saper scrivere (che significa capacità di produzione culturale, dalla scrittura verbale a quella per immagini) e saper far di conto (ossia essere dotati di abilità computazionali, argomentative, di ragionamento logico, diciamo scientifiche in genere). La ‘buona’ scuola di Renzi quanto è davvero chiamata a concentrarsi su questo ‘core’ dell’istruzione, su ciò per cui ha senso un percorso educativo e formativo rivolto obbligatoriamente a tutti i giovani? Io dico poco.
Che cosa ne traggo? Che il progetto educativo, assente in questa riforma, che immagina la scuola come una specie di azienda pur non essendolo, non è più un compito pubblico nazionale, non è più a carico del Paese, ma dei presidi, ossia degli agenti educativi locali nella loro autonomia estrema, nella loro quasi solitudine. Che quel progetto nazionale si frammenta, trasformando la presunta autonomia scolastica in una deriva atomistica. Il Governo (e, traslando, la comunità nazionale) dice ai Presidi che da oggi tocca a loro (e ai loro consulenti-valutatori-formatori) il compito di dare un metodo, una forma e un senso all’afflusso di competenze verso gli studenti. E a nessun altro. Ogni istituto avrà la propria ricetta, i propri metodi, il proprio andazzo. Noi vi diamo i soldi pubblici, dice il Governo, dopo di che fate voi privatamente. La comunità nazionale si limita a questo e a qualche altra ‘linea’, dopo di che sembra essere abbandonata l’idea che i singoli istituti siano soltanto il ‘pezzo’ locale di un progetto organico, il cui contenuto è l’interesse, la cura e la responsabilità nazionale verso l’istruzione obbligatoria. Tutto è polverizzato in mille rivoli e in mille istituti, e le scuole già oggi appaiono (e ancor più in futuro) come gangli ormai disconnessi di un senso generale, pubblico che latita, schegge di una comunità fantasma che dovrebbe invece puntare sulla formazione come grande progetto nazionale. Era un grande fiume, appare sempre più come un sistema di rivoli che si disperdono. Una specie di suicidio culturale perpetrato scientemente e pure con una certa boria.