La bellezza del finito, il lavoro dell’infinito

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti,

Giuseppe Capograssi. La bellezza del finito, il lavoro dell’infinito – di Claudio Bazzocchi – Editoriale Scientifica

di Alfredo Morganti – 26 gennaio 2016

 La via ‘laterale’ e la passione del finito

Da quando il renzismo si è insediato al potere, la parola ‘futuro’ (inestricabilmente connessa al termine ‘nuovo’) ha preso possesso del nostro immaginario collettivo. Più si è inchiodati allo ‘zero virgola’ e più si inneggia al futuro con ottimistico impeto e ci ‘narrano’ magnifiche sorti e progressive. Renzi è come se stesse inchiodando il nostro sguardo in avanti, forse perché non vuole che ci soffermiamo troppo sul presente, e perché ci vuole sognatori di un progresso sempre annunciato ma viepiù tardo a manifestarsi. In realtà, sono sempre più convinto che la via d’uscita non sia dritta davanti a noi, non sia in un futuro di cui è difficile palpare la consistenza. E che il tempo della trasformazione, il tempo storico dei grandi mutamenti più che proiettato in avanti, sia un concetto attuale, ‘laterale’, ci sia già attorno adesso, più che proiettarsi all’orizzonte. Voglio dire che se c’è una chance, se davvero è possibile intervenire sugli assetti di potere, sulla geografia delle ricchezze e la distribuzione delle risorse, sulle ingiustizie sociali e sul tema concretissimo e attualissimo della libertà, se effettivamente possiamo cogliere un’opportunità, e immaginarla come una potente leva di ribaltamento, questa opportunità è qui, al nostro fianco, prossima, più che lontana e irrimediabilmente confinata a un orizzonte che s’allontana col nostro incedere.

Cito in soccorso del mio ragionamento la recente fatica di Claudio Bazzocchi, un filosofo che possiede in special modo il dono della passione e non solo il freddo raziocinio dei pensatori. Nel suo ultimo libro (Giuseppe Capograssi. La bellezza del finito, il lavoro dell’infinito, Editoriale Scientifica, Napoli, 2015) Bazzocchi, scandaglia il pensiero di Capograssi e affronta inevitabilmente il tema dell’altro. E scrive che l’autocoscienza in realtà è un’ ‘eterocoscienza’, per cui l’identità (con tutto quel che ne consegue) è anche il prodotto dell’altro da sé, è indirizzata verso l’altro (gli altri) ed è come se fosse eterodiretta. “Si diventa umani anche grazie agli altri” scrive, e si vive costantemente in una sorta di “tensione all’unificazione”, talché è chiaro che “sono gli altri a umanizzare la vita”, gli altri a fornirci le coordinate di pensiero, i simboli culturali, il linguaggio, i frame entro cui inquadriamo il mondo e contestualizziamo la nostra esperienza. Non esistono autocoscienze pure, uomini che divengano tali all’interno di un percorso solitario e autosufficiente, linearmente lanciato verso il ‘progresso’ o il supposto nuovo. In realtà la via d’uscita è da sempre già presente attorno a noi, ci ‘abbraccia’, è laterale al percorso lineare che vorrebbero far passare per ‘cambiamento’, per futuro, per novità. Non è così. Il mondo, la possibilità di imprimere una svolta che sia densa di storia e di umanità, è attorno a noi, non alla fine di una saettante autostrada di chiacchiere e distintivo. Se davvero l’uomo è un ponte tra finito e infinito, se davvero l’infinito può essere pensato e praticato (e qui infinito indica anche, per me, la pienezza dell’esperienza umana, la possibilità di incidere consapevolmente e liberamente sulla propria vita personale e sociale), ciò dipende dalla nostra apertura verso gli altri. Il “soggetto” ha bisogno dell’altro per compiere la propria umanità, e dunque essere protagonista della propria esistenza storica: ‘esserci’, dico io, sino in fondo.

C’è più verità e c’è più concretezza attorno a noi, dunque, che in certe narrazioni ottimistiche che ci sospingono a forza verso un’astratta, impalpabile, sfocata ‘novità’. La ‘salvezza’, se c’è, almeno per una quota ammissibile, è prossima, non è lontana, è concreta, non è invisibile. Il ‘Capograssi’ di Bazzocchi è come se ci tenesse stretti, aderenti all’oggi, al finito che siamo, pur pronti a balzare!, perché è questo il ‘metodo’ per rompere la schiavitù del mero piacere delle cose, e poter sottoscrivere invece il percorso dell’umanità, della cultura, del linguaggio, del riconoscimento dell’altro e degli altri. Qui entra la passione, qui è d’ausilio l’affettività. Il rapporto con gli altri non si costruisce nella dialettica stringente dei concetti e delle argomentazioni, né nelle prove di forza muscolari, tanto meno nella solitudine dei numeri primi, ma nella disposizione emotiva e ‘passionevole’. Io dico nel senso della collettività. Una disposizione che si rivolge lateralmente, ‘aggancia’ le esistenze che convivono nel nostro tempo e quelle che sono conservate in vita dalla nostra memoria, culturale per prima. Il vero ‘salto’ di qualità, il riflesso di infinito che illumina l’individuo e ‘apre’ un’altra fase storica, lo dobbiamo proprio a questo sguardo laterale, d’accanto, a questa prossimità concreta, quasi una fratellanza di destino, che non va confusa con le favole nuoviste e futurologiche di un uomo solo (solo!) al comando. “L’Io è tale proprio perché immerso in una oggettività sociale che lo limita da un lato, ma lo fa essere storico, pensante e quindi libero dall’altro” scrive Bazzocchi. Una chance di libertà che risiede nella prossimità umana e nella lotta quotidiana tra il finito che siamo e l’infinito che vorremmo essere. Gomito a gomito con chi, oggi, adesso, testimonia questa nostra stessa finitezza, e questa stessa passione, ma aspira come ognuno di noi a dare finalmente un senso e una densità alla propria esistenza.

(PS Claudio mi scuserà se ho forzato un po’ l’interpretazione del testo, ma mi ha sospinto proprio la passione. Mi scuserà anche se in poche righe non potevo certo rimandare la straordinaria ricchezza delle sue argomentazioni e la forza delle passioni che circolano nelle pagine del suo bel libro Emoticon smile ).

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