Fonte: Rassegna sindacale
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Dire, come fanno gli economisti americani più autorevoli, che all’origine della grande crisi scoppiata nel 2007 ci sono dei palesi problemi di diseguaglianza cresciuta è un modo diverso per sostenere che a provocarla sono state anzitutto l’intensificazione dello sfruttamento, la drammatica perdita di valore del lavoro, l’introduzione di contratti all’insegna della precarietà giovanile come varianti di figure servili. Le pratiche speculative irresponsabili adottate dalla finanza globale sono solo un epifenomeno, appariscente e cinico nei suoi risvolti, ma non la causa reale dei crampi prolungati del sistema economico. Dietro la grande contrazione globale, prima ancora delle consuetudini amorali degli agenti della finanza, c’è un mutamento epocale intervenuto nei rapporti di forza tra capitale e lavoro.
Per circa trent’anni, il lavoro, grazie alle sue organizzazioni sindacali e ai suoi soggetti politici di riferimento nelle istituzioni di governo, ha strappato diritti, ha concordato politiche pubbliche e ha indotto il profitto privato al reinvestimento produttivo e alla redistribuzione del reddito per sostenere la strategia di cittadinanza e la relativa forma di mobilità sociale. Appena però i margini di plusvalore si sono ristretti, l’impresa ha preso le sue contromosse strategiche: delocalizzazione, liberalizzazioni, deregolamentazione del mercato globale, precarietà, privatizzazioni, cancellazione dell’influenza legislativa del sindacato. Così, spostando la contesa nello spazio globale incustodito, dove si assiste alla riesumazione della lex mercatoria, e sganciando il conflitto dal terreno troppo insidioso coperto dallo Stato e dalle elezioni competitive, ha ristretto i margini della democrazia e ha ampliato il dominio reale del capitale.
L’eguaglianza perduta ha a che fare con lo svuotamento sostanziale della democrazia ordinato dal capitale, che ha raggiunto una più fitta interconnessione nelle reti globali della produzione e se ne avvale con insistenza per ricattare, sorvegliare, minacciare sfaceli in caso di inopinata adozione di politiche poco in sintonia con quelle reclamare dai signori della concorrenza e ventilate dalle influenti agenzie di valutazione. Per comprendere il senso dell’eguaglianza smarrita, più che alle rassicuranti formule di un certo costituzionalismo dal tono aconflittuale (nelle pure carte fondamentali, solennemente proclamate in ogni dove, esso trova la risposta a tutto, e quindi i giudici delle leggi sono preferiti alla lotta e al sindacato di classe), occorre guardare a una riflessione di Spinoza.
Il filosofo olandese scriveva nel Trattato teologico-politico che “il mio diritto è determinato esclusivamente dalla mia potenza”. Se un soggetto o una classe non ha la potenza sociale effettuale, per sorreggere un diritto rivendicato o anche un tempo promulgato in una qualche norma, la sua richiesta di tutela nei diritti si riduce ad una pretesa vuota. Il diritto esigibile ha sempre dietro la potenza, senza di essa l’eguaglianza è una istanza etica, priva di una stringente presa reale. Spinoza aggiungeva anche che “se uno trasferisce all’altro una parte della potenza di cui dispone, cede anche, necessariamente, una parte corrispondente del suo diritto”. Sul versante dei rapporti sociali, ciò significa che se una classe perde la potenza, e quindi la sua forza reale di interdizione svanisce, i diritti diventano delle mere formule edificanti.
La potenza sociale del lavoro è all’origine dei principali diritti riconosciuti a tutti i cittadini nella loro vita di relazione. Molti diritti sociali divenuti fondamentali, prima sono nati in fabbrica, strappati cioè con la dura lotta operaia, e poi si sono istituzionalizzati, cioè estesi per legge a tutti i cittadini, quali contrassegni della civiltà giuridica moderna. L’eguaglianza reale rinvia perciò alla centralità costituzionale della classe lavoratrice che con i suoi conflitti ha indotto il capitale a ricorrere a forme di civilizzazione del suo dominio. Senza questa potenza organizzata del lavoro, la stessa che ha redatto lo statuto dei lavoratori che il governo vorrebbe strappare, il capitale torna alla sua vocazione originaria: quella di ridurre il salario del corpo che lavora al livello assai angusto della mera sussistenza fisica, della riproduzione delle condizioni di vita elementare della forza-lavoro.
Dietro ogni libertà dei moderni che segue lo spirito dell’eguaglianza c’è la memoria di un conflitto di classe superato e di uno scontro politico vinto, cioè l’eco di battaglie di massa per costringere il capitale a riconoscere che quella del lavoratore non è soltanto una energia fisica acquistabile a buon mercato con la fictio juris del contratto. E’ un soggetto che, solo se rinuncia ad essere un atomo irrelato e scopre l’arte dell’associazione con gli altri per accumulare una stabile potenza collettiva, acquisisce la dignità sociale della persona e edifica una città più eguale.
A chi sostiene che la esagerata libertà conservata per i padri garantiti succhia la libertà ormai violata dei figli precari va ricordato che è esattamente il contrario: solo la difesa vittoriosa di antichi diritti del lavoro, la sconfitta della inaudita volontà di potenza del capitale e del governo dei suoi sogni, può restituire dignità al lavoro di tutti. Non esistono giovani e anziani, ma capitale e lavoro impegnati nella multiforme lotta per l’eguaglianza o per la discesa nella marginalità sociale. Chi lo dimentica non compie una operazione neutra, irrilevante, dà un contributo a isolare il sindacato, l’ultimo guardiano dell’eguaglianza in una società dal volto sempre più di classe, oppressivo e inospitale.
Per la prima volta dal dopoguerra, la classe lavoratrice italiana scende in piazza a difendere dei diritti irrinunciabili e a tracciare nuovi percorsi di eguaglianza senza la presenza di alcun partito amico. Il sociale senza il politico non è mai un indizio di forza. Al contrario, è una esperienza drammatica per il mondo del lavoro, mai così diviso e abbandonato dalla politica. Ma riconoscere la condizione di estrema solitudine, non occultarla, è la strada migliore per ricostruire una potenza sociale del lavoro, che se ritroverà un sostegno di massa non lascerà certo indenni gli equilibri precari delle sbiadite forze politiche odierne. Per questo Piazza San Giovanni, come in altri tempi, torna ad essere la bella piazza della politica e della libertà, il luogo vitale per la ricostruzione della potenza del lavoro e per la ricerca dell’eguaglianza, ancora possibile.
Articolo apparso sul settimanale della Cgil “Rassegna sindacale”.