Fonte: L'Espresso
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di Alessandro Gilioli – 29 marzo 2016
All’articolo 6, comma 5, il testo recita così: «Decorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta». Sembra uno scherzo, invece è il decreto legislativo “sulla trasparenza”, all’italiana. Che prevede appunto il silenzio-diniego: cioè consente allo Stato di non rispondere ai cittadini che vogliono avere accesso ai dati della pubblica amministrazione, senza fornire alcuna motivazione e senza alcuna sanzione per il proprio rifiuto. Ma non è finita: subito dopo, nella norma si aggiunge che non c’è alcuna chance di ottenere risposta se la domanda può essere intesa come relativa a «sicurezza pubblica e nazionale, difesa e questioni militari, relazioni internazionali, interessi economici o commerciali di una persona fisica o giuridica» e molte altre eccezioni la cui vaghezza tiene il più ampio possibile l’ambito dei “non se ne parla”. Ed è ovviamente la pubblica amministrazione a decidere se questa attinenza c’è o no.
Doveva essere il Freedom Information Act italiano, cioè la norma per dare ai cittadini il “diritto di sapere”: quali immobili possiede un Comune, ad esempio, e a chi li affitta a quali prezzi; o quanto è costato ai contribuenti il viaggio di un ministro su un “aereo blu” o il ricevimento per l’inaugurazione di un cantiere. Ma anche quali sono stati i criteri di assegnazione di un appalto e quali i tempi per la sua realizzazione; quanti veleni ci sono nell’aria e nell’acqua di una città; come sono stati spesi gli investimenti promessi dai politici nelle loro dichiarazioni; per quali motivi e con quali compensi è stata assegnata una consulenza a spese dei cittadini; chi si è intascato gli orologi regalati da un governo straniero durante un incontro di Stato; chi ha deciso di velare le statue a Roma durante la visita di un leader estero. E così via.
In tutto il mondo sono quasi 100 i Paesi che hanno adottato un Freedom of Information Act. La Finlandia ce l’ha dal 1951. Gli Stati Uniti dal 1966: quando l’opinione pubblica voleva avere più informazioni sull’andamento e i costi della guerra nel Vietnam. Nel Regno Unito esiste dal 2000. Negli ultimi 15 anni leggi simili sono state varate pure in Zimbabwe, Ruanda, Uganda, Nigeria, Guinea, Tunisia, Bangladesh e Nepal.
In Italia invece la politica ha fatto a lungo finta di niente. Anzi, nel 2011, Berlusconi e Alfano firmarono un decreto per secretare molti atti del loro governo. Renzi, nel suo discorso d’insediamento alla Camera, si impegnò in una promessa nuova e radicale: «Ogni centesimo speso dalla pubblica amministrazione deve essere visibile a tutti: questo significa non solo il Freedom of Information Act ma un meccanismo di rivoluzione nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione per cui il cittadino può verificare giorno dopo giorno ogni gesto che fa il proprio rappresentante». Splendide parole: a cui tuttavia per ora ha fatto seguito solo questo testo-beffa, espressione del ministero per la Semplificazione guidato da Marianna Madia.
Il Consiglio dei ministri l’ha già approvato “in via preliminare”, ma lo deve rivotare a fine aprile, dopo i pareri delle Camere: ci sarebbero quindi ancora i margini per correggerlo profondamente. Del resto anche il Consiglio di Stato ha fatto presente quanto sia paradossale una legge “sulla trasparenza” così opaca. Secondo Foia4Italy, associazione che da anni si batte per un Freedom of Information Act nel nostro Paese, «questo testo sembra disegnato apposta per scoraggiare la pubblicazione e penalizzare l’accesso». Mentre per Transparency International solo «l’accesso completo agli atti della pubblica amministrazione è un’arma per combattere la corruzione».