L’ ipotesi di Gaia: il Buen Vivir!

per Maddalena Celano
Autore originale del testo: Maddalena Celano
Fonte: Ideologia Socialista
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Preambolo

Oggi, la stragrande maggioranza delle cause di morte sul pianeta sono sempre più fame e malnutrizione, nonostante sia difficile da credere visti gli enormi sprechi di cibo e la sovrapproduzione di beni alimentari. Come scrisse, qualche anno fa,  Giuseppe De Manzo, ogni giorno trentacinquemila bambini muoiono di fame. Un sacrificio eccessivo da chiedere, fondato sulla esclusione di altri esseri umani e su una riedizione di un feudalesimo razzista ed escludente. Ma anche se volessimo continuare ad ignorare il problema che chiama in causa tutti e tutte, prima o poi persino una parte della componente privilegiata che corrisponde a meno di un sesto della popolazione planetaria farà i conti con la limitatezza delle risorse della Terra e con i cambiamenti catastrofici che potrebbero darsi attraverso politiche completamente sbagliate e prive di qualsiasi concetto di limite biofisico. Va da sé che, non avendo a disposizione altri tre pianeti e non potendo accettare l’ esclusione pianificata di più di cinque sesti dell’ umanità, non ci rimane che quest’ unica casa comune da difendere, gestire e amministrare.[1]  Fino a non molto tempo fa, chi parlava di crisi veniva puntualmente bollato come una Cassandra, ciò che dicevano gli ambientalisti, gli economisti alternativi e chi aveva un minimo di vedute più ampie, veniva immediatamente recepito come un monotono refrain  che in pochi in pochi avevano piacere di sentire. In questo modo, parole anche molto lungimiranti o avvertimenti pienamente giustificabili rischiavano di svuotarsi di significato e quindi finivano per essere inascoltati. Un po’ perché erano e sono “scomode verità”; un po’ perché anche l’informazione e la comunicazione riflettono in pieno il modello consumistico: meglio stare a sentire una buona bugia  o qualcosa che distragga, piuttosto che affrontare una realtà difficile e in questa maniera più facilmente prorogabile. Oggi, invece, “crisi” sembra diventata la parola d’ordine, rimbalza dappertutto: perché la crisi, o meglio le crisi sono più che mai evidenti. Così evidenti che anche i principali responsabili di questo disastro si sforzano di trovare delle soluzioni: sono quelli che hanno sempre fatto “orecchie da mercante”( la metafora non è casuale) di fronte agli appelli delle Cassandre, messe in qualche modo a tacere perché  usavano prendere le distanze dallo stile produttivista e consumista con la sete del profitto a ogni costo, dalla  miracolosa mano del libero mercato che, secondo loro tutto dovrebbe aggiustare. Ora, tradendo una certa ansia, tentano di tranquillizzarci con le loro proposte obsolete è palesemente inadeguate. É come cercare di curare un ammalato di diabete portandolo in pasticceria. L’urgenza è di porre rimedio, visto che si tratta di problemi che iniziano anche a svelare tutta la loro rilevanza economica e ad intaccare forti interessi globali. Potrebbe indurre i figli del consumismo a credere che chi ha causato il problema possa anche essere in grado di risolverlo.[2] Vandana Shiva, in questo libro,  ci spiega lucidamente come queste “soluzioni” non farebbero altro che aggravare la situazione continuando ad affamare i popoli, privarli della terra, peggiorato la qualità della vita di tutti, da nord sud del mondo, su un pianeta sempre più povero, caldo, non fertile inquinato. Le Cassandre si trovano di fronte al doppio sforzo di dover, da un lato, continuare seriamente a denunciare il danno, e dall’altra dover porre le basi perché non si realizzi anche la beffa: nascosta nei biofuel, nelle strategie delle multinazionali della grow business, nella promessa di infrastrutture dove non ci sono strutture, nelle fallaci  politiche climatiche che i governi e le istituzioni mondiali propongono, a livello globale e locale. La complessità dei problemi che  si sono venuti a creare fa sembrare che la situazione ci sia completamente sfuggita di mano: è riduzionista chi pensa soltanto in maniera lineare, che viene dal culto del libero mercato non riesce a individuare una soluzione unica applicabile ovunque, un processo che inverta le tendenze, un  nuovo accordo multilaterale fra Nazioni oppure cerca di individuare un nuovo prodotto miracoloso. Sono tutti tentativi pericolosi giacché quello che serve è un reale cambiamento dei nostri modi di pensare e operare: un nuovo Umanesimo, una nuova mentalità, nuovi punti di vista nell’affrontare le sfide che ci troviamo di fronte con un approccio diffuso differenziato sui territori, un nuovo approccio sistemico. Ma non si tratta di soluzioni troppo difficili, spesso sono soluzioni già applicate in quella metà del mondo che è considerata marginale e arretrata; quella metà del mondo composta da contadini di piccola e media scala, da pescatori, da artigiani che non hanno mai voluto, in certi casi neanche potuto pur volendo, abbandonarsi all’agroindustria. La vera soluzione è nelle pratiche virtuose, nella volontà di tanti produttori di cibo che conservano un rapporto costruttivo con la natura ma anche in tanti cittadini che cambiano e loro abitudini perché consapevoli di essere altrimenti complici, con il loro modo di consumare, del sistema che sta mettendo in ginocchio il pianeta. Queste azioni sono difficili, sono individuali e come spiega Vandana Shiva, pongono al centro del loro mondo la terra, il suolo e non il petrolio. Si tratta del rinvigorimento delle economie locali, che perseguono la sovranità alimentare dei popoli nel rispetto della diversità biologica e culturale, che hanno come loro caposaldo la Terra, metafora perfetta, simbolo della ancestrale metabolismo del cosmo, di cui l’uomo fa parte e di cui cibo è l’elemento di congiunzione, è indispensabile mettere al centro la Terra perché significa mettere al centro il cibo, che rappresenta il nostro rapporto con la madre terra; significa mettere al centro l’uomo e non il prodotto. Dice bene Vandana Shiva: queste crisi vanno viste come un’opportunità per scatenare la nostra creatività. Ci obbligano a riconsiderare cosa significa nutrire l’uomo, che non ha bisogno di carburanti ma de frutto della terra che più che di un carburante, di un petrolio per il corpo che è anche nutrimento per le menti, stimolo intellettuale, il benessere di sentirsi parte di una comunità con le proprie tradizioni, la possibilità di partecipare al processo democratico in un mondo consunto e segmentato dai prodotti seriali di consumo, consumo spasmodico, personalizzato, svuotato, che ci rende più poveri, tristi e malati. C’è nel mondo un’economia che conosce la differenza tra prezzo e valore, dove è contemplata la crescita umana, non un indice macroeconomico: e l’economia della comunità, quella locale, partecipativa, creativa; l’economia della natura o della felicità.[3]

A tal proposito, l’ attivista femminista e premio Nobel per l’ economia, Vandana Shiva scrive: 

 […]  sono passati 200 anni da quando ha avuto inizio l’era del combustibile fossile e ora le emissioni CO2 stanno creando l’effetto serra che ha causato il riscaldamento globale è provocato la crisi climatica. L’aumento più che probabile fra i 3 e i 5°C della temperatura  determinerà la fusione dei ghiacciai e delle calotte polari, con il conseguente aumento delle alluvioni, delle esercita e dei cicloni. Alcuni di questi effetti sono già fatti sentire.

 Se non fermiamo l’aumento  della temperatura, la crisi climatica cambierà drammaticamente il nostro stile di vita. E deciderà se continueremo a vivere o se periremo. Oltre al problematico “dono” del caos climatico, nel petrolio a un altro limite: il peak oil. Teorizzato da M. King Hubbert  dal 1956, esso rappresenta il momento in cui il mondo raggiungerà il livello più alto di produzione petrolifera. la produzione petrolifera da lì in poi non potrà che diminuire, determinando così un aumento dei prezzi. La crescita senza precedenti del prezzo del petrolio nel 2008  è il segnale di una crisi petrolifera imminente.  Esperti del calibro di Jeremy Leggett  e il dottor Colin Campbell dell’  Association  for the Study off Peak Oil  sostengono che potremmo avere già raggiunto il picco e, anche se mancasse ancora qualche anno, ciò inevitabilmente avverrà. Come dice Heinberg,  “la festa è finita”. Il peak oil e la fine del petrolio a basso costo rendono obbligatorio il cambiamento del nostro stile di vita. Dobbiamo affrancarsi  dall’ oro nero. Dobbiamo reinventare la società, la tecnologia e l’economia. Dobbiamo farlo in fretta in modo creativo. Possiamo farcela. Il caos climatico e il peak oil s’ incrociano con una terza emergenza: la crisi alimentare. Essa deriva dall’impatto combinato dell’industrializzazione della globalizzazione dell’agricoltura. Le stesse forze e gli stessi meccanismi che hanno promosso il cibo a costi accessibili ora lo allontanano dalla portata della gente comune. I prezzi dei prodotti alimentari stanno montando in tutto il mondo, suscitando in più di trentatré paesi sommosse popolari provocati dall’ aumento dei prezzi del cibo. Nel 2008, ai primi di giugno, le Nazioni Unite hanno convocato una riunione straordinaria per affrontare la crisi climatica e la conseguente emergenza alimentare. Come era prevedibile, i soliti interessi corporativi che hanno dato origine alle due crisi hanno tentato di proporre come cura la malattia stessa:  una maggiore quantità di fertilizzanti chimici ricavati dal combustibile fossile; più semi ibridi e geneticamente modificati, non rinnovabili e selezionati per reagire all’uso intensivo di prodotti chimici; un maggior controllo dei prodotti alimentari da parte delle multinazionali e una maggiore globalizzazione del commercio. La crisi alimentare ne riflette una più profonda: la condizione di una popolazione “in eccesso” o soggetta allo spostamento e, di pari passo, un potenziale di violenza e instabilità sociale e politica. Lo sfruttamento delle persone si fonda sul fatto  di negare il cibo a milioni di individui, così come l’abolizione di mezzi di sussistenza agricoli si basa sulla sostituzione dell’energia umana con macchine alimentate da combustibili fossili.  Nel modello industriale la definizione stessa di produttività equivale a quella di lavoro: vale a dire, meno esseri umani vengono utilizzati per la produzione più “produttivo” è il procedimento; anche se questo utilizzerà più energia e più risorse e anche se, in proporzione, produce meno di quanto consuma. Mentre guerre sempre più estese, l’espansione coloniale e la schiavitù, per citare solo alcune cause, hanno da sempre provocato distruzione e sofferenza, mai prima d’ora le azioni di una parte dell’umanità hanno minacciato l’ esistenza  dell’intera razza umana. Ci troviamo oggi di fronte a una triplice convergenza di crisi, ognuna delle quali minaccia la nostra sopravvivenza.

–          Il clima: il riscaldamento globale mette a rischio la nostra stessa sopravvivenza come specie.

–           L’energia: il peak oil rappresenta la fine del petrolio a basso costo che ha alimentato l’industrializzazione della produzione e la globalizzazione del consumismo.

–          Il cibo: la crisi alimentare è una conseguenza della convergenza del cambiamento climatico, del peak oil e dell’impatto della globalizzazione sul diritto al cibo e al sostentamento dei più poveri.

 La crescente crisi alimentare è,  fra le tre,  quella che minaccia più direttamente la sopravvivenza dei poveri. La crisi alimentare nasce da due processi storici: uno di vecchia data, l’industrializzazione dell’agricoltura e lo sradicamento dalla terra degli agricoltori delle famiglie contadine, e uno più recente, gli effetti della globalizzazione e della liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli sul diritto al cibo e sulla sicurezza alimentare. L’ impatto dei cambiamenti climatici sulla produzione agricola è assieme a false soluzioni, come la produzione di biocarburanti industriali che tolgono cibo e terra ai più bisognosi per favorire le insostituibili necessità energetiche dei più ricchi, contribuiscono a esasperare ulteriormente la crisi alimentare. Possiamo e dobbiamo reagire in modo creativo a questa triplice crisi e superare, allo stesso tempo, la disumanizzazione, la disuguaglianza economica e la catastrofe ecologica. La crisi energetica e quella derivante dal cambiamento climatico sono un’unica sfida sociale ed ecologica. Primo, la sopravvivenza stessa della specie umana è minacciata. Secondo, nessun’ altra minaccia è altrettanto globale: non possiamo evitarla in alcun modo. Terzo, il cambiamento climatico si ripercuote su numerose attività dell’uomo: sul modo di spendere, di muoversi, di vivere e di mangiare. Le soluzioni non possono limitarsi a una o due di queste attività, ma dovranno toccare tutti gli aspetti della nostra esistenza. La moderazione e l’adattamento devono riguardare ogni ambito della nostra vita. Quarto, i cambiamenti climatici sono causati da quello che facciamo al pianeta e dall’impatto di queste azioni sul su di esso. L’aria, l’acqua, la terra, la biodiversità e l’energia sono tutti elementi interdipendenti del mutamento climatico; ne sono la causa e la soluzione. Quinto, i meno responsabili del cambiamento delle condizioni climatiche sono quelli che più lo subiscono. Gli agricoltori, le popolazioni indigene e gli artigiani che vivono al di fuori dell’ economia industriale globalizzata e che non hanno minacciato l’ambiente né altri esseri umani sono le prime vittime del caos climatico. Negli ultimi anni più del  96% dei decessi collegati ai disastri naturali si è verificato nei paesi in via di sviluppo. Nel 2001, centosettanta milioni di individui del mondo sono stati vittime di disastri naturali, il 97% dei quali con le collegabile al caos climatico. Sesto, gli individui meno responsabile dei cambiamenti del clima sono quelli che più resistono a un uso distruttivo dell’economia industriale globalizzata: le donne, i commercianti di strada e i venditori ambulanti che si trovano a fronteggiare le imponente sistema energetico alimentato dal combustibile fossile e uno “sviluppo” dipendente dallo sfruttamento intensivo delle risorse, ma che rifiutano di essere sradicati e di essere considerati individui da sfruttare, offrendo un altro modello e un’altra visione del potere e della ricchezza, della natura e della cultura.[4]

Per queste ragioni ho deciso di esaminare le diverse prospettive sul Buen Vivir (Sumak Kawsay, in lingua quechua) o Vivir Bien (Suma Qamaña, in lingua aymara), una proposta avanzata dai leader indigeni dell’Ecuador e della Bolivia, che è stata ripresa da altri popoli indigeni e intellettuali latinoamericani ed europei. Il Buen Vivir, che proviene dal profondo delle culture indigene, può essere compreso solo da una prospettiva interculturale, poiché i leader stessi raccolgono nella loro problematizzazione elementi che sono attualmente dibattuti anche nel mondo occidentale, mentre intellettuali e attivisti non indigeni recuperano le proposte fatte dai nativi ma forniscono nuovi elementi di riflessione sullo sviluppo ecosostebile.

 Dalla duplice visione dei popoli indigeni, osserviamo che i leader indigenisti costruiscono il loro discorso, da un lato, dal confronto/scontro con il sistema capitalista prevalente e con il modello neoliberista, e dall’altro, dal recupero di elementi culturali locali ancestrali, ma anche da elementi culturali occidentali “risignificati” secondo i bisogni delle popolazioni native. In questa costruzione discorsiva, i leader indigenisti cercano di mostrare le qualità delle loro culture di fronte al sistema capitalista, ma hanno innestato anche in un dialogo permanente con il mondo occidentale.

Tratterò anche la visione che il pensiero critico latinoamericano ha costruito attorno al Buen Vivir, dalla necessità che è stata sollevata, di recuperare altre conoscenze e aprirsi al dialogo interculturale per offrire proposte alternative alla crisi della Cultura Occidentale.

 Il Buen Vivir/Sumak Kausay/Suma Qamaña: la proposta dei popoli indigeni

Che cos’è il Buen Vivir?

Una definizione condivisa

Buen Vivir è un principio costituzionale indigenista basato sul ´Sumak Kawsay´, che include una visione del mondo centrata sull’essere umano, come parte integrante dell’ ambiente naturale e sociale. Nello specifico, il Buen Vivir è: il soddisfacimento dei bisogni basici, il raggiungimento di una dignitosa qualità della vita, amare ed essere amati, il sano “fiorire” di tutti, in pace e armonia con la natura e il prolungamento indefinito delle culture umane. Buen Vivir significa avere tempo libero per la contemplazione e la propria emancipazione, affinché le libertà, le opportunità, le capacità e il potenziale reale degli individui possano ampliarsi e prosperare in modo tale da raggiungere simultaneamente ciò che la società, i territori e le varie identità collettive, valutino come una meta desiderabile nella vita (sia materialmente che soggettivamente e senza produrre alcun tipo di dominio sull’altro). I popoli indigeni propongono un “buon vivere” (Sumak Kawsay), che si esprime nel modo di essere e vivere nel mondo. Si collega l’essere umano con la natura in un rapporto di armonia reciproca.  Si riferisce all’equa distribuzione della ricchezza, al rispetto della diversità, all’etica della convivenza umana. Richiede la garanzia dei diritti delle persone e dei popoli. Si riferisce alla comprensione della terra come “madre”:

Per queste ragioni, il buen vivir occupa un posto peculiare tra le potenziali idee-guida di modelli alternativi a (o seriamente correttivi di) quelli del capitalismo attuale: è una forma di radicalismo istituzionalizzato che – si può aggiungere – non nasce da rivoluzioni che si sono consolidate in forme istituzionali (come quelle che, nel corso del Novecento, hanno

conosciuto ad esempio il Messico o Cuba), ma da profonde riforme della democrazia nei rispettivi paesi. C’è poi ancora un fondamentale motivo di specificità di questo paradigma: esso intende ispirarsi ad una tradizione autoctona, aspirando ad integrarla con l’eredità che proviene dalla cultura dei colonizzatori iberici. Una tradizione che, orientata da una visione comunitaria che pone a fondamento della vita buona l’armonia del cosmo e l’equilibrio tra l’uomo e la natura, non solo dà piena dignità ai popoli indigeni americani nei confronti della

popolazione di origine iberica, ma mostra l’importanza del loro contributo alla risoluzione di un problema di fondo dell’umanità intera. Potremmo dunque asserire che il concetto del buen vivir (o sumak kawsay, o suma qamaña, come sarebbe forse più appropriato dire, conservando le dizioni delle lingue originarie) si presenta al tempo stesso come culturalmente specifico, ma capace di aspirare ad un ruolo cosmopolita. Con ciò prende implicitamente le distanze da idee che a loro volta si presentano come dotate di validità universale, ma che, per così dire, non accettano di essere espressione specifica della cultura occidentale, in quanto presuppongono una automatica equivalenza tra universalismo e valori europei: ciò vale in

modo particolare per principi ispirati ad un ottimismo tecnologico e alla fiducia nell’economia di mercato, come è il caso ad esempio della già ricordata filosofia smart o di alcune interpretazioni della sostenibilità.[5]

 

 Per questo motivo, la metodologia per promuovere un processo di sviluppo autentico e alternativo non è quella di “imporre” questo o quel concetto pre-elaborato, ma piuttosto partire dalle comunità, dai gruppi umani specifici e chiedere loro cosa sia per loro lo sviluppo, o meglio ciò che è per loro la “buona vita”; Quando lo verbalizzeranno con le loro stesse parole, capiremo il loro paradigma basato su una vita piena e il loro diritto di ottenerla nel dialogo, nella pace. Quindi, l’ idea di sviluppo non si crea solo “dal basso” (dai livelli locali o sviluppo locale) ma “dall’interno”; In altre parole, se lo sviluppo non parte dallo spirito delle persone, non è uno sviluppo autentico. Dalla solidarietà e dalla fraternità, nella misura in cui l’opzione per lo sviluppo è una decisione umana, implica una decisione etica. Raggiungere una buona vita implica l’aiuto reciproco di coloro che costituiscono comunità o società, qualunque sia la loro razza, credo o posizione nella società. Ma la vera sfida è la preoccupazione per chi è reso emarginato, escluso, anche da processi o organizzazioni di mutuo soccorso. Pertanto, il Buen Vivir è la chiave per raggiungere una vera giustizia sociale, climatica ed ecologica e un contributo alle nuove concezioni e pratiche dell’umanità, specialmente oggi quando l ‘”ordine stabilito” a livello globale è in crisi ed è necessario accogliere nuove e valide alternative. Come alternativa globale, il Buen Vivir riporta chiare ripercussioni sul tenore di vita delle persone. Fin dall’inizio, si mette in discussione la visione del “libero mercato” o solo “economicista” dell’attuale “ordine costituito”, che enfatizza molto il cosiddetto “homo economicus”. La proposta ripropone la concettualizzazione stessa della persona umana, la sua relazione di solidarietà e sostenibilità e la cura adeguata della Casa Comune, come dice Papa Francesco nell’ Enciclica “Laudato Sì”.[6] In questo senso, di fronte al “consumismo”, si propone un consumo etico e responsabile, basato sulla soddisfazione dei bisogni primari e non sul superfluo. Propone una produzione responsabile, orientata non principalmente alla massimizzazione del profitto, ma ai bisogni primari delle persone. Articolare sia il consumo etico che la produzione responsabile, in un circuito dell’economia sociale e solidale che si basa su questi principi. Questa alternativa si basa sulla stessa pratica dei popoli indigeni e contadini degli altipiani andini e dell’Amazzonia e rivendica queste visioni del mondo ancestrali che hanno resistito allo “status quo” che si è imposto, nel corso della storia, nei paesi sottoposti alla Conquista e al colonialismo. Si basa sui processi esistenti nelle comunità, in cui sono collegate le varie componenti del “buen vivir”.

Oggi possiamo osservare i semi del “buen vivir” in modelli alternativi che vanno dalla produzione responsabile, al commercio equo, al consumo etico, alle alternative della finanza solidale, allo scambio di conoscenze, ai servizi di prossimità. La sostenibilità di questi progetti si basa sulle articolazioni e sui collegamenti con gli spazi locali condivisi. E su questo si fonda anche la sua replicabilità; cioè, in processi che provengono dal passato ma che la riconcettualizzazione del “buon vivere” e dell’etica, da una prospettiva di condizioni di vita veramente umane, segnano nuove prospettive e orizzonti di sostenibilità.

Queste esperienze che stanno diventando evidenti, in America Latina e nei Caraibi, sono in corrispondenza con altre esperienze che hanno avuto luogo a livello globale. Oggi stanno emergendo ovunque esperienze “dal basso”, basate sulla solidarietà e sulla condivisione, sulla cura dell’ambiente che richiede cambiamenti strutturali, a fronte dell’esaurimento dell’attuale modello basato sulla massimizzazione del profitto, sul successo economico a tutti i costi, nei problemi di disuguaglianza e disoccupazione che richiedono risposte nuove e creative. Le esperienze del “buen vivir”, sebbene si riferiscano alla dimensione ancestrale, sono state rinnovate con molta creatività e adattate a nuovi tempi e contesti. 

L’istruzione, l’educazione e il “buon vivere” interagiscono in due modi. Da un lato, il diritto all’istruzione è una componente essenziale del “buen vivir”, poiché consente lo sviluppo delle potenzialità umane e, come tale, garantisce pari opportunità a tutte le persone.

D’altra parte, il “buen vivir” è un asse essenziale dell’educazione, in quanto il processo educativo deve contemplare la preparazione dei futuri cittadini, con valori e conoscenze che promuovano lo sviluppo del Paese:

 

Nell’illustrazione delle principali correnti di pensiero del buen vivir si è rilevato un atteggiamento molto differenziato nei confronti del concetto e delle pratiche dello sviluppo. Unanime è la decisa critica al paradigma “convenzionale”, basato sulla figura dell’homo oeconomicus inteso come individuo che massimizza il proprio interesse, definito dalla funzione di utilità, perseguendo l’accumulazione di beni materiali e posizionali, da cui consegue l’equiparazione del concetto di sviluppo a quello di crescita economica con il Pil come unico indicatore rilevante (Gudynas, 2011c). La critica all’unidimensionalità delle concezioni riconducibili  all’homo oeconomicus non è nuova e ha condotto, a partire dal 1990, alla redazione da parte del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite, dei Rapporti sullo sviluppo umano in una prospettiva multidimensionale, che contempla, tra gli indici di sviluppo, l’alfabetizzazione, la speranza di vita, la morbilità evitabile, oltre al Pil pro capite (indici che successivamente sono stati ampliati e ulteriormente perfezionati). Sulla base dell’«approccio delle capacità» (capability approach) elaborato da Amartya Sen, lo sviluppo umano è inteso come «un processo di ampliamento delle possibilità di scelta delle persone», che consenta loro di avere accesso alle risorse materiali e immateriali necessarie a una vita dignitosa e di godere

di opportunità politiche, economiche e sociali che li facciano sentire a pieno titolo membri della loro comunità di appartenenza (Undp, 1990: 1). Ricollegando il concetto di benessere (well-being) o di qualità della vita a quello aristotelico di eudaimonia, tradotto nel Rapporto del 1990 come «fioritura umana» di contro al termine “felicità” di marca utilitaristico-welfarista (Undp, 1990: 6 s.), Sen (1994: 62 ss.) specifica che la capacità riflette la libertà delle persone di scegliere tra diverse combinazioni di funzionamenti (functionings), intesi come modi di essere e di fare a cui le persone attribuiscono un valore intrinseco. Tali sono, ad esempio, essere nutriti, godere di buona salute, partecipare attivamente alla vita della comunità – funzionamenti che a loro volta coincidono per lo più con contenuti espressi nelle carte dei diritti umani (Longato, 2001). Se la vita delle persone è costituita da un insieme di funzionamenti, la vita effettiva che ciascuna è in grado di condurre è data dalla possibilità di assegnare liberamente (capability) il peso relativo ai diversi funzionamenti o, per usare la terminologia di Nussbaum, alle diverse «capacità funzionali» che è messo in condizione di scegliere e realizzare (Nussbaum, 2001: 95 ss.).

In quest’ottica sono interpretabili come altrettanti funzionamenti il controllo partecipato del proprio territorio, la cura dell’ambiente naturale, la conservazione della propria identità culturale che si è visto caratterizzare le concezioni autoctone del sumak kawsay (Renshaw, Wray, 2004; Hönig, 2011: 106 s.). Functionings e capabilities rivestono un valore intrinseco

nel senso che sono considerati importanti e quindi perseguibili di per sé, assumono un valore strumentale solo nella misura in cui ciascuno è funzionale alla realizzazione di altri funzionamenti e capacità (ad es., l’essere istruiti ha di per sé valore e nel contempo è un mezzo per aver voce nella comunità). La distinzione rilevante è tra la sfera dei funzionamenti e delle

capacità da un lato e reddito e risorse materiali dall’altro: nel capability approach sono quest’ultimi ad avere un valore unicamente strumentale.

L’approccio delle capacità, che costituisce oggi il riferimento principale per le problematiche legate allo sviluppo, è oggetto di analisi e di discussione presso i teorici del buen vivir che, se pur con accenti diversi, ne sottolineano gli aspetti di discontinuità rispetto al paradigma dello

“sviluppo come opulenza” di contro a uno stile di vita improntato alla sobrietà. Ad es., il Plan Nacional para el Buen Vivir si colloca esplicitamente nel solco della prospettiva dello sviluppo umano e del capability approach. Tuttavia, due sono le principali critiche rivolte a quest’ultimi:

il fatto di basarsi sull’individualismo etico e la mancata, o perlomeno insufficiente, considerazione dell’ambiente naturale come parte integrante di una nozione di sviluppo in grado di rendere ragione delle diverse articolazioni del “vivere bene” perseguite e perseguibili a livello locale. Se il capability approach, soprattutto nella versione di Sen, non intende formulare indicazioni precise applicabili omogeneamente a livello generale – insistendo anzi su un processo deliberativo bottom-up per la definizione del “vivere bene” nei diversi contesti di vita –, nondimeno le due critiche rappresentano altrettante sfide a cui i teorici del capability approach solo in tempi molto recenti hanno cercato di far fronte. L’individualismo etico, secondo cui solo i singoli hanno personalità morale, è effettivamente un tratto centrale del capability approach. Ciò non significa misconoscere i legami sociali a favore di un individualismo ontologico di tipo atomistico, bensì che le strutture e le proprietà sociali

sono da valutare per la loro funzione causale sul well-being degli individui.[7]

 

[1] G. De Manzo, Buen vivir, per una nuova democrazia della terra, Prefazione di Adolfo Pérez Esquivel, Postfazione di Gianni Minà, Ediesse Edizioni, Roma, 2009, p. 19

 

[2] Vandana Shiva, Ritorno alla terra, la fine dell’ ecoimperialismo, prefazione di Carlo Petrini, Fazi Editore, Roma, 2009, pp. VII- X.

 

[3] Ibidem

 

[4] Vandana Shiva, Ritorno alla terra, la fine dell’ ecoimperialismo, prefazione di Carlo Petrini, Fazi Editore, Roma, 2009, pp. 3-7.

 

[5] Alfredo Mela, Le sfide della sostenibilità, il buen vivir andino nella prospettiva europea, a cura di Serena Baldini e Moreno Zago, Filo Dritto edizioni,  Bologna, 2014, p. 14.

 

[6] Michael Czerny, Perché l’ Amazzonia merita un sinodo, 12 settembre 2019, La Civiltà Cattolica, Roma, Su internet: https://www.laciviltacattolica.it/news/perche-lamazzonia-merita-un-sinodo/

 

[7] Ivi, Fulvio Longato, Filosofie del buen vivir tra passato e futuro, pp. 64-65.

 

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