Kiev ed Atene capitali della crisi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Tommaso Di Francesco
Fonte: Il Manifesto
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di Tommaso Di Francesco, 10 febbraio 2015

Non è un dispetto del calen­da­rio se alla fine oggi all’ordine del giorno della lea­der­ship euro­pea pre­ci­pi­tano due appun­ta­menti deci­sivi, il ver­tice dell’Eurogruppo sulla crisi greca e i col­lo­qui di Misk sulla guerra in Ucraina.

Sono infatti due, Atene e Kiev, le capi­tali di quello che non esi­tiamo a defi­nire come lo sce­na­rio delle mace­rie d’Europa.

In entrambe le «car­to­line» si riflette il livello più basso di quella che ci osti­niamo — e ci osti­ne­remo ancora — a chia­mare Unione euro­pea. Nell’una è evi­dente il nodo dei costi della crisi che mette in gioco l’idea stessa dell’Europa poli­tica non­ché di demo­cra­zia nell’intero Vec­chio con­ti­nente, nell’altra siamo ormai sul con­fine peri­co­lo­sis­simo di una guerra calda dopo l’89, tra Occi­dente e Rus­sia. Che è sem­pre Europa e cri­stiana — orto­dossa — come ha ricor­dato papa Fran­ce­sco espri­mendo sgo­mento per un con­flitto armato tra «cri­stiani» nell’epoca della cosid­detta minac­cia dell’Isis.

Ma cen­trale per que­ste capi­tali della crisi è la que­stione di come gli orga­ni­smi cen­trali dell’Unione euro­pea, fin qui con­so­li­dati dalle volontà dei governi occi­den­tali, hanno rispo­sto alla grande crisi eco­no­mica finan­zia­ria del 2009; di come hanno eluso la neces­sità di una rispo­sta poli­tica e sociale non più subal­terna agli inte­ressi delle ban­che inter­na­zio­nali, ai «mer­cati»; di come il para­digma dell’austerità e la can­cel­la­zione della spesa pub­blica e dello sto­rico wel­fare, siano diven­tati dogma.

Anche all’origine della esplo­siva que­stione ucraina, c’è stato un rifiuto degli orga­ni­smi comu­ni­tari a soc­cor­rere con un pre­stito ponte la crisi eco­no­mica divam­pata a Kiev: dopo la «rivo­lu­zione» che ha cac­ciato un oli­garca per intro­niz­zarne un altro e una guerra civile iper­na­zio­na­li­sta, il Paese si ritrova sul bara­tro di un default eco­no­mico e biso­gnosa di decine di miliardi di euro.

Fu il governo Yanu­ko­vic, nell’autunno del 2013, di fronte al peri­colo di fal­li­mento, a chie­dere aiuto all’Ue pro­po­nendo la pos­si­bi­lità di man­te­nere anche buoni rap­porti con la Comu­nità degli stati indi­pen­denti, vale a dire con la con­fi­nante Rus­sia, vista anche la voca­zione eco­no­mica dell’est ucraino.

La rispo­sta fu un irre­spon­sa­bile e secco no. Tutto quello che è acca­duto dopo — come l’immediato e inte­res­sato soc­corso finan­zia­rio di Putin e poi la scelta di «non asso­ciarsi» all’Ue — è stato la con­se­guenza diretta di que­sto rifiuto euro­peo che ora tutti fanno finta di avere dimen­ti­cato. Come si dimen­tica il calo­roso soste­gno alla rivolta nazio­na­li­sta ucraina anti­russa, vale a dire con­tro una parte della popo­la­zione ucraina, e poi di estrema destra, di piazza di Maj­dan. Che è stata spon­so­riz­zata da media occi­den­tali, dalla destra ame­ri­cana e, attivo sulla Maj­dan, dello stesso capo della Cia John Bren­nan, inviato all’uopo dalla Casa bianca sotto pres­sione dei Repub­bli­cani. Con l’inevitabile rea­zione altret­tanto vio­lenta dell’est ucraino che è sto­ri­ca­mente a com­po­nente russa, di lin­gua russa e filorussa.

Le san­zioni occi­den­tali, che pena­liz­zano fra l’altro l’Unione euro­pea — e for­te­mente l’Italia, v. il blocco del gasdotto Sou­th­stream — e non solo la Rus­sia, il disa­stro eco­no­mico dell’Ucraina ancora sull’orlo del default e quasi sei­mila morti, in gran parte civili, sono la scia di deva­sta­zione umana e dei rap­porti inter­na­zio­nali e di san­gue che ne è deri­vata e che deve essere fer­mata. Subito con il ces­sate il fuoco, con una linea di demar­ca­zione dei con­ten­denti, con il disarmo con­trol­lato e con la defi­ni­zione di uno sta­tuto di auto­no­mia reale per il Don­bass insorto. Deve essere fer­mata ad ogni costo la spi­rale della guerra, ne va della pace in Europa. E nel mondo.

Per­ché gli Stati uniti attra­verso la Nato e sta­volta in con­tra­sto addi­rit­tura con l’alleato bri­tan­nico, mostrano di essere pronti ad inviare armi a Kiev e di acce­le­rare i pro­cessi di ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza atlan­tica. Lo ha ripe­tuto — per for­tuna solo a parole — il pre­si­dente Obama pen­sando così d’influire posi­ti­va­mente sulla trat­ta­tiva che si apre oggi, per rice­vere invece la rispo­sta altret­tanto dura di Mosca: «Se ci sarà la for­ni­tura di armi dall’Occidente a Kiev sarà esca­la­tion militare».

È una dop­pia minac­cia a quel che resta dell’Europa. Devono averlo inteso, come ultima spiag­gia, anche Mer­kel e Hol­lande in visita prima dal «nemico» Putin e oggi pro­ta­go­ni­sti del nuovo, e spe­ra­bil­mente riso­lu­tivo, ver­tice di Misk. Uno sforzo diplo­ma­tico sul pre­ci­pi­zio quello dei due «nor­manni» che è stato addi­rit­tura cri­ti­cato da alcune capi­tali dell’est euro­peo ormai diven­tate più atlan­ti­che di quelle del Vec­chio continente.

La tra­ge­dia sotto gli occhi di tutti è quella dell’inesistenza di una poli­tica estera dell’Unione euro­pea, sur­ro­gata com’è dalle scelte della Nato. Che ha rea­liz­zato con la crisi ucraina il suo pro­getto avviato dagli anni Novanta di allar­ga­mento ad est, tutto intorno ai con­fini russi, in un gioco di risiko che pur­troppo ha visto ridi­slo­care basi, nuovi sistemi di armi, scudo anti­mis­sile, rin­no­vati bilanci di guerra dell’est Europa, a par­tire dalla Polo­nia e dai Paesi bal­tici. Men­tre l’Unione euro­pea stava a guardare.

E non basta da que­sto punto di vista l’ultima dichia­ra­zione della fin qui ine­si­stente Moghe­rini per la quale l’unica solu­zione della crisi «è poli­tica». Adesso lo dichiara, dopo essere stata per un anno a guar­dare. Così come l’Europa è stata a guar­dare il ter­re­moto sociale e uma­ni­ta­rio che ha pro­vo­cato con le scel­le­rate scelte del Memo­ran­dum con cui la Com­mis­sione Ue ha pie­gato la vita dei greci ridu­cen­doli alla mise­ria e alla dispe­ra­zione. Ora, men­tre in nega­tivo nel Don­bass si com­batte e scorre il san­gue, in posi­tivo ad Atene c’è la vit­to­ria di Syriza e un man­dato popo­lare che can­cella l’esistenza della Troika, il supe­ror­ga­ni­smo legato ai «mer­cati» che pre­siede ai dik­tat eco­no­mici, che ha aperto final­mente il nego­ziato sul debito e che ha bloc­cato subito la spi­rale per­versa delle privatizzazioni.

Se le car­to­line d’Europa sono que­ste, è ormai impos­si­bile far finta di niente men­tre da una parte siamo sull’orlo di un con­flitto armato almeno con­ti­nen­tale, e dall’altro al tra­collo dei con­fini dell’Eurozona.

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