Il 10 novembre 1837, Marx, che aveva allora 19 anni, studente scanzonato e perdigiorno della Facoltà di Diritto all’Università di Berlino, scrive una lettera al padre
Karl Marx – Lettera al padre
Caro Padre! Ci sono momenti della vita, che si piantano come regioni di confine davanti ad un tempo trascorso, ma al tempo stesso indicano con precisione una direzione nuova. In un tale punto di passaggio ci sentiamo spinti a considerare con l’occhio aquilino del pensiero il passato e il presente, per attingere così la coscienza della nostra reale posizione. Si, la stessa storia del mondo ama un tale sguardo retrospettivo e si osserva, ciò che poi le imprime spesso l’apparenza della retrocessione e dell’arresto, mentre essa si getta soltanto sulla poltrona, per comprendersi, per penetrare spiritualmente la propria opera, l’opera dello spirito. Ma in tali momenti l’individuo diviene lirico, perché ogni metamorfosi è in parte canto di un cigno, in parte ouverture di un grande nuovo poema, che cerca di procurarsi un contegno in colori lucenti, ancora confusi; e tuttavia noi vorremmo elevate un monumento a ciò che si è una volta vissuto; questo deve riguadagnare nel sentimento il posto che ha perduto dal punto di vista dell’azione, e dove troverebbe un asilo più sacro che nel cuore dei genitori, il giudice più benevolo, colui che più profondamente s’interessa a noi, il sole dell’amore il cui fuoco riscalda il centro più intimo dei nostri sforzi! Come potrebbe qualcosa di odioso, di biasimevole, ottenere la sua composizione, il suo perdono, altrimenti che diventando la manifestazione di uno stato essenzialmente necessario? Come potrebbe lo spesso sfavorevole gioco del caso, dello smarrimento spirituale, essere sottratto almeno al rimprovero di un cuore mal fatto? Se dunque, alla fine di un anno vissuto qui, io getto uno sguardo indietro sugli avvenimenti di esso e cosi rispondo, mio caro Padre, alla Tua così cara, cara lettera da Ems, mi sia consentito di esaminare la mia situazione, come io considero la vita in generale, quale espressione di un agire spirituale che modella la sua forma in tutte le direzioni, nella scienza, nell’arte, nelle situazioni private.
Jenny
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Quando Vi ho lasciato era sorto per me un nuovo mondo, il mondo dell’amore, e di un amore, certo, all’inizio ebbro di struggimento, privo di speranza. Anche il viaggio verso Berlino che, altrimenti, mi avrebbe incantato al massimo grado, mi avrebbe sollevato alla contemplazione della natura, mi avrebbe infiammato di gioia di vivere, mi lasciò freddo, anzi mi mise straordinariamente di malumore, perché le rocce che io vedevo non erano più aspre e più fiere dei sentimenti della mia anima, le grandi città non più vive del mio sangue, i tavoli delle osterie non più sovraccarichi, non più indigeribili dei pacchi di illusioni che io portavo, e l’arte infine non era bella come Jenny.
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Giunto a Berlino, ho rotto tutti i legami che avevo avuto fino allora, ho fatto di malavoglia rare visite e ho cercato di immergermi tutto intero nella scienza e nell’arte. Secondo quello che era allora lo stato del mio spirito la poesia lirica doveva essere necessariamente il primo argomento, perlomeno il più gradevole, il più immediato, ma, come comportavano la mia situazione e tutto il mio sviluppo anteriore, questa poesia era puramente idealistica. Un al di là altrettanto lontano quanto il mio amore, divenne il mio cielo, la mia arte. Ogni realtà svanisce, e tutto quel che svanisce non trova limiti, attacchi contro il presente, sentimento espresso in maniera prolissa ed informe, niente di naturale, tutto costruito a partire dal mondo della luna, la piena opposizione di ciò che è e di ciò che deve essere, riflessioni retoriche invece di pensieri poetici, ma forse anche un certo calore del sentimento e un lottar alla ricerca di vivacità caratterizzano tutte le poesie dei primi tre volumi che Jenny ha ricevuto da me. Tutta l’ampiezza di uno struggimento che non vede limiti si dibatte in forme molteplici e fa del «far poesia» («Dichten», condensare) una «effusione» («Breiten», effondere). Ora, la poesia poteva e doveva essere solo un accompagnamento; io dovevo studiare giurisprudenza e mi sentivo spinto soprattutto a lottare con la filosofia. Le due tendenze furono unificate in modo tale che in parte trattai Heineccius, Thibaut e le fonti del tutto acriticamente, solo scolasticamente(cosi per esempio tradussi in tedesco i due primi libri delle Pandette), in parte cercai di attuare una filosofia del diritto nel campo del diritto. Come introduzione feci precedere alcune frasi metafisiche e portai questa infelice opera fino al diritto pubblico, un lavoro di circa 300 fogli… Soprattutto risaltava qui in modo assai fastidioso la stessa opposizione della realtà e del dover essere che appartiene all’idealismo e che era la matrice della susseguente inutile, falsa partizione. In primo luogo veniva quella che io avevo benignamente battezzato metafisica del diritto, cioè principi, riflessioni, determinazioni concettuali, separata da tutto il diritto reale e da ogni forma reale del diritto, come accade in Fichte, solo, in me, in modo più moderno e più carente di contenuti. Inoltre vi era la forma non scientifica del dogmatismo matematico, in cui il soggetto si muove intorno alla cosa, raziocina di qua e di là, senza che la cosa stessa si dia forma come una ricca entità in sviluppo, come una entità vivente; questo era fin dall’inizio un ostacolo per la comprensione del vero.
Il triangolo lascia che il matematico costruisca e dimostri, rimane pura rappresentazione nello spazio, non si sviluppa a niente di ulteriore, lo si deve portare vicino a qualcos’altro, allora assume altre posizioni, e questa diversità, applicata allo stesso soggetto che viene trasportato, dà a questo diversi rapporti e diverse verità. Al contrario nella concreta espressione del mondo vivente del pensiero, come è il diritto, lo Stato, la natura, tutta la filosofia, qui l’oggetto deve essere ascoltato nel suo sviluppo, partizioni arbitrarie non possono essere introdotte, la ragione della cosa (Dinges) stessa deve svolgersi progressivamente come una entità in sé contraddittoria e trovare in sé la sua unità. Come seconda sezione seguiva poi la filosofia del diritto, cioè, secondo la mia concezione di allora, la trattazione dello sviluppo del pensiero nel diritto positivo romano, come se il diritto positivo nel suo sviluppo di pensiero (intendo dire non le sue determinazioni puramente finite)potesse essere in generale una qualsiasi cosa diversa dalla formazione del concetto giuridico, che già la prima parte doveva comprendere. Avevo per dipiù diviso ancora questa sezione in dottrina formale e dottrina materiale del diritto, di cui la prima doveva descrivere la pura forma del sistema nella sua successione e nella sua connessione, la partizione e l’estensione del sistema; la seconda invece doveva descrivere il contenuto, il concretarsi della forma nel suo contenuto.
Un errore, che io ho in comune con il signor Savigny, come più tardi ho trovato nella sua dotta opera sulla proprietà, solo con la differenza che egli chiama determinazione concettuale formale «trovare il posto che prende quella determinazione concettuale e la dottrina nel (fittizio) sistema romano»; e determinazione materiale «la dottrina del positivo, ciò che i Romani hanno aggiunto ad un concetto così fissato»; mentre io ho inteso per forma architettonica necessaria delle formazioni del concetto, per materia la necessaria qualità di queste formazioni. Il difetto stava in ciò, che io credevo che l’una potesse e dovesse svilupparsi separata dall’altra, e così non ottenevo alcuna forma reale, ma una scrivania con cassettini in cui poi gettavo della sabbia. Il concetto è, certamente, ciò che media tra forma e contenuto. In uno svolgimento filosofico del diritto l’uno deve dunque venir fuori nell’altro; la forma può essere certamente solo il procedere del contenuto. Così dunque giunsi ad una partizione, quale l’argomento poteva delinearla al massimo per la facile e superficiale classificazione, ma lo spirito del diritto e la sua verità scomparivano. Tutto il diritto si divideva in contrattuale e non contrattuale. Mi permetto di presentare qui, per una migliore rappresentazione in forma concreta, lo schema (del mio lavoro) fino alla partizione dello ius publicum, anch’esso elaborato nella parte formale.
I.ius privatum
I.ius publicum ius privatum
a)Del diritto privato contrattuale condizionato,
b)del diritto privato non contrattuale incondizionato.
A.Del diritto privato contratto condizionato
- a) Diritto personale. b) Diritto sulle cose. c)Diritto personalmente materiale. a) Diritto personale
- Dal contratto oneroso,
- Dal contratto di garanzia
III. Dal contrattovantaggioso.
- Dal contratto oneroso
- Contratto di società (societas).
- Contratto di appaltamento (locatio conductio).
- Locatio conductio.
- In quanto si riferisce alle operae.a) Vera e propria locatio conductio (non s’intende né il dare a nolo nell’appaltare romano!). b) mandatum.
- In quanto si riferisce all’usus rei. a) Sui terreni: Usufructus (anche non nel significato puramente romano). b) sulle case habitatio.
I I. Da! contratto di garanzia1. Compromesso o contratto di comparazione. 2. Contratto di assicurazione.
III. Da contratto vantaggioso.2. Contratto di approvazione.
- Fidejusso. 2. Negotiorum gestio.3. Contratto di donazione. 1. .donatio.
- gratiae promissumb) Diritto sulle cose.
- Dal Contratto oneroso.
- permutatio stricte sic dicta.1. vera e propria permutatio.
- mutuum (usurae).
- emptio venditio.
- Dal contratto di garanzia.pignus
III. Da contratto vantaggioso.
- commodatum.
- depositum.
Devo riempire oltre i fogli con cose che io stesso ho respinto? Partizioni tricotomiche attraversano il tutto, il quale è scritto con stancante prolissità e si abusa nel modo più barbaro delle rappresentazioni (giuridiche) romane, per farle entrare a forza nel mio sistema. D’altro lato così ho acquistato piacere e sguardo sintetico nei riguardi della materia, almeno in un certo modo. Alla conclusione del diritto privato, materiale io vidi la falsità del tutto, che nello schema fondamentale è vicino a quello kantiano, nello svolgimento se ne allontana completamente, e di nuovo mi divenne chiaro che non ci si dovesse addentrare nella materia senza filosofia. Così ho potuto ancora una volta gettarmi con buona coscienza nelle sue braccia, e ho scritto un nuovo sistema fondamentale metafisico, alla cui conclusione fui costretto ancora una volta a riconoscere l’assurdità e l’assurdità di tutti i miei sforzi precedenti.
Intanto mi ero fatta la consuetudine di prendere appunti da tutti i libri che leggevo, dal «Laocoonte» di Lessing, dall’«Erwin» di Solgers, dalla storia dell’arte di Winckelmann, dalla storia tedesca di Ludens, e di scribacchiarvi accanto delle riflessioni. Al tempo stesso traducevo la Germania di Tacito, i libri tristium di Ovidio e cominciavo a studiare in privato, cioè su grammatiche, l’inglese e l’italiano, cosa in cui non ho finora ottenuto nulla; lessi il diritto criminale di Klein e i suoi Annali e tutte le più recenti opere letterarie; certamente queste ultime le leggevo a parte. Alla fine del semestre cercai di nuovo le danze delle Muse e la musica del satiro, e già in quest’ultimo quaderno che Vi ho inviato, l’idealismo passa attraverso l’umorismo sforzato («Scorpion e Felix»), attraverso un fallito dramma fantastico («Oulanem»), finché alla fine si rovescia del tutto e trapassa in pura arte formale, per lo più senza oggetti capaci di ispirare, senza vivace movimento di idee.
Eppure queste ultime poesie sono le uniche in cui mi sia balenato di fronte improvvisamente come per un colpo di bacchetta magica – oh! il colpo fu al principio tale da sbalordire- il regno della vera poesia come un lontano palazzo di fate, e tutte le mie creazioni si dissolsero nel nulla. Che in queste molteplici occupazioni nel corso del primo semestre molte notti dovevano essere passate vegliando, molte battaglie dovevano essere combattute, molte eccitazioni interne ed esterne dovevano essere patite, che io alla fine non ne uscivo molto arricchito, che intanto avevo trascurato natura, arte, mondo, che avevo perso gli amici, questa riflessione sembrò farla il mio corpo; un medico mi consigliò la campagna e così per la prima volta capitai, attraversata tutta la lunga città, fuori della porta verso Stralow. Non sospettavo che io là avrei maturato una robusta saldezza del corpo, da un essere anemico, languente quale ero.
Un velo era caduto, il mio sacrario era distrutto, e nuovi dei dovevano essere introdotti. Dall’idealismo, che io, detto di passata, confrontavo e avvicinavo al kantismo e al fichtismo, giunsi a questa esigenza: cercare l’idea nel reale stesso. Se gli dei avevano vissuto prima sulla terra, ne erano ora diventati il centro. Avevo letto frammenti della filosofia di Hegel, la cui grottesca melodia rupestre non mi era piaciuta. Ancora una volta volli immergermi nel mare, ma con la ferma intenzione di trovare la natura spirituale altrettanto necessaria, concreta e solidamente fondata quanto la natura fisica, di non esercitare più l’arte della finzione, ma di portare la pura perla alla luce del sole.
Scrissi un dialogo di circa 24 fogli: «Cleante, o del punto di partenza e necessario progresso della filosofia». Qui si congiungevano in certo qual modo arte e scienza, che si erano del tutto staccate, e come un robusto viandante ho proceduto nell’opera ad uno sviluppo filosofico-dialettico della divinità, in quanto questa si manifesta come concetto in sé, religione, natura, storia. Lamia ultima frase era l’inizio del sistema hegeliano e questo lavoro, per il quale acquistai una certa conoscenza della scienza naturale, di Schelling, della storia,che mi causò infiniti mal di capo e che fu scritto (poiché doveva essere propriamente una nuova logica) in modo tale che anche adesso posso appena tornare a pensarci, questo mio figlio prediletto, allevato al chiaro di luna, mi porta come una falsa sirena nelle braccia del nemico. Dal dispiacere non potei pensare assolutamente nulla per alcuni giorni; come un pazzo correvo qua e là e nel giardino lungo le acque sporche dello Spree «che lava le anime e annacqua il tè», andai persino ad una partita di caccia con il mio padrone di casa, corsi a Berlino e volevo abbracciare ogni mendicante.
Poco più tardi mi sono rivolto a studi soltanto positivi, allo studio della «Proprietà» di Savigny, di Feuerbach e del diritto criminale di Grolmann, del De verborum significatione di Cramer, del sistema delle Pandette di Wcning-Ingenheims, di Mulenbruch: Doctrina Pandectarum, su cui studio ancora a fondo; infine di singoli titoli, seguendo il Lauterbach: il processo civile e soprattutto il diritto canonico, di cui ho letto quasi per intero nel corpus la prima parte, la Concordia discordantium canonum di Graziano, traendone degli appunti; come pure ho letto l’appendice, le Instituziones del Lancellotto. Poi tradussi in parte la Retorica di Aristotele, lessi il De augmentis scientiarum del famoso Bacone di Verulamio, mi occupai molto di Reimarus, il cui libro «Delle inclinazioni artistiche delle bestie» ho meditato con grande piacere, giunsi ad occuparmi anche di diritto tedesco, principalmente in quanto studiai i capitolati dei re franchi e i rescritti papali. Dal dolore per la malattia di Jenny e per i miei lavori intellettuali inutili e falliti,dal dispiacere, che mi consumava, di dover fare nei confronti del mio idolo una figura che mi era odiosa, caddi ammalato, come Ti ho già precedentemente scritto, caro Padre.
Ristabilitomi, bruciai ogni poesia e ogni abbozzo di novelle etc. Nell’illusione di non poter continuare in ciò, di cui non ha finora, per la verità, fornito ancora alcuna prova contraria. Durante la mia malattia avevo conosciuto da capo a fondo Hegel, e insieme la maggior parte dei suoi seguaci. Attraverso diversi incontri con amici a Stralow, capitai in un Doktorklub in cui erano alcuni liberi docenti e il mio più intimo amico di Berlino, il dott. Rutenherg. Qui, ndla discussione, si manifestò qualche opinione contraria, ed io mi legai sempre più saldamente alla odierna filosofia del mondo (Weltphilosophie), da «li avevo pensato si sfuggire, ma ogni clamore era ammutolito, un vero furore di ironia mi assalì come poteva accadere con molta facilità dopo tanta negazione. Vi si aggiunse il silenzio di Jenny, ed io non ho potuto avere pace finché non avessi acquisito, con alcune cattive produzioni come «La visita», la modernità ed il punto di vista della odierna opinione scientifica. Se forse, caro Padre, non ti ho esposto chiaramente tutto quest’ultimo trimestre, né sono entrato in tutti i particolari, ed ho anche cancellato tutte le sfumature, perdona il mio desiderio di discorrere del presente. Il signor Chamisso mi ha inviato un biglietto del tutto insignificante in cui mi annuncia che «si dispiace che l’Almanacco non possa utilizzare i miei contributi, perché è stampato già da molto tempo». Me lo mangerei per la rabbia. Il libraio Wigand ha inviato il mio progetto al dotto Schmidt, editore dell’esercizio commerciale Wunderschen, il quale commercia in buon formaggio e cattiva letteratura.
Karl e Jenny
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Accludo qui la sua lettera; il secondo non ha ancora risposto. Nel frattempo non abbandono in nessun caso questo progetto, specialmente perché tutte le celebrità estetiche della scuola hegeliana hanno promesso la loro collaborazione per intervento del Professor Bauer, che gioca tra di esse un grande ruolo, e del mio coadiutore dotto Rutenberg. Per quel che concerne, mio caro Padre, la questione della carriera amministrativa, ho fatto recentemente la conoscenza di un certo assessore Schmidhinner, il quale mi ha consigliato di passare all’avvocatura, dopo il terzo esame giuridico, in qualità di Justitiarus; ciò che mi sarebbe andato tanto più, in quanto io realmente preferisco, di tutta la scienza amministrativa, la giurisprudenza. Questo signore mi ha detto che egli stesso e molti altri hanno fatto carriera in tre anni fino al rado di assessore del Tribunale provinciale superiore di Miinster in Vestfalia, la qual cosa non sarebbe difficile, s’intende con molto lavoro, perché qui le tappe della carriera non sono rigidamente fissate come a Berlino ed altrove. Se più tardi ci si laurea essendo già assessore, vi sono anche maggiori probabilità di poter entrare subito come professore straordinario, come è successo al signor Gürtner a Bonn, che ha scritto un’opera mediocre sui codici provinciali e per il resto è conosciuto solo per il fatto di parteggiare per la scuola giuridica hegeliana. Magari, mio caro, ottimo, Padre, fosse possibile parlare di tutto ciò direttamente con Te! Lo stato di Edoardo, gli affanni delta cara mammina, il Tuo malessere, per quanto sia da sperare che non sia forte, tutto mi ha fatto desiderare, anzi rende quasi necessario che io mi precipiti da Voi. Sarei già li, se non avessi dubitato proprio del Tuo permesso, della Tua approvazione. Credimi, mio caro, amato Padre, non mi spinge nessuno scopo egoistico(sebbene, sarei certo felice di rivedere Jenny), ma è un pensiero che mi spinge, e che non posso esprimere.
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Sarebbe per me sotto qualche riguardo persino un duro passo, ma come scrive la mia unica, dolce Jenny, queste considerazioni cadono tutte insieme di fronte all’adempimento di doveri che sono sacri. Ti prego, caro Padre, come anche Tu puoi decidere, di non mostrare questa lettera, o almeno questo foglio, alla madre dell’angelo. Il mio improvviso arrivo potrebbe forse risollevare quella grande, splendida signora. La lettera che ho scritto a mammina è stata redatta molto prima dell’arrivo del caro scritto di Jenny, e così ho scritto senza volerlo forse troppe cose che non sono affatto o sono molto poco opportune. Nella speranza che a poco a poco si disperdano le nuvole che si sono fermate sulla nostra famiglia, che sia permesso anche a me di soffrire e di piangere con Voi e di dimostrare forse vicino a Voi la profonda, intima partecipazione, l’immenso affetto, che io spesso ho potuto esprimere casi male; nella speranza che anche Tu, caro, sempre amato Padre, esaminando la forma del mio sentimento, proiettata in modo molteplice di qua e di là, voglia perdonare, se ogni tanto sembra che il cuore abbia sbagliato, mentre lo spirito in lotta lo soffocava, nella speranza che presto Ti ristabilisca completamente, così che io stesso Ti possa stringere al mio cuore e possa sfogarmi fino in fondo. Tuo figlio che ti ama sempre.
*Karl Marx