Jobs Act, minoranza Pd nel dramma. Walter Tocci si dimette

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro De Angelis
Fonte: L'Huffington Post
Url fonte: http://www.huffingtonpost.it/2014/10/08/jobs-act-minoranza-pd-dramma-_n_5954810.html

di Antonio Napoletano

SIAMO SOLO ALL’INIZIO.

Così muore la carne (delle Sinistre PD). Una scena convulsa e drammatica dove tutti i nodi vengono al pettine manovrato dal Segretario/Presidente, che non avendo esitato a rendere il partito anoressico, non si è fermato dinnanzi ai turbamenti delle sinistre. Anzi.
Ha fatto più uno. Li ha messi colle spalle al muro, montando giorno dopo giorno una trappola, un ricatto (la fiducia) senza vie d’uscita.
Una tela di ragno fatta dalle insipienze, ingenuità, contraddizioni e le abiure della lunga metamorfosi di un ceto politico, giunto al PD senza idee proprie, stanco e debilitato dalle troppe rimozioni, dagli errori.
Non solo. Nel frattempo, i frutti avvelenati delle parlamentarie sono entrati in circolo, producendo la paralisi progressiva che ha diviso “Vecchia Guardia” dai rincalzi raccogliticci e senza arte né parte.
Così, alle conte la pattuglia sparpagliata delle personalità s’è ritrovata sempre più sola e isolata, sbeffeggiata, alle prese con tentativi ripetuti d’intimidazione e vere e propie aggressioni.
Questo è il panorama e siamo solo all’inizio.

———————————————————

di Alessandro De Angelis 8 ottobre su L’Huffington Post

A metà pomeriggio, Walter Tocci, civatiano, uomo pacato, gentile nei modi, è nello studio del capogruppo Zanda: “Voto la fiducia, ma è l’ultima volta. Io così non vado avanti. È l’ultimo atto parlamentare, poi mi dimetto da senatore”. A nulla servono le parole del capogruppo. Il dado è tratto. Nella grande battaglia del Senato c’è l’opposizione rumorosa, grillini e leghisti. E quella più silenziosa. Una crisi di nervi avvolge la sinistra del Pd. I civatiani Lucrezia Ricchiuti, Corradino Mineo e Felice Casson non partecipano al voto. Tocci annuncia che uscirà dal Parlamento. Per tutta la giornata Zanda gli chiede un incontro che Casson gli nega dopo la sua “autosospensione” dal Pd.

Riavvolgendo la pellicola alla sera prima, si vede Casson che in Giunta per le autorizzazioni aveva dato il suo parere favorevole all’uso delle intercettazioni e ai tabulati telefonici di Azzolini, il presidente della commissione Bilancio del Senato, coinvolto nell’inchiesta sugli appalti del porto di Molfetta. Il suo partito gliela boccia. Ventiquattrore dopo, Azzolini prende la parola in Aula per dare il via libera della Commissione bilancio al maxiemendamento.

Pomeriggio di fuoco a palazzo Madama, nel giorno del jobs act. Seduta bloccata, per tumulti. Sulla testa di Grasso piovono regolamenti del Senato dai banchi leghisti. Ennesimo stop. Federico Fornaro, diessino piemontese, un riformista doc, ha la voce grave dei comunisti di una volta: “Siamo di fronte a una brutta pagina del Parlamento. I tempi accelerati e la fiducia rappresentano uno spazio istituzionale. Hanno ridotto gli spazi del confronto nel merito e la sceneggiata dei Cinque stelle è il miglio spot dei nemici del Parlamento”.

È l’altro volto della minoranza. Impietriti, tra la l’opposizione tangibile di Grillo, e il decisionismo di Renzi, gli ex ds parlano poco. Poche le dichiarazioni ufficiali. Quasi fuggono dai microfoni. Miguel Gotor allarga le braccia. E focalizza il problema: “Si è lasciato ai Cinque stelle lo spazio dell’opposizione per sottoporci ai diktat di Sacconi che sull’articolo 18 è un oltranzista. È come se Giovanardi avesse scritto una legge sui diritti civili”. Gotor prova a spiegare che “siamo solo all’inizio”, che “alla Camera ci sono gli spazi per riaprire una discussione”, che – insomma – di resa non si tratta: “Non è una resa, di fronte alla fiducia che dovevamo fare? Far saltare il governo?” Ma quando arriva il contenuto dell’emendamento del governo, nero su bianco quella parola, “resa” pare scritta a caratteri cubitali: “Effettivamente – dice Gotor – quando andò in tv da Fazio Renzi tolse l’articolo 18, poi lo ha rimesso alla direzione del Pd come soluzione di compromesso, ora lo toglie di nuovo”.

Vago il contenuto della delega. Sulla corta consentirebbe al governo di “forzare” sull’articolo 18. E fuori il mondo che fu della sinistra promette battaglia. Lo storico vicino a Pier Luigi Bersani confessa che potrebbe andare alla manifestazione della Cgil: “Non ci vedrei niente di male”. Altri non ci hanno nemmeno pensato.

La verità, ti raccontano a microfoni spenti, è che la minoranza è in frantumi. Arriva Sposetti. Scusi, ma se, come dice Bersani, Renzi è come Peron, non c’è fiducia che tenga: contro Peron si vota contro o no? L’ex tesoriere dei Ds ti guarda negli occhi, occhi di brace: “Io è meglio che non parlo. Vado a leggere il testo dell’emendamento”. Ormai nei gruppi non ci sono più capi. Massimo D’Alema è più forte sul territorio che in Parlamento. Pier Luigi Bersani, per dirla con più di un senatore, si sta “occhettizzando”. I giovani ormai dialogano con Renzi. Perché il premier l’ha azzeccata la mossa. “Ha fatto il suo Midas alleandosi con i giovani Speranza e Orfini e far fuori i vecchi” questa è l’amara analisi dalle parti della vecchia guardia.

Disagio, “sofferenza” per un voto subito. E per aver lasciato ad altri il monopolio della protesta. Proprio per provare a resistere al Midas e per organizzare un coro meno stonato, a metà pomeriggio viene reso noto un documento, con 27 firmatari, scritto dalla senatrici Cecilia Guerra e Maria Grazia Gatti, della commissione Lavoro. E su cui ieri si è svolta una riunione di tutto lo stato maggiore dei bersaniani.

Ecco le firme in calce al documento: Maria Cecilia Guerra, Maria Grazia Gatti, Federico Fornaro, Vannino Chiti, Paolo Corsini, Miguel Gotor, Silvio Lai, Maurizio Migliavacca, Carlo Pegorer, Erica D’Adda, Donatella Albano, Claudio Broglia, Giuseppe Luigi, Salvatore Cucca, Nerina Dirindin, Marco Filippi, Francesco Giacobbe, Doris Lo Moro, Patrizia Manassero, Luigi Manconi, Claudio Martini, Claudio Micheloni, Massimo Mucchetti, Laura Puppato, Ludovico Sonego, Mario Tronti, Roberto Ruta e Renato Turuno.

A questi si aggiungono 9 deputati: Roberta Agostini, Enzo Amendola, Micaela Campana, Alfredo D’Attorre, Cesare Damiano, Guglielmo Epifani, Stefano Fassina, Nico Stumpo e Davide Zoggia.

Nero su bianco vengono messi i limiti “invalicabili” sul jobs act, limiti oltre i quali evidentemente viene meno la fiducia della minoranza. Carte scritte per rispondere a emendamenti scritti. Sulle parole, nel Pd, la fiducia non c’è più. Il documento, spiegano i firmatari, si inserisce in una nuova strategia della minoranza del Pd, quella che porta alla formazione di una “corrente vera”, organizzata, strutturata. Un partito nel partito.

Babelezon bookstore leggi che ti passa

Articoli correlati

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.