Fonte: Libero Quotidiano
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di Giampaolo Pansa – 29 luglio 2016
Ha già fatto una prima vittima la battaglia delle battaglie, quella per il referendum costituzionale. Il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, è stato licenziato su due piedi dal nostro editore, la famiglia Angelucci.
Mi ha molto amareggiato la partenza di Maurizio. Lavoravo con lui da anni, aiutato da un vantaggio tra i tanti. Belpietro ha sempre rispettato le mie opinioni, anche quelle che non condivideva. E che esprimevo nel Bestiario con lo stile un po’ eccitato tipico dei rubrichisti.
Spero che il suo successore, Vittorio Feltri, un big del giornalismo italiano, si comporti come lui. Ne avremmo tutti dei vantaggi, a cominciare dai lettori di Libero.
Tuttavia, la partenza di Belpietro mi ha fatto riflettere su un altro referendum italiano di tanti anni fa: quello sul divorzio del 1974. Essere giornalisti senior, come dicono le persone cortesi per non definirti vecchio, a volte rappresenta una circostanza fortunata. Allora avevo 39 anni e lavoravo al Corriere della sera come inviato, assunto da Piero Ottone. La campagna contro il divorzio mi affascinò, soprattutto perché a condurla era il più sanguigno dei capi democristiani, Amintore Fanfani.
Anche in quell’ occasione, il Mezzotoscano si batté come una tigre, percorrendo la penisola dal nord al sud, eruttando fiamme e promettendo sfracelli.
In quel tempo, dire Democrazia Cristiana significava evocare un potere quasi assoluto. Ma come sarebbe accaduto pure in altri momenti, la Balena Bianca esercitò la propria forza con misura. I direttori di giornali favorevoli all’ introduzione del divorzio erano tanti, per non dire quasi tutti.
Però nessuno di loro venne costretto a lasciare. E lo stesso accadde agli inviati che avevano seguito e narrato le follie dell’ Aretino, soprattutto nell’Italia del sud. Mi piace ricordarne uno: Antonio Padellaro, il fondatore del Fatto quotidiano.
Ma oggi non siamo negli anni Settanta, bensì nell’Italia del 2016. A Palazzo Chigi siede un altro toscano, Matteo Renzi, un leader d’ acciaio.
Messo a confronto con lui, Fanfani mi ricorda uno dei boy scout tra i quali sarebbe cresciuto Matteo. Il suo arsenale per vincere la battaglia delle battaglie è impressionante. L’ha descritto con efficacia Carlo Bertini sulla Stampa del 20 maggio. Quella del premier è una strategia senza alternative: deve trionfare o morire, nel senso di lasciare la vita politica. Adesso si comprende meglio perché Renzi abbia chiamato dagli Stati Uniti l’esperto tra gli esperti: Jim Messina, che ha già guidato le campagne elettorali di Obama e dell’ inglese Cameron.
In un Bestiario ho sfottutto Messina per aver suggerito alla ministra Maria Elena Boschi, delegata alla riforma costituzionale, di definire i fautori del no come poveri seguaci dei fascistacci di Casa Pound.
È stata una gaffe ridicola di mister Messina, ma il suo lavoro non si limita a quello, se non altro per la parcella concordata: centomila dollari. Il grande Jim non l’abbiamo ancora visto all’ opera. Presto lo vedremo e a quel punto per lo schieramento del no saranno dolori.
Credo di averlo già detto in un altro Bestiario: in ottobre andrò a votare al referendum sulla riforma costituzionale e voterò no. Ma questo non m’impedisce di vedere i tanti limiti del fronte refrattario. Il primo è la lentezza con la quale si sta organizzando. Renzi ha fatto della velocità la sua fondamentale regola di lavoro. Spesso è così veloce da annunciare come pronte ad entrare in funzione decisioni che non lo sono affatto, anche perché mancano i miliardi necessari per attuarle. In altri tempi sarebbe stato sbugiardato e definito l’Uomo del Bluff. Però nell’ Italia del Duemila conta soprattutto l’apparenza, non la sostanza. E dunque il Fiorentino può presentarsi alle folle televisive con il petto in fuori e la burbanza del vincitore designato.
Da domani i suoi comitati per il Sì saranno una realtà, mentre i comitati per il no sembreranno ancora una carovana di sfigati che arranca alla cieca in un territorio ostile. Chi rifiuta la riforma costituzionale renzista non dispone, almeno per il momento, di un quartier generale pronto a guidare la battaglia. Leggiamo sui giornali una quantità di nomi importanti: sono i famosi «professoroni», così li sbertuccia Renzi. Ma tutto il resto manca o è insufficiente.
Non esiste una struttura centrale in grado di orientare i nuclei periferici. Non si conosce nulla del finanziamento e dove si possa raccoglierlo.
Nessuno sa dire quale sarà l’atteggiamento delle tre grandi organizzazioni sindacali. Infine sta sempre avvolta nella nebbia la figura leader del No, l’uomo o la donna incaricati di rappresentare il volto del movimento, di parlare ai media, soprattutto a quelli televisivi, il fronte più delicato. Per il momento abbiamo un solo nome conosciuto, anche se non arcinoto. È quello di Alfiero Grandi, già dirigente della Cgil e deputato dell’Ulivo, indicato dal Fatto del 10 maggio come il vicepresidente del Comitato per il No.
Il guaio è che del presidente non si sa nulla. E neppure della squadra che lo affiancherà. Da signore che ha appena compiuto gli ottant’anni, consiglierei vivamente di non affidarsi a una schiera di grandi vecchi. Occorre gente giovane per parlare ai giovani e spiegargli una verità delicata.
Il doppio uppercut renzista (riforma costituzionale e nuova legge elettorale) può essere esiziale per la democrazia italiana.
Di solito sono ottimista, lo sono sempre stato sin da giovane. In un bicchiere vedo ogni volta il mezzo pieno e non il mezzo vuoto. E dal momento che scrivo per i giornali, conservo una grande fiducia nell’ importanza della carta stampata. Per questo ritengo che quotidiani e settimanali possano avere ancora una grande influenza sull’esito delle battaglie civili. A una condizione che ho trovato descritta sull’ ultimo magazine del Sole 24 Ore, diretto da Christian Rocca che ha raccolto l’ opinione di un grande esperto di media: il francese Joshua Topolsky.
Topolsky ha spiegato che il business dei media tradizionali non sarà salvato dai video, né dagli algoritmi o dalle newsletter. Non servono nemmeno nuove esperienze innovative di lettura su iPad, life video, integrazioni con i social, partnership con Twitter. Tutte queste cose assieme potrebbero anche essere utili, però saranno sempre fuori sincrono rispetto alla «nuova magia» tecnologica prossima ventura.
«Ma il vero problema dell’ editoria» ha scritto Topolsky «è che si producono stronzate».
Un mare di stronzate. Stronzate di bassa lega che non interessano a nessuno. E questo mentre un pubblico sempre più consapevole, sempre più connesso e anche capace di cambiare idea, non riesce a trovare altro che questa robaccia. E non la vuole. Vuole roba buona, che andrà a trovare altrove e che addirittura pagherà per averla. Il futuro dei giornali è il passato. Scommettere sulla storia e la credibilità delle testate, puntare sulla qualità dei contenuti, raccontare vicende, scriverle bene, coltivare talenti, stupire, far circolare nuove idee utili e divertimenti per i lettori».
Meditiamo, noi del no al referendum. Il Bestiario voterà così. Ma teme che a vincere sarà il sì di Matteo Renzi.