Fonte: globalist
di Giuseppe Costigliola – 29 settembre 2018
Il leader del Labour vuole trasformare l’economia e sogna di unire il paese e governare, non dividerlo e comandare
Qualche giorno fa si è tenuto a Liverpool l’atteso Congresso del Partito laburista britannico. Il governo conservatore di Theresa May attraversa da tempo mari perigliosi, la sgangherata nave che guida è sempre in procinto di affondare e in terra d’Albione c’era una fervida attesa sul programma e le parole del leader dell’opposizione, il carismatico Jeremy Corbyn. Ebbene, per il mondo progressista le attese non sono andate deluse.
La proposta politica di Corbyn è incentrata su una puntuale ed energica denuncia del capitalismo finanziario, quel mostro che ha determinato la devastazione economica e morale in cui ci dibattiamo come pesci spiaggiati. Fulcro del discorso è stato quindi l’economia: Corbyn ha tratteggiato con estrema chiarezza il drammatico stato attuale delle cose, rintracciando i responsabili, e lo ha fatto attingendo anche all’immaginario, per esempio citando una frase iconica del film “Wall Street”, “l’avidità è bella”: “Dieci anni fa il concetto di ‘l’avidità è bella’ e del capitalismo finanziario privo di regole che esso rappresenta, lodato per una generazione come il solo modo di governare un’economia moderna, crollò con conseguenze devastanti. Ma invece di operare i cambiamenti necessari, l’establishment politico e del mondo degli affari ha tenuto in piedi il sistema responsabile del collasso”. In che modo? “Tagliando la spesa pubblica”, riversando quindi tutto il peso sulle classi più deboli e rendendo più fragile il sistema civile, determinando così una profonda crisi dell’istituto della democrazia. Tutto ciò si traduce non solo in debolezza economica e austerità, ma anche nell’ascesa di “razzismo e xenofobia, qui e all’estero”.
A questa lucida e spietata denuncia si è accompagnata la proposta di una “trasformazione radicale dell’economia”, una nuova visione del mondo e dei rapporti politici e umani, all’insegna dell’unione, della condivisione, della solidarietà: “Bisogna unire il paese e governare, non dividerlo e comandare”, ha tuonato Corbyn, che poi ha messo in guardia sull’ondata di populismo che sta dilagando in Europa e nell’America di Trump (sul quale non ha avuto certo parole tenere), ammonendo: “Se non saremo noi laburisti a offrire soluzioni radicali, altri riempiranno il gap con la politica, addossando ad altri ogni colpa e creando ulteriori divisioni.” Una unione, quella propugnata da Corbyn, non semplicemente nazionalistica e utilitaristica, ma di stampo europeista, poiché i laburisti voteranno “contro il piano del governo per la Brexit”, decisi anche a chiedere elezioni anticipate e persino un secondo referendum sulla spinosa questione. Con altrettanta decisione il leader laburista ha poi espresso il programma del suo partito in politica estera: accesa critica alla dissennata politica dell’amministrazione Trump, difesa dei diritti dei palestinesi, con la promessa di “riconoscere uno stato palestinese non appena saremo al potere”, e impegno concreto nel fronteggiare il tragico problema del cambiamento climatico con la progressiva creazione di un’economia ecologista, definita “una rivoluzione del lavoro verde”.
Infiammata da un discorso che molti hanno definito “da primo ministro”, la platea ha salutato Corbyn con applausi scroscianti e cori da stadio, intonando a pugno chiuso, loro e i delegati sul palco, Red Flag, Bandiera Rossa. Insomma, immagini d’altri tempi. Ma con concetti politici modernissimi. Perché da quando ha preso in mano la sinistra britannica, Corbyn sta tracciando una strada alternativa al capitalismo selvaggio che governa il mondo da almeno venti anni, e sta portando avanti con decisione e coraggio il suo progetto. Dove arriverà non è lecito sapere, ma la sua e quella del suo partito è una lotta non solo politica, ma di civiltà.
A questo punto è lecito chiedersi: come mai qui in Italia non esiste un Jeremy Corbyn? Perché all’orizzonte non si profila qualcuno, magari più d’uno, che abbia il coraggio di denunciare una situazione ormai gravissima e i suoi responsabili, che abbia la lucidità e la preparazione di definire un quadro teorico ed elaborare le linee d’intervento, che abbia le capacità di elaborare e portare avanti una proposta politica realmente di sinistra?
Perché non è possibile creare una forza politica che si batta con convinzione per i temi e gli ideali propugnati in questi anni dai laburisti britannici? Perché l’intero antico patrimonio della cultura progressista si è dissolto in pochi anni sotto lo sguardo ebete di chi quel patrimonio doveva gestire?
Siamo circondati da ridicoli personaggi che si contendono le spoglie della sinistra italiana, gente totalmente inetta, incapace anche solo di immaginare una pallida progettualità politica, che va ripetendo da anni le stesse frasi vuote, gli stessi concetti svuotati di significato. Assistiamo inermi a beghe meschine, litigi insulsi, strida da pollaio di stolti superati dalla storia. Perché? Davvero dietro questa marmaglia che ha determinato la distruzione di un’aggregazione politica antica quanto il desiderio di giustizia, di legalità, di civiltà, di democrazia partecipata, v’è solo un desolante deserto? Questo io mi chiedo, accorato e stanco, rammaricato di non avere un Jeremy Corbyn da votare.