Fonte: L'Espresso
Questa storia è politica, tecnica e amministrativa. Quella giudiziaria e penale ne deriva per certi aspetti logicamente; senza conoscere la prima, sulla seconda non si potrà che giocare al poliziotto e al magistrato o, peggio, ridurre il tutto alla famosa “questione morale”, che da quarant’anni si predica, senza che nulla muti. Due decisioni fatali, strettamente connesse, segnano il peccato d’origine della “grande opera” Mose. Decisioni tutte politiche e forse, prima ancora, culturali. Contro le quali il sottoscritto, con pochissimi altri, ha combattuto fin dal primo giorno, restando perfettamente inascoltato non appena la sede del confronto si “alzava” da quella amministrativo-locale a quella dei governi regionale e nazionale.
La prima: che non solo l’intervento per la difesa della laguna dall’acqua alta, ma pressochè l’intero complesso delle opere per la sua salvaguardia e manutenzione, venissero affidati al consorzio “Venezia Nuova” in veste di concessionario unico. Procedura che stabilisce un altissimo onere a favore del concessionario stesso, elimina ogni obbligo al bando di gare, riduce con ciò drasticamente la possibilità di godere di ragionevoli ribassi d’asta, rende del tutto aleatorie le funzioni di controllo che avrebbe dovuto svolgere in primis il Magistrato alle Acque.
A quali rischi una simile procedura poteva inevitabilmente esporre, dal punto di vista dei costi delle opere, e per la disponibilità di un flusso costante e straordinario di risorse in mano a un gruppo sempre più ristretto di imprese, era evidente per chiunque volesse vedere fin dall’inizio della nostra storia, dalla fine degli anni Ottanta. Ma questa scelta, che si continuò pervicacemente a ribadire, da tutti i governi succedutisi, anche dopo che nel 1995 la legge vieta la concessione unica, trova la sua ragione culturale di fondo in una idea generale della città di Venezia e del problema delicatissimo della sua salvaguardia.
Si sono scontrate due strategie radicalmente opposte. La prima centralistica, anti-autonomistica, concentrata sul mito della grande opera salvifica; la seconda, coerente con tutta la tradizione dei lavori pubblici in laguna, fondata sull’esigenza di garantire una manutenzione continua, attraverso interventi sempre correggibili, reversibili e miranti non solo alla “fisica” della città, ma anche al suo tessuto economico e sociale. Questa seconda strategia è stata “asfaltata” nel corso degli anni dalla potenza di fuoco del Consorzio Venezia nuova. Con il convinto applauso della totalità o quasi degli organi di informazione. Il sottoscritto, da sindaco, fin dal 1994, sempre sostenuto dalla maggioranza in Consiglio Comunale, si ostina invano a esigere verifiche e confronti.
La spettacolarizzazione del progetto Mose, l’immagine delle paratoie sorgenti dai flutti, la forza dell’appello per “Venezia salva” grazie alla Tecnica Superiore, esercitano una formidabile “seduzione” su tutti i governi dell’ultimo ventennio, travolgono ogni sensato ragionare. Invano cerco di chiedere ai Prodi e ai Berlusconi, ai Di Pietro e ai Lunardi come sia possibile per un’opera simile procedere esclusivamente per stralci, come sia possibile by-passare l’unica valutazione di impatto ambientale (pretesa nel 1998 dalla mia Amministrazione), che è negativa (contro cui ricorse la Regione con Giancarlo Galan – e il Tar gli dette ragione), e ancora ignorare il fatto che il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici abbia ribadito nel 2006 l’impossibilità di procedere nell’esecuzione del Mose in assenza di una progetto esecutivo definitivo. Vox clamans in deserto anche l’indagine condotta nel 2008 da Antonio Mezzera, pubblico ministero della Corte dei Conti, che confermava nella sostanza tutte le critiche del Comune. Quando se ne discusse in udienza a Roma, la più annoiata delle Corti finse di ascoltare per tre minuti il sindaco di Venezia e si limitò a chiedere al Consorzio maggiore attenzione sui costi…
Ma il Comune non si limitò alle critiche. Cercò di mostrare possibili vie alternative, e più economiche, per affrontare il problema delle acque alte. Con la consulenza, pressoché gratuita, tra gli altri, di tecnici come Marco Rugen, ex-presidente dei Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, di Luigi D’Alpaos, professore di idraulica dell’Università di Padova, dei professori Antonio Campanile e Giovanni Benvenuto. Nonché della società Principia, consulente per gli impianti off-shore di Esso, Saipem, eccetera.
Consorzio, Regione e Governi hanno rifiutato dal 2005 al 2006 qualsiasi confronto con questi elaborati. Sono agli atti, per chiunque intenda capire ciò che è successo nella laguna reale, e non in quella delle chiacchiere. Così come è agli atti il mio intervento al Comitato Interministeriale decisivo del novembre 2006, dove, benedetto tutto il passato, venne data definitiva via libera all’esecuzione del progetto. I ministri dissidenti furono lasciati a casa. Votò il solo Prodi del Governo. E il solo Cacciari votò contro. Ricordo l’epica laudatio del Mose e gli sfottò al sottoscritto di Galan (ma anche l’amarezza di Giovanni Mazzacurati, perché mi ostinavo a non comprendere la bellezza della sua creatura). Le procedure seguite? Efficaci – Venezia val bene una Messa. Le criticità tecniche del progetto Mose evidenziate dalle sopra citate personalità? Quisquilie dilettantistiche. Il monopolio della scientificità era stato ormai conquistato (a quale prezzo) dal Consorzio. La stessa domanda fondamentale, su cui il sindaco insisteva, e tutt’ora senza risposta: chi pagherà i costi di manutenzione del Capolavoro? Si tratta, al minimo, di 20-25 milioni all’anno. Il Comune con la Tasi? Si pensa a visite turistiche guidate? Lo Stato? Dettagli. Ebbene, chi pagherà, caro Renzi?
Di tutto questo tutti potevano e avrebbero dovuto sapere. Nulla di penalmente rilevante? Può darsi. Ma difficile sostenere che si tratti di una limpidissima storia e di una trasparente procedura, da cui sono spuntati comportamenti illegittimi. L’esistenza di ladri c’è sempre stata e sarà – ma non sempre trovano le porte aperte. Sulle responsabilità penali, che sono sempre personali, deciderà chi di dovere. Ma su quelle politiche e culturali, macroscopiche, mi piacerebbe ascoltare qualche voce auto-critica, da destra, centro e sinistra. Soddisfazione postuma, per chi, per anni, mentre lo Stato decideva che la salvezza di Venezia andava riposta nel Consorzio del Mose, e il Consorzio fagocitava pressoché ogni risorsa della Legge Speciale, era costretto, per salvare il salvabile, anche a defatiganti discussioni con l’amico Mazzacurati perché almeno qualche briciola dei miliardi di cui disponeva andasse in interventi rientranti nella programmazione urbanistica e territoriale del Comune. E magari al Mose potesse anche lavorarci qualche impresa in difficoltà, qualche operaio licenziato, anche se non “organici” alla corte dei fedeli entusiasti.
Richieste sacrosante quanto ignorate in quasi ogni occasione: dagli interventi per il ripristino delle barene, avvenuti in totale disaccordo col Comune, a quelli per la cosiddetta “mitigazione” degli effetti della Grande Opera, mai concordati, ai cantieri e quartieri per le maestranze cresciuti in località protette e ambientalmente delicatissime, malgrado la procedura d’infrazione delle direttive europee in materia promossa da molte associazioni veneziane e sostenuta dal Comune. Una contesa ininterrotta, regolarmente vinta dal Consorzio in ogni sede, da quella politica a quella della giustizia amministrativa. Una contesa i cui termini sono assolutamente chiari, così come i nomi dei vincitori di allora.