Fonte: Minima cardiniana
di Franco Cardini – 29 ottobre 2018
E’ ormai un fatto da quasi quattro mesi: eppure, nonostante se ne sia almeno sul momento molto parlato – e non senza i soliti toni bipolari: nessuna chiarezza o quasi, molti osanna e molti crucifige –, nel luglio scorso la Knesset (il parlamento israeliano) ha approvato, dopo una lunga e faticosa gestazione, la “Legge della Nazione” con una maggioranza alquanto risicata, il che la dice lunga: 62 voti favorevoli, 55 contrari. Ciò è tanto più grave dal momento che lo stato d’Israele non dispone di una Carta Costituzionale: e la nuova legge si propone come fondamentale con carattere costituzionale nella sostanza se non nella forma.
Lo stato “ebraico e democratico” della Dichiarazione d’Indipendenza del 1948, che assicura “completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso”, viene adesso modificato come “stato ebraico”. Il riferimento alla “democrazia” è molto eloquentemente taciuto. Israele è da oggi in poi lo “stato-nazione del popolo ebraico”: potenzialmente di tutto il popolo ebraico, quello di Eretz Israel come quello della “diaspora”. Quanto a coloro che si trovano nello stato di fatto di detentori della cittadinanza israeliana, il diritto all’autodeterminazione viene limitato agli ebrei: escludendo i non-ebrei (israeliani per la stragrande maggioranza arabi, di religione musulmana o cristiana). La parità dei diritti individuali di ciascuno di loro non è ovviamente in discussione: ma nulla si dice di sicuro e di rassicurante a proposito dei diritti collettivi di una minoranza che dovrebb’essere esplicitamente tutelata mediante provvedimenti che assicurassero non solo anche il loro diritto all’autodeterminazione, ma anche pari status rispetto ai concittadini ebrei per quanto riguarda servizi sociali, possesso di beni immobili, mercato del lavoro.
La nuova legge stabilisce inoltre che còmpito dello stato sarà il promuovere e lo sviluppare “insediamenti ebraici”, senza alcuna specificazione: entro i confini certi del 1949 o quelli contestati del 1967, oggetto della risoluzione ONU n. 242, che impone a Israele di abbandonarli per rientrare nei precedenti? E che cosa ne sarà, alla luce del nuovo provvedimento, degli insediamenti non-ebraici, per quanto riguarda servizi pubblici, infrastrutture, sedi abitative?
Abbinata alla “Legge del Ritorno”, che consente e tutti gli ebrei del mondo d’immigrare liberamente in Israele divenendone cittadini, la nuova legge finisce con il configurare una situazione inedita e allarmante: il carattere dello stato ebraico d’Israele, fin qui da molti celebrato come “l’unica autentica democrazia del Vicino Oriente”, si va trasformando da “stato democratico” in “stato etnocratico”, come molti media lo hanno definito. Per la verità, io non concordo con tale aggettivo. So bene che ormai esistono, in Israele e altrove, anche istituzioni scientifiche che tendono a studiare, dal punto di vista fisiologico, il patrimonio genetico e, al tempo stesso, da quello genealogico, lo sviluppo demografico di quanti si sentono e si dichiarano “ebrei”, alla ricerca di quelle che eufemisticamente vengono definite “radici identitarie” o “memoria fisiologica della stirpe”. E’ paradossale che certi indirizzi ricordino in modo allarmante quelli, analoghi, seguiti dalla genetica nazionalsocialista: e mi ripugna usare il termine “razzismo” per qualificare persone e istituzioni appartenenti a un mondo che, del razzismo, è stato tragicamente vittima. Vorrei comunque rinviare a studi scientifici seri, e anche a divulgatori che lavorano in stretto contatto con tesi scientificamente fondate (penso soprattutto a Schlomo Sand), non solo per richiamare al fatto che il concetto di “razza” (che viene spesso contrabbandato sotto le spoglie del semiomonimo o pseudomonimo termine “etnìa”) è ormai considerato antiscientifico dalla stragrande maggioranza della comunità degli studiosi. Per questo motivo, dal momento che la Knesset si riferisce nel definire i cittadini a pieno titolo dello “stato ebraico” a quanti sono definiti “ebrei” dallo Israel Center Bureau of Statistics (ICBS), a quanti formalmente condividono cultura e tradizione religioso-cultuale ebraica, propongo che lo stato ebraico sia definito semmai non “etnocrazia”, bensì “etocultocrazia” (essendo l’etica connotato fondamentale della visione religiosa della vita). Israele, in altri termini, da “stato democratico” sta divenendo “stato etocultocratico”.
Chi si gioverà, e chi non potrà farlo, di questo nuovo assetto statuale? Secondo l’ICBS, alla metà del 2018, i cittadini israeliani sono in tutto 8.855.000; tra loro, quelli formalmente considerabili di legge (quella ebraica, come quella musulmana, non può propriamente definirsi come una “fede”, termine specifico del cristianesimo) e di cultura ebraica sono 6.556.000, pari al 74,5% circa; gli arabi, si può dire tutti musulmani o cristiani di varie confessioni (principalmente melkita, vale a dire cattolica di rito greco, o greco-ortodossa) 1.837.000, pari al 20,9%; ci sono poi 400.000 persone (il 4,6 % dell’intera popolazione) che hanno antenati, parenti e affini ebrei ma non vengono considerati ebrei in quanto nella legge religiosa ebraica non si riconoscono; oppure che sono dei non-ebrei imparentati con ebrei immigrati in Israele.
Questo, nelle linee generali, il quadro statistico-demografico, che registra un decremento degli israeliani arabi e un incremento degli israeliani ebrei dovuto soprattutto alla crescita degli aderenti a gruppi religiosi radicali.
Fino a oggi, le lingue riconosciute ufficialmente come proprie dello stato d’Israele sono state l’ebraico e l’arabo: da adesso in poi, la prima resterà l’unica riconosciuta.
Se comunque guardiamo alle reazioni, in Israele, negli ambienti ebrei della diaspora e nel resto del mondo, dobbiamo dire che la situazione è fluida e inquieta. Molte le posizioni polemiche, a cominciare da quella di Tzipi Livni, leader dell’opposizione israeliana. D’altronde, il trend del graduale e ormai sempre più esplicito abbandono della farsa della democrazia rappresentativa formale, in crisi in tutto il mondo, fa parte del vorticoso cambiamento dell’equilibrio planetario di questo avvìo dell’Era Postmoderna.
La mossa della Knesset appare comunque una conseguenza dello “strappo” del presidente Trump, che, riconoscendo il diritto d’Israele alla piena sovranità sull’intera città di Gerusalemme, ha sconfessato una risoluzione dell’ONU (praticamente esautorandolo), mutando la stessa scelta del governo statunitense, che aveva riconosciuto e legittimato la risoluzione 242 pur bloccandone l’attuazione con il suo “diritto di veto”, in quanto membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ed è altresì, a livello mondiale, un adeguamento della vita istituzionale israeliana al vento nazional-populista che sembra spirare da alcuni mesi sull’Occidente. Immediato obiettivo istituzionale della nuova legge appare, in effetti, la Corte Suprema d’Israele, tutrice dell’indipendenza del potere giudiziario rispetto a quelli politico ed esecutivo e garante con i suoi poteri della libertà di vita e d’espressione di tutti i cittadini. FC