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di Luca Billi, 17 ottobre 2018
Gli antichi greci tributavano onori quasi divini ai vincitori delle gare sportive: credo con una qualche ragione. C’è qualcosa di sovrannaturale nel gesto perfetto di un atleta: è l’attimo che Mirone è riuscito a rendere eterno nella statua del discobolo. Però gli atleti sono pur sempre uomini e per raggiungere – quando lo raggiungono – quell’attimo di assoluta perfezione, devono lavorare duramente, devono allenarsi, devono sbagliare migliaia e migliaia di volte.
Peter Norman è uno di quelli che è riuscito a raggiungere quell’attimo di divina perfezione: il 16 ottobre 1968 ha corso i 200 metri in 20.06, come non aveva mai fatto prima e come non avrebbe mai fatto dopo. Ma in quella stessa gara, la finale dei 200 maschili alle olimpiadi di Città del Messico, c’era un altro dio, Tommie Smith, che li corse in 19.83, il primo uomo a scendere sotto i venti secondi, e quindi Norman arrivò secondo. Inaspettatamente, perché c’era anche John Carlos – il terzo eroe di quella finale straordinaria – capace di arrivare a 20.01 il giorno prima, ma che in quella gara arrivò solo terzo.
Di quella gara fantastica però non ci ricordiamo come si è svolta, dei suoi record, ma solo della premiazione: la foto di quel momento è uno dei simboli più celebri del Sessantotto, del “potere nero”, della ribellione. Smith e Carlos sono al loro posto, sul primo e sul terzo gradino del podio, la testa chinata verso il petto, i piedi scalzi e i due pugni – il destro di Smith e il sinistro di Carlos – guantati di nero, chiusi, a sfidare il cielo.
Norman è sul secondo gradino, guarda in avanti, dalla foto non sembra rendersi conto di quello che avviene alle sue spalle: e per molto tempo questo è stato un errore molto diffuso. Per molti anni Norman è stato considerato come una specie di terzo incomodo, un intruso, tanto che la leggenda lo voleva terzo, dietro a Carlos. Per fortuna in tanti, negli anni successivi hanno raccontato la verità: in Italia è stato Gianni Mura. Norman sapeva benissimo quello che stava succedendo; quando vide il silenzio attonito dello stadio, sapeva quello che i suoi due compagni stavano facendo. Come Smith e Carlos, ha voluto indossare anche lui lo stemma dell’Olympic Project for Human Rights, pare sia stato lui a suggerire ai due amici, in quei minuti concitati, di indossare un guanto ciascuno, visto che ne avevano un solo paio. Peter condivide la protesta. E’ stato un attimo, quando ha capito quello che i suoi compagni volevano fare, ha deciso che anche lui – che veniva dall’Australia, che era bianco, che non soffriva la discriminazione come i neri degli Stati Uniti – doveva fare qualcosa. E’ come per la gara perfetta: anche se dura solo venti secondi, occorrono anni per prepararla. E vale lo stesso per una decisione del genere: basta un attimo per indossare una spilla, ma servono anni per capire che quella è la cosa da fare, è la parte giusta della barricata, è il momento per dire che occorre iniziare a combattere.
I due atleti statunitensi rimasero stupiti di sentirsi dire da quel ragazzo bianco dell’Australia “I will stand with you”, io starò con voi.
Quei due pugni chiusi, alzati verso il cielo, raccontano ancora la nostra rabbia, il nostro bisogno di combattere un mondo che è sempre più ingiusto. Dobbiamo essere grati a Smith e a Carlos per quel gesto. Ma noi, soprattutto noi che non siamo eroi, dobbiamo ricordare la lezione di Peter Norman e dire: io starò con voi.