Fonte: L'Espresso
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Intervista esclusiva de L’Espresso, a Orlando Amodeo, primo dirigente medico della Ps appena andato in pensione: «Il ministro specula sulle tragedie e costruisce la sua fortuna sulla morte. Impedire di attraccare nei porti o ostacolare il lavoro delle Ong significa fare vittime che nessuno conosce»
Trent’anni da medico-poliziotto, venticinque passati con la divisa indosso e lo stetoscopio al collo, su e giù dalle navi, dentro e fuori palestre e centri d’accoglienza, più di centamila migranti ai quali ha guardato gli occhi, le mani e la lingua, una vita da giusto che adesso Orlando Amodeo, 61 anni, primo dirigente medico della Polizia di Stato fino a pochi mesi fa, scaglia dritta contro Matteo Salvini, tutta intera.
L’avete visto mai un poliziotto che dà del criminale al suo ministro dell’Interno e si vergogna di essere italiano? Eccolo qua. L’Italia di oggi la racconta anche la rivolta di un uomo così. «Salvini specula da criminale sulla tragedia, costruisce la sua fortuna sulla morte. A me non importa chi sia, ma non sopporto la sofferenza inutile. Se qualcuno la crea per ricavarne un beneficio politico, non è altro che un criminale», dice con la fermezza a bassa frequenza dell’uomo mite.
Siamo sul lungomare di Crotone. Il dottor Amodeo è una specie di monumento vivente, da queste parti. Ha cominciato a gestire gli sbarchi nel ’93, nel ’98 ha aperto a Crotone il primo centro d’accoglienza, il Sant’Anna, quando ancora nessuno sapeva come si facesse: «Facevo le mie sei ore e poi tutto il resto del tempo lo passavo lì, gratis. Non mi sono mai neanche segnato un’ora di straordinario». L’hanno spostato a Reggio Calabria nel 2005, ha continuato a occuparsi di sbarchi. Non ha mai imparato a nuotare, ma conosce le grandi navi della rotta turca, le barchette di legno, i gommoni dalla Libia, gli scafisti e i trafficanti, la terrificante calma apparente e coartata di adesso. Ha escogitato quelle che chiama «le invenzioni aggratis»: riciclare i guanti monouso in lattice, dopo averli passati nel sapone e varechina, «perché gonfiati, diventano dei meravigliosi palloncini per i bambini, per farli divertire dopo che sono sbarcati»; ma raccogliere tra gli studi medici «i campioni delle medicine mandate dalle case farmaceutiche, con quelli curavamo i migranti a costo zero».
Sul lungomare di Crotone, monumento vivente, lo salutano tutti e lui risponde con calore, anche quando non sa chi siano. È abituato: i suoi social, i suoi indirizzi di posta e il suo telefonino strabordano di storie, persone, frammenti di vite intercettate in volo come stelle cadenti. La sua vita aderisce alle storie che racconta: non c’è scarto, non c’è distanza. Una volta, dopo una retata di prostitute nigeriane, i suoi colleghi hanno dovuto convocarlo in piena notte perché tutte le donne fermate avevano il suo numero di telefono, con nome e cognome, nemmeno fosse il più abituale dei clienti: «L’avevo dato a una di loro, sono medico le avevo detto, per qualsiasi cosa».
Raccoglitore di funghi, coltivatore di pomodori, in casa può presentarsi tutt’ora con cassette di verdura o migranti, dipende. A casa sono abituati. Migranti ne ha ospitati nel suo appartamento e sulle scale che portano a casa: una volta ci stettero in 180 per tre giorni. Altre volte in cinque per mesi. «Era inverno, pioveva: non si può lasciare la gente per strada così senza motivo». In questi giorni capita ci sia a pranzo Tony, che è venuto dalla Nigeria: «Suo zio voleva ammazzarlo per prendergli la terra, dopo aver ammazzato suo padre: tu che avresti fatto? Lui è scappato per non morire, ma per questo governo è solo un migrante economico: un permesso non lo vedrà mai, ma senza lui non può lavorare. Così invio dei soldi giù a sua moglie, ogni settimana, e resto nella legalità».
Andando sulle navi, il dottor Amodeo ha imparato che soltanto mettendosi in mezzo, fisicamente, facendo da esempio, si persuade qualcun altro: «I finanzieri, i volontari, gli uomini della Capitaneria di porto e i poliziotti magari temono di prendersi la scabbia, hanno paura ad avvicinarsi ai migranti. Poi mi vedono in mezzo a loro, si tranquillizzano, e vengono». « Ana tabib », sono un medico, «è la prima cosa che dico sempre quando salgo su una nave: è arabo, qualcuno mi capisce sempre». Con lo stesso spirito, par di capire, affronta Salvini: «Perché non si possa dire che non lo sapevamo. O che non c’erano altre risposte possibili». Ana Tabib.
Il dottor Amodeo ha cominciato a battagliare con i politici, e in particolare con il ministero dell’Interno, almeno quindici anni fa. Quando lo vollero trasferire con una bella promozione, perché era diventato troppo ingombrante, «e andai a Roma a pregare che non volevo essere promosso, volevo solo continuare a fare il mio lavoro». O ancora prima, quando il ministero dell’Interno lo chiamò per spedirlo al Maurizio Costanzo Show.
«Dopo il G8 di Genova gli serviva il “poliziotto buono”, per recuperare d’immagine. Sul Corriere della Sera era uscito un articolo in cui parlavo anche io, allora mi chiamò il dottor Sgalla, delle relazioni esterne del ministero: disse, vai da Costanzo ma prima passi da noi. Io da voi non ci passo, quindi da Costanzo non ci vado, gli risposi». Vinse lui: «Ci andai, da Costanzo, senza passare per il ministero. Alla fine della registrazione nemmeno mi ricordavo cosa avevo detto. La sera, quando riaccesi il telefonino, c’erano quaranta chiamate dal centralino del ministero. Era Sgalla. Disse: è andata bene, può stare in tv quanto vuole. Ma io alla fine della registrazione avevo sudato così tanto che mi son dovuto cambiare pure le mutande».
Quei filmati circolano ancora in rete. Il colore politico, allora come ora, c’entra fino a un certo punto: «Anche Minniti, quando ha fatto accordi con i libici, l’ho mandato a quel paese, molto banalmente», dice Amodeo di taglio, per semplificare. Sulla sua pagina Facebook, del resto, non risponde a nessuno che tenti una polemica. «Ho presente i fatti, molto banalmente».
A spiegare i perché, soccorre la vita. Circostanze, racconti, nessuna supposizione. «Tutti esagerano, quando raccontano qualcosa, lo so benissimo. Quando decido di riferirla è perché l’ho constatata di persona, oppure l’ho sentita raccontare identica, da persone diverse, in luoghi e tempi diversi: e allora è vera per forza». Lo sa perché c’era, lo dice perché ha verificato. Le cicatrici dei reni espiantati per pagarsi il viaggio, la disidratazione, le malattie, i morti per annegamento e per asfissia, l’assenza di una alternativa. Le ragioni elementari, quelle che servono a smontare le cattedrali babeliche della politica. «Nel 2014 arrivò qui una imbarcazione dalla Libia, che era stata programmata per affondare: a bordo quattrocento persone, imbarcava acqua sin dalla partenza. In questa nave in cui tutti dovevano morire, c’erano 40-50 eritree. Quando mi hanno visto si sono messe a gridare. Avevo la divisa indosso. Erano passate per Eritrea, Sudan, Libia. Gente in divisa le aveva trattate come cose, per mesi: seviziate, violentate, di tutto. Alla fine, le avevano lasciate andare via soltanto perché erano malate. Malattie come la gonorrea erano state la loro salvezza. Le avevano messe però su una nave destinata ad affondare. “E voi, che lo sapevate, perché avete accettato di partire?”, gli ho chiesto. “Lì saremmo morte in ogni caso, forse qui riusciamo a sopravvivere”. Molto banale: gente destinata a morire che tenta di sopravvivere, forse. Allora Salvini di cosa parla? Prima gli italiani? Ma che c’entra?».
«Uno le cose le impara parlando: ma se tu con questa gente non ci parli, non lo sai. Quando chiedevo: perché dal Kashmir venite qua? Mi dicevano: perché c’è una guerra tra musulmani e induisti, il Kashmir è in mezzo. Se sei musulmano ti ammazzano gli indiani, se sei indiano ti ammazzano i pakistani. E allora, chi voleva vivere è scappato dal Kashmir, punto. Non è che ci sia altro. C’era la guerra, sono scappati perché non volevano morire. Però quando parli con loro, poi con i rom kosovari, i curdi, gli eritrei, i somali, gli etiopi, i nigeriani, ti rendi conto che il mondo è pieno di guerre, fame, problemi. E allora impari, ti metti dall’altra parte. Se io fossi stato là e avessi voluto vivere, cosa avrei dovuto fare? Scappare, punto. O ti fai ammazzare o scappi. Questo è».
Spesso, racconta il dottor Amodeo, i migranti neanche sanno di essere sbarcati in Italia. «Gli viene raccontato che sbarcheranno in Germania, in Belgio, in Svezia. E non ci vogliono neanche stare in Italia: cercano lavoro. E qui non ce n’è, è persino vietato senza un permesso di soggiorno. Altrove danno una casa, una chance. Noi li teniamo qui senza fare niente. Quando sono stato trasferito a Reggio Calabria, vedevo che stavano lì nelle palestre un mese, due mesi. A un certo punto domandai alla Questura: abbiamo fatto tutto come polizia? Tutto, mi risposero. Scoprii proprio allora, per caso, che c’era un treno notturno: partiva da Reggio Calabria alle 21.35, andava al nord. Milano, Torino. Ho chiesto ai migranti: tu dove vuoi andare? Frugavano, e da una cucitura delle mutande tiravano fuori un foglietto. C’era scritto il paese, o la città. Allora, sempre per caso, c’era un sacerdote della Caritas che aveva un pulmino da 20 posti, che passava proprio vicino alla palestra, la sera, e un gruppo di ragazzi che ne aveva un altro: anche loro passavano di là. Alle 19, ora del cambio della guardia, invitavo tutti gli agenti a fumare: ci radunavamo su una sola delle quattro vie d’uscita. Sa quanto ci mettono cento persone a uscire da una palestra? La stazione non era poi così lontana. E, sempre per caso, qualcuno aveva suggerito al capostazione di aggiungere un paio di vetture. Insomma ogni quattro giorni svuotavo tutto. Il 99 per cento di loro voleva andare in Germania, Belgio, Francia, in Svezia. In sei-sette anni gliene ho mandati in giro per l’Europa 50-60 mila. Poi se ne è accorto un funzionario, un austriaco, ci hanno imposto le impronte digitali, non s’è potuto fare più. Prima glieli mandavo tutti. Da noi dove stavano, a fare che?».
«Ma sono le nostre leggi a non funzionare. Siamo noi a renderli un peso. Metti un maschio adulto, con famiglia, a non fare niente, per mesi. Quello i soldi prima o poi li deve mandare a casa: finirà per fare la prima cosa che gli offrono, molto banalmente. Ma sei tu, politico, che hai creato il disagio: e poi ti autoproclami l’eroe chiamato a risolverlo? Fai leva su chi è in crisi e gli dici prima gli italiani? Bravo, molto bravo».
«Adesso però invece che in Europa, li rimandiamo indietro in Libia. E nemmeno arriviamo a saperlo. Ma accade questo: cento che non partono, sono cento che muoiono. Mohamed, che era venuto dal Ghana anni fa, mi aveva raccontato che si erano fatti una foto alla partenza, e una foto all’arrivo: in Ghana erano 41, qui 19. Il 54 per cento è morto. Ma ora, sono cento su cento. Impedire di attraccare nei porti, ostacolare il lavoro delle Ong, significa fare morti che nessuno conosce. Anche perché adesso i gommoni, per esempio, non hanno bisogno nemmeno di uno scafista, che in fondo era una garanzia che la barca arrivasse. E la gente si riorganizza: i curdi sbarcati a Capo Rizzuto a fine luglio se l’erano comprata quella barca, dovevano solo arrivare qua, avevano già i parenti in Europa. Ma se fossero affondati tu non ne avresti saputo niente. E quante ne affondano di barche così? Chi te lo dice?»
«Sai di Josefa perché quelli di Open Arms l’hanno soccorsa. Ma se al loro posto ci fosse stata la marina militare, o peggio i libici, tu sapevi che la sua famiglia era annegata? No. Se nel Mediterraneo ci fossero solamente navi militari, le notizie che tu sapresti sono quelle che i militari ti vogliono fare sapere. Di certo, non sapresti che sono morte ad oggi diecimila persone: ti direbbero delle persone soccorse. E ti posso garantire che avremmo detto: abbiamo soccorso tutti. Senza Ong, nessuno ti avrebbe mai detto che una nave italiana stava tornando in Libia, o che i libici sparano alle imbarcazioni se non si fermano: sono segreti di Stato, banalmente. Ecco perché sono sempre stato favorevole alla presenza di civili in mare. Un giorno mi chiama la capitaneria, c’è una nave ferma a venti miglia dalla costa. Vado col rimorchiatore, salgo: a bordo c’erano quattro finanzieri che cercavano di mettere in moto l’imbarcazione. Eravamo io e loro, nessun altro. Sembrava una nave fantasma. Poi sento gridare. E vedo che, sotto, c’era di tutto. 480 persone, in una stiva unica, impossibilitate a uscire. Gli scafisti avevano chiuso tutti i boccaporti con cavi d’acciaio. Mi sono incazzato coi finanzieri: ma scusate, pensate a sto cavolo di motore, mentre questi muoiono soffocati. Poi sono riuscito a entrare. Mi sentivo morire, non c’era aria. Ana Tabib, sono un medico. Mi prendono per mano, mi portano da qualcuno. Al buio sento un collo, non c’era battito. Metto una mano su naso e bocca, nessuna reazione. Era una donna, morta asfissiata. I finanzieri sopra continuavano a non voler far uscire nessuno. Con un grimaldello sono riuscito ad aprire qualche fessura. In porto li abbiamo liberati. Se in mare ci fossero stati solo militari, in porto di asfissiati ne avremmo trovati non uno, ma cento. Perché nessuno aveva in mente di farli respirare prima. Perché l’ordine, sacro, era: riportate la nave a terra. E non: fate vivere queste persone. Gli uomini di mare sono grandi uomini ma gli ordini sono ordini».
Anche vent’anni fa, in tv, Maurizio Costanzo gli chiese: quale è la sua reazione, di fronte a tutto questo? «Mi indigno. Mi indigno sempre», risponde anche adesso Amodeo. «Però le persone che non si indignano io le capisco, perché queste cose non le sanno. La gente sa quello che gli dice la televisione, quindi non sa niente. Se sapesse cosa succede nel mondo, e nel mediterraneo. Non c’è un politico serio che lo spieghi: siamo in una migrazione perpetua, perenne, e bisogna affrontarla politicamente, in un modo serio. Adesso stai tamponando. Non hai risolto niente. E tra vent’anni quando sarai accusato di crimini contro l’umanità, non puoi dire “ah ma io non lo volevo”. La gente deve sapere. E se non lo sanno, bisogna dirlo: in Libia ci sono i lager, uccidono le persone, violentano, torturano. Spesso e volentieri, le persone vengono messe sui camion, portati tra Libia e Algeria e lasciati là. Sai cosa vuol dire se ti lasciano nel deserto? Che scompaiono le tue tracce: dopo due giorni sei morto di sete, e dopo altre 24 ore il deserto ti copre. Magari fra cinquant’anni verrà fuori il tuo scheletro. Non me lo ha detto una sola persona, me lo hanno detto in tanti. Chi è sopravvissuto lo ha detto anche all’Onu. E noi li mandiamo in Libia? Ma che stiamo facendo? Quale è il senso di ammazzare le persone?».
«Ecco perché non sopporto Salvini, che parla sempre col sorriso. Ha capito che la Lega nord non avrebbe avuto un futuro, fondamentalmente sta imponendo la razza italiana, sa che manda la gente a morire. I miei amici dicono che sono un pazzo. Ma io so che ho avuto la fortuna di stare nel posto giusto, ho usato la mia divisa per aiutare gli altri e ho sempre rispetttato alla lettera le leggi italine. Non mi sento isolato, e neanche appoggiato. Non cerco alleanze, non me ne frega niente. Se qualcuno mi vuol ascoltare mi ascolta. Però oggi mi vergogno di essere italiano. E voglio campare da uomo libero. Comandi Salvini, Di Maio, o chiunque altro».