Io, Daniel Blake

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 1 novembre 2016

C’è una scena, in ‘Io, Daniel Blake’, che è davvero emblematica. È quando il protagonista (cardiopatico, impossibilitato a lavorare, a cui hanno pure revocato l’indennità di malattia) viene obbligato ad assistere a una lezione per compilare in modo corretto il proprio ‘curriculum’. Il tutor ripete che un curriculum ben presentato e ben fatto è indispensabile. E che la comunicazione è indispensabile, ben più che l’esperienza lavorativa. Ma Dan Blake non sa nulla di computer, tant’è che si definisce un ‘matita default’. Scrive difatti con la matita rossa dei falegnami, da bravo carpentiere. Con un curriculum compilato a matita, tuttavia, riesce persino a trovare lavoro, che però deve rifiutare, essendo inabile a lavorare. Perché lo ha richiesto, allora? Perché era obbligato a chiedere lavoro per un tempo totale di 35 ore, altrimenti non sarebbe rientrato nei criteri fissati dal job center per poter accedere alla indennità di disoccupazione oppure a nuove opportunità lavorative. Si tratta di politiche attive del lavoro che sembrano una cosa kafkiana, ma sono semplicemente la realtà raccontata da Ken Loach in un film bello e doloroso.

Perché quell’episodio è emblematico? Perché mostra come marketing, comunicazione, relazioni hanno sopravanzato ogni contenuto di realtà, a partire dall’esperienza viva dei lavoratori. Mentre invece quell’esperienza conta molto, tant’è vero che un curriculum scritto a matita, fuori da canoni comunicativi standard, è talmente efficace da procurare a Blake un lavoro. È una specie di mondo rovesciato, insomma. Che antepone immagine, relazioni e apparenza alla sostanza della vita umana, del lavoro umano, della dignità umana. Ken Loach andrebbe ringraziato non solo perché è un grande cineasta, un grande artista. Ma perché gratta via con un gesto semplice la crosta di sciocchezze ‘narrative’ di cui anche la sinistra è ormai prigioniera nella sua quasi interezza, e svela la realtà delle cose. Cancella le sciocchezze di cui si ammanta la classe dirigente neoliberale, per riportare la verità alla cosa stessa, alla sua nudità umana, alla sostanza dei rapporti, dei fatti, della sofferenza che gli ‘ultimi’ patiscono.

C’è un mondo di rifrazioni colorate, di specchietti per le allodole, di un’ideologia che parla della fine delle ideologie – c’è un mondo che è riuscito a trasformare le donne e gli uomini in clienti, consumatori, utenti, appendici dei loro gadget, schiavi delle loro cose – c’è un mondo che delle anime non sa che farsene, e ha ridotto le persone a un involucro di nulla: a domanda, a offerta, a merci, a prezzi, a scambio. Lo dice anche Dan Blake dinanzi al tutor che insegna a fare un curriculum. E quando scrive sul muro fuori dal job center ‘I, Daniel Blake’ sembra quasi che abbia voluto esporre di nuovo la sua anima al mondo, e abbia detto non sono un cliente né un utente ma un uomo – povero, solidale, sensibile, sofferente ma uomo. Se la sinistra non riparte da qui, dall’anima trasformata in sondaggio, in quotazione, in bonus, in voucher, in finzione teatrale – se la sinistra non punta a questo obiettivo ‘umano’ con ferocia, vorrei dire, altro che sobrietà, altro che gentilezza, se la sinistra non fa tutto questo, per prima cosa questo, è finita. È davvero finita. E non ci sarà più tempo per ripartire.

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