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da Il Fatto Quotidiano, intervista a Gianni Cuperlo di Fabrizio D’Esposito, 17 agosto 2014
L’abito fa il rivoluzionario. Il triestino Gianni Cuperlo apre il suo bel saggio autobiografico Basta zercar (2009) – dal dialetto della sua città: Basta la pazienza di cercare e tutto prima o dopo si trova – con un singolare episodio del 1921, a Torino. Antonio Gramsci parla agli operai della Fiat e ci sono anche Piero Gobetti e Giuseppe Prezzolini. Quest’ultimo rimane colpito dal poco orgoglio con cui gli operai indossano la loro tuta o blusa: “Perché non domandate di meglio che di mettervi addosso le mode dei vostri avversari?”. Morale prezzoliniana: quegli operai erano aspiranti borghesi che non avevano il coraggio del loro vestito. Il rivoluzionario Cuperlo, da ultimo leader della Fgci, la federazione dei giovani comunisti italiani, cominciò con un giubbotto di jeans, accanto ad Achille Occhetto e Walter Veltroni. Prima di arrivare alla giacca e cravatta da deputato, nel 2006, ha lavorato a Botteghe Oscure, la gloriosa sede del fu Pci, ed è stato uno dei maggiori consiglieri di Massimo D’Alema. Alle trionfanti primarie renziane del dicembre 2013, Cuperlo è stato il competitor “rosso antico” del Rottamatore.
Caschetto biondo e jeans. Un contrappasso alla Nino D’Angelo prima maniera, ‘Nu jeans e ‘na maglietta, per un giovane mitteleuropeo di Trieste.
(Cuperlo ride) Non ci avevo mai pensato, però poi anche Nino D’Angelo è stato rivalutato, un po’ come è successo a Jovanotti. Il giubbotto di jeans era un residuo tardo adolescenziale ed io non ero nemmeno più tanto giovane. Quella foto è del 6 maggio 1989.
Una memoria di ferro.
Noi giovani comunisti eravamo abituati alle mobilitazioni studentesche o contro i missili della Nato a Comiso. Quella manifestazione invece fu un’idea di Veltroni, in linea con il nuovo corso occhettiano: partito e Fgci insieme per il lavoro, per il contrasto alla droga. Finì tutto con un concerto in piazza del Popolo a Roma.
Quel giubbotto è diverso dal chiodo di pelle modello Fonzie indossato da Matteo Renzi ad Amici, su una rete berlusconiana.
Ricordo che fu Nanni Moretti a dire che i ragazzi della Fgci erano cresciuti guardando Happy Days. La differenza è che magari lì ad Amici era tutto più curato.
Il romanzo di formazione di Renzi è tutto nel ventennio berlusconiano.
E’ una questione di generazione. Io ho scoperto la tv a colori per la prima volta nel 1972, in un bar della mia città. C’erano le olimpiadi di Monaco. Mi sono formato sui tre canali della tv pubblica. E il primo cellulare che vidi era una sorta di casseruola che si portava a tracolla.
Nostalgia?
Oggi non metterei quel giubbotto nemmeno sotto tortura. La vera nostalgia è per altro.
Il Partito, con la P maiuscola?
Per due elementi sì.
Il primo?
C’era un senso spiccato di comunità, un tratto decisivo di gratuità nell’impegno e nella militanza.
Il secondo?
L’incontro con la politica era una palestra di civismo, non priva di durezza. Alle spalle avevamo anni tragici: il terrorismo, la tragedia di Moro, la strage di Bologna del 2 agosto.
La palestra non c’è più e basta farsi nominare per arrivare in Parlamento.
Ecco, nella Fgci questo aspetto delle istituzioni era marginale. Solo nell’ultima fase eleggemmo quattro deputati e fu una grande novità che rompeva con la tradizione. Oggi le istituzioni sono tutto, i partiti sono elefanti che si sono estinti. C’è la mobilità sociale anche nelle istituzioni.
In che senso?
Penso a un ragazzo di trent’anni. Se gli va bene ha un contratto di lavoro precario ma se per ventura partecipa alle primarie o è fedele a un leader di corrente si ritrova in Parlamento e il suo reddito è
decuplicato.
Anche lei è deputato: in giacca e cravatta.
Rivendico giacca e cravatta. Sento molto la solennità di Montecitorio. Sarà banale ma è una forma di grande rispetto per il luogo.
Quando la bandiera rossa fu ammainata, lei si portò a casa la targa della Fgci.
Fu la mattina dopo il nostro congresso di scioglimento a Pesaro. Era il Natale del 1990, nasceva la Sinistra giovanile. A Botteghe Oscure noi entravamo dal portone di via Ara Coeli. Avevo un cacciavite e la smontai.
Poi?
L’ho fatta restaurare.
La conserva ancora?
No, l’ho regalata.
A chi?
Non lo posso dire.
Lei è stato di casa a Botteghe Oscure. Ha girato molti piani dell’edificio.
Ho cominciato al quinto, da segretario della Fgci. Poi nel 1992 salii al sesto, da responsabile della propaganda e della comunicazione. Era settembre-ottobre e ricevetti una telefonata di Gillo Pontecorvo che ricordo ancora.
Il grande regista.
Sì, mi raccontò che anche lui era stato responsabile della propaganda nel 1948, per un breve periodo.
Dal sesto poi?
Al quarto, dove c’era l’organizzazione. Infine scesi al secondo piano.
Il santuario del Compagno Segretario.
Nel ’94, D’Alema divenne segretario del Pds e mi chiamò con lui. Occhetto aveva fatto ristrutturare l’intero piano. Lì c’era anche la sala della direzione, un tavolo a ferro di cavallo da quaranta persone. Eravamo pur sempre un partito leninista. Il segretario era l’unico che parlava da seduto, tutti gli altri dovevano alzarsi. Lo fece anche Natta quando non era più segretario da un mese. Io ero un invitato permanente, da segretario della Fgci, e lui si alzò e intervenne. Era tornato semplice frate nel convento comunista,
parafrasando la sua nota frase.
Nel ’96, il giovane Cuperlo scelse la Canzone Popolare di Ivano Fossati per l’Ulivo di Romano Prodi. Come andò?
Eravamo in riunione, nella sede di Santi Apostoli se non ricordo male. La discussione verteva su Penso positivo di Jovanotti. Ma non convinceva tutti, c’erano una frase sul Vaticano che divideva.
“Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa passando per Malcolm X attraverso Gandhi e San Patrignano arriva da un prete di periferia che va avanti nonostante il Vaticano”.
Esatto. A quel punto proposi la Canzone Popolare. Ho amato molto Fossati e il mio album preferito è La pianta del tè. Pensavo potesse funzionare.
Reazioni?
C’era Rosy Bindi che non conosceva la canzone, ma a Rosy piacque il titolo per via di quel riferimento “popolare” che poteva richiamare il Partito popolare. Alla fine Veltroni s’incaricò di chiamare Fossati per ottenere la liberatoria.
Altro titolo cuperliano: Il cielo è sempre più blu, per il congresso di scioglimento dei Ds e la confluenza nel Pd.
Rino Gaetano è stato un genio e quella canzone ha un ritmo coinvolgente. Il ritmo è importante in decisioni del genere. Per Bersani, l’anno scorso, è stata scelta Inno di Gianna Nannini, è una canzone bella ma non ha il ritmo giusto.
In fondo, anche il Pd prerenziano non sembrava avere ritmo.
Abbiamo fondato il Pd in modo frettoloso, ma non nei tempi, anzi. E’ stato il processo dei contenuti a essere frettoloso. Vede, anche tutta questa attenzione alla figura di Berlinguer oggi meriterebbe una
riflessione diversa.
Revisionismo rosso antico.
L’ultimo Berlinguer non fu affatto un leader sconfitto dopo il compromesso storico e non si può ridurre tutta quella fase a una ridotta moralistica. Sono anni ricchissimi di spunti, dall’ambientalismo al pacifismo, che le leadership successive non hanno ripreso. Da allora la nostra identità è stata come sospesa in balia degli eventi. E abbiamo colmato solo i vuoti di potere, non di senso.
Lei dimentica il dalemismo e torna berlingueriano. E il suo ex leader si è messo vendere vino al dettaglio, dietro al banchetto di una sagra.
Noto un forte tratto di malizia nelle sue parole.
Non è malizia, è un’altra foto, stavolta recentissima.
Con D’Alema ho un rapporto di amicizia e di stima che dura da più di vent’anni. E non è un rapporto banale. Credo abbia dei meriti indubbi, come quello di essere stato il principale artefice politico della vittoria del 1996.
Prima però c’è la Bicamerale, anticamera dell’inciucio con Berlusconi.
La Bicamerale non è stata la sentina di tutti i mali e il presunto inciucio non c’è mai stato. Fu un progetto ambizioso, non un tentativo di golpe, che riformava le forme di Stato e governo, le fonti normative e il sistema di garanzie. Semmai il limite vero di D’Alema è stato un altro.
Quale?
Ritenere che il partito non fosse più un soggetto riformabile. Così c’è stato un momento in cui, pur tenendo in mano il destino del centrosinistra, ha ceduto all’idea che la politica fosse personalizzazione. Alla base c’era l’analisi che l’Italia fosse un Paese moderato e che alla battaglia per il consenso si dovesse sostituire la tattica per le alleanze. La vittoria di Pisapia a Milano dimostra che così non è. Eppure c’era chi tra di noi era più federalista di Calderoli e sosteneva l’istituzione delle ronde democratiche per vincere al nord.
Renzi, invece, con poche eccezioni, non è accusato di inciucio.
Renzi, oggettivamente, gode di una corsia diversa. Berlusconi viola il santuario del Nazareno e il giorno dopo il popolo del Pd non vive l’evento come una profanazione. Da analista, col senno di poi, dico che non è stato Renzi a rilegittimare Berlusconi.
E’ il contrario?
Sì, è il capo stanco del centrodestra che lo legittima agli occhi del suo elettorato di destra.
Il patto del Nazareno al posto della Resistenza, nella riscrittura della Costituzione.
Quando metti mano alla Costituzione di Calamandrei e Terracini devi avere la consapevolezza che stai toccando la Bibbia laica del nostro Paese. Diciamo che da qui alla fine del percorso mi auguro maggiore consapevolezza, mi spaventa l’idea di un governo dall’alto, senza partecipazione e senza mediazione.
Lei è stato presidente del Pd per pochissimo.
Trentotto giorni.
Renzi le rinfacciò di essere un nominato.
Non fu una risposta educata, ma il problema era più generale. Come quando da ragazzi non venivi invitato a una festa da ballo e ti sentivi escluso.
La festa da ballo del renzismo, sempre più affollata. Oggi c’è Matteo Orfini come presidente, altra conversione al premier dalla sinistra interna.
Orfini e i giovani turchi pensano di poter essere la sinistra del renzismo. La mia interpretazione è diversa e credo che ci sia spazio per una nuova battaglia e una nuova speranza.
Dentro o fuori?
Dentro, naturalmente. Le battaglie si fanno sempre dentro. Extra ecclesiam nulla salus.
Le manca l’Unità?
La sua nuova chiusura è un dolore grande. Per farla ripartire è necessario capire che non potrà più essere l’organo del partito e non potrà essere un giornale che fa la concorrenza a Repubblica.
Lei fu la testa d’ariete contro l’Unità di Padellaro e Colombo che faceva scrivere Travaglio.
La metterei diversamente. Scrissi una lettera aperta per dire che la loro linea non era quella dei Ds. Per me non era una dramma e ho sempre riconosciuto che quella fu l’ultima stagione di successo dell’Unità.