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di Luca Billi 23 novembre 2015
L’integrazione è propriamente l’azione di rendere intero, pieno, perfetto in senso etimologico, ciò che è incompleto o insufficiente a un determinato scopo. Sempre più spesso nel linguaggio corrente – anche per l’influenza dell’inglese integration – indica l’incorporazione, l’assimilazione di un individuo o di una categoria o di un gruppo etnico in un ambiente sociale, in un’organizzazione, in una comunità etnica, in una società già costituite.
Probabilmente uno dei problemi dell’integrazione sta proprio nella definizione di questo termine. E’ bene che gli stranieri si assimilino ai nostri usi e costumi, che sono quello che sono? E’ bene che, insieme alla nostra lingua – che peraltro gli italiani parlano sempre peggio – imparino a essere “italiani”? Ho qualche dubbio. Oppure noi abbiamo bisogno di loro per raggiungere l’intero, il pieno? E a cosa servono? A riempire le nostre case malandate, che noi affittiamo a loro, regolarmente in nero? O ci servono per garantire una quota sempre maggiore di lavoratori ricattabili, sfruttati e sfruttabili? Oppure ci servono delle nuove prostitute, perché ci siamo stancati di quelle di casa nostra?
Non voglio girare troppo intorno all’argomento e quindi faccio un esempio di quelli che divide, su cui le contrapposizioni sono più nette: l’integrazione dei rom. Sul tema si fronteggiano, quasi con la stessa enfasi, due minoranze. Da una parte ci sono i “cattivi“, quelli che dicono che i rom non lavorano perché non vogliono lavorare e preferiscono rubare, che è inutile spendere risorse per loro visto che non sono recuperabili, che le case andrebbero date agli italiani e così via. Dall’altra parte ci sono i “buoni“, quelli che, con la stessa incrollabile sicurezza dei primi, trovano una giustificazione per qualunque cosa facciano i rom, che imputano alla nostra società le loro difficoltà a trovare un lavoro, a inserirsi, che pensano che di fronte all’integrazione debba essere sacrificato ogni altro principio. Né con gli uni né con gli altri si può risolvere il problema. In mezzo a questi due poli opposti c’è la maggioranza delle persone, quelli che guardano ai rom con sospetto e paura, che dicono che il problema è troppo complesso e che in fondo ci sono problemi ben più gravi. Questi sono la maggioranza – siamo la maggioranza – e quindi inesorabilmente il tema si elude, si tralascia. Tanto c’è sempre altro di cui parlare.
Io credo che bisognerebbe cominciare a trattare questa questione non in maniera manichea, ma partendo dal complesso rapporto che esiste nelle nostre società – per brevità le definisco europee, anche se ci sono profonde differenze le une dalle altre – tra la maggioranza e le diverse minoranze, spesso anche numericamente consistenti, con culture, stili di vita, religioni differenti.
Questa presenza di culture diverse è un dato di fatto della nostra società: è una convivenza complessa, delicata, pericolosa a volte, ma è ineliminabile. A dire la verità questa convivenza c’è sempre stata, fin dall’antichità: Alessandria, Gerusalemme, Atene e Roma erano città multiculturali, ben prima che qualcuno inventasse questa parola. Di fronte alle domande che ci pone questa complessità l’integrazione è la risposta sbagliata: che vantaggio potremmo mai trarre dalla costruzione di un’unica società globalizzata, senza identità? Nessuno, né chi si dovrebbe integrare né chi finirebbe per subire l’integrazione. La risposta giusta è confronto, nel quale ciascuno non deve avere paura di comunicare i propri valori, di cui deve essere fiero – senza fondamentalismi, naturalmente – e soprattutto non deve avere paura di perdere la propria identità. Confronto ed educazione viaggiano all’unisono, perché solo l’educazione e la conoscenza profonda della propria cultura, ci permettono di confrontarci con quelle degli altri.