Fonte: Rimini Sparita
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di Grazia Nardi – 9 luglio 2014
…La “piana”della stufa era rifinita da un maniglione tubolare che serviva da poggiamano e, specialmente, da stenditoio. Lì si metteva l’asciugamano che si usava durante il giorno, il pigiama da “tenere in caldo” per la notte, lì si agganciavano gli attrezzi: il ferro (è fer dla stufa) per togliere e mettere i cerchi, la paletta per la cenere. Lo stenditoio vero e proprio era, però, quello a raggiera che veniva applicato sul tubo verticale. Lì si mettevano ad asciugare i panni di piccole dimensioni, lavati nel mastello (prima di legno poi di alluminio), a volte (era il caso degli strofinacci più unti), bolliti in una vecchia pentola dismessa, con l’aggiunta della “saponina”, un detersivo sfuso (un corrosivo mangiamani) che si comprava dalla Tuda, vicino alla “pesa” del pesce, nella Vecchia Pescheria. In una stecca della raggiera si appendeva anche il mestolo che si usava per raccogliere l’acqua dalla “caldarina”. Sulla stufa non mancava mai una pentola d’acqua da tenere in caldo e, all’occorrenza, i ferri da stiro, piccoli e massicci. Tolti dalla piana si impugnavano con una presina per non scottarsi la mano. Sui “panni” più difficili, come i pantaloni da uomo cui bisognava dare la “piega” giusta, il ferro, veniva passato con un fazzoletto inumidito per ottenere l’effetto “vapore”. Ricorrente anche l’uso dei “fondi di caffè” per stirare e ravvivare i panni di colore marrone.
La stufa, come fonte di calore, era il nostro “scaldabagno”. Il rito del bagno era settimanale, ogni sabato sera, con mozziconi di sapone e strigliate di spazzola (la scupètta). Quotidianamente, invece, ci si lavava con l’acqua del “catino”, fredda d’estate, scaldata nella pentola, d’inverno. Da vasca fungeva il mastello posto rigorosamente davanti la stufa, per l’occasione, con lo sportellino aperto. Il contrasto di temperatura tra la posizione della vasca ed il resto della stanza garantiva la cronicità dei malanni alle vie respiratorie che, personalmente, mi porto ancora dietro.
E la stufa era anche il nostro fon. Ricordo, infatti, che lavati i capelli ( con lo shampoo in polvere nella bustina “Palmolive” e con risciacquo, antipidocchi, a base di aceto), seduti davanti la stufa, a testa in giù, si esponeva la chioma al calore e si attendeva l’asciugatura. La mamma approntava una “messa in piega” usando, a mò di bigodini, rotolini di carta trasparente attorno ai quali venivano annodate le ciocche di capelli. Alla fine i capelli erano sì puliti ma anche impregnati dell’odore di fumo e fuliggine, tanto più forte, quando, di notte, i capelli sfregavano sul viso, contro il cuscino.
E questo era ancora niente rispetto all’odore acre ed al fumo che invadevano la stanza quando i tubi “non tiravano” (l’è garbein, la stufa la bòta zò) ed il camino s’intasava. S’imponeva, allora, l’operazione di pulitura dei tubi, soprattutto della “tộrta” che univa il tubo verticale con quello orizzontale collegato al camino. Seguivano scene da commedia dell’arte. La mamma, preveggendo il nero/fumo (è sfunezz) che, di lì a poco, avrebbe tinto ogni cosa, si affrettava a stendere fogli di giornale sulla tavola e sul pavimento. Noi bambini, in disparte, in timorosa attesa dei moccoli del babbo contro l’ossido che inchiodava la torta, attenti a non calpestare la fuliggine che, immancabilmente, cadeva sull’unica parte del pavimento non riparata dal giornale. Anche i moccoli, inseguendo, l’evoluzione economica, hanno avuto una loro storia. Quelli nati nella miseria erano duri, originali, “inventati” volta per volta, frutto delle incertezze e della più assoluta precarietà. Soprattutto quelli degli uomini. Nelle donne, le stesse che andavano in Chiesa al “mese di maggio”, le bestemmie erano dettate dalla disperazione più che dalla rabbia. Non di rado bestemmiavano mentre piangevano.
La legna, che serviva tanto per cucinare quanto per riscaldare la stanza, si comprava a “sacco” (proprio il sacco di iuta) cento lire la volta, quando andava bene, cinquanta lire le altre, nella rivendita di via Isotta. La dose giornaliera era razionata dal babbo, secondo il principio unico e generale che lo voleva titolare di ogni diritto in quanto “l’unico che portava a casa i soldi”. Guai a togliere i cerchi per accelerare la cottura! Uno spreco di fuoco e, quindi, di legna, che una brava donna di casa doveva prevenire regolandosi al meglio coi tempi di cottura, gli orari e le abitudini di casa. Queste ultime erano scandite dai ritmi di lavoro del capofamiglia. E l’avarizia, necessariamente crudele, come sa essere quella dei poveri, arrivava a stratagemma che solo l’istinto di sopravvivenza poteva smontare. Il babbo, per tenere sotto controllo il mucchio della legna, ci metteva sopra dei “segnali”, nella fattispecie una corda sagomata in un certo modo. Sottraendo anche un solo pezzo di legna, la corda avrebbe cambiato sagoma! Capito il trucco, mi ingegnavo nell’operazione attenta a risistemare, al meglio, la corda. La sera, al rientro dal lavoro, il babbo buttava lo sguardo sul mucchio, qualcosa non lo convinceva ma preso dal dubbio e dalla necessità di non svelarsi, era costretto a far finta di niente mentre la mamma ed io respiravamo di sollievo, come dire: è andata anche questa volta.
Naturalmente la bocca della stufa sostituiva anche il bidone dell’immondizia. Si bruciava di tutto: carta, rifiuti non commestibili della tavola e, soprattutto, legna “rimediata” nei cantieri. Ricordo in particolare quello allestito per la costruzione dell’Istituto Marvelli, allora noto come “Gioventù Studiosa”. Io ci andavo a prendere i pezzi di gesso per scrivere sui mattoni rossi del pavimento di casa. Dirò poi quale è stata la prima parola che ho imparato a scrivere. La nonna ci “rimediava” le asse della legna. Scrivendo questi appunti ho realizzato la chiara percezione di quanto il verbo “rimediare” fosse necessariamente diffuso. Si rimediava la cena della sera elaborando gli avanzi del pranzo, si andava a cogliere le erbe di campagna (per noi di via Cairoli era campagna la zona dove è sorto il Villaggio Ina Casa, allora “I Cundott”) e, mentre si “facevano le erbe” nei campi abbandonati, si rimediava qualche cavolo negli orti che proprio abbandonati non erano.
Dunque, poveri sì. Certo non poveri come chi aveva vissuto la guerra, loro avevano patito la fame noi avevamo abbastanza per riempirci lo stomaco con le tre P: pane, patate, pasta …