Anna Lombroso per il Simplicissimus – 26 lugio 2014
Non mi è mai piaciuta la sociologia tramite verbo dei tassisti, soste prolungate in sale d’attesa del dentista, in sostituzione di quelle vecchie domestiche agorà degli scompartimenti ferroviari di un tempo, prima delle frecce rosse.
Ma devo ricredermi: ieri un negozio Tim del centro della Capitale, allestito come una Asl coi numeretti e lunghe file di dolenti a causa di cellulari mal funzionanti, contratti capestro e così via, era proprio un laboratorio di indagine sull’identità nazionale contemporanea, sui differenti standard di sopportazione o di esercizio di sopraffazione e soprusi, delle sconcertanti priorità e delle sorprendenti gerarchie attribuite a bisogni e diritti.
E infatti la diversificata clientela convenuta a subire inefficienze, incomprensibili vessazioni da Comma 22, inspiegabili taglieggiamenti, di quelli scritti in corpo due a margine di corposi contratti, esternava uno sdegno, una combattiva insofferenza fino all’ammutinamento, dispiegati contro commessi e tecnici, parafulmini, per non dire scudi umani di una delle più nefande, inette e parassitarie aziende italiane.
Eh si, perché, ripetevano tutti gli indignados di Via del Corso, gli anarco insurrezionalisti dell’iphone, con quel che si paga! E poi, mica si può stare senza smartphone con tutte le app, tablet di nuova generazione!
E giù gomitate per sorpassare altri in attesa, diverbi, rabbia. Insomma quel sacrosanto repertorio di contestazione che non vediamo manifestarsi in occasione di sei mesi di attesa per una Tac, di ore e ore passate in un pronto soccorso, dei tradizionali 50 minuti che trascorrono prima dell’arrivo dei carabinieri in caso di incidente o di furto, dell’intervallo secolare tra la richiesta di un documento e il suo configurarsi sotto forma di foglio formato 4 per 4, che dopo tanto parlare di banda larga e semplificazione, siamo sempre vittime dei giochi di potere nel regno delle carte bollate. Nemmeno nella media di 15 anni di durata di cause. E neppure sotto il sole di Via Labicana, alle fermate senza pensilina di bus e tram, afflitti da quella che pomposi cartelli appesi agli “appositi sostegni” dei mezzi pubblici definiscono la necessaria “razionalizzazione” del trasporto romano.
Chiunque abbia scorso le cronache in città sa che sotto questo nome si cela il taglio del 20 % che il Comune ha deciso di effettuare sui mezzi pubblici. Come osservava ieri il Simplicissimus il tubolario del ceto politico ricorre a questi simpatici eufemismi, a rappresentazioni mediatiche, a un circuito di equivoche ipocrisie condivise, per imbonire cittadini che preferiscono non sapere, per manipolare vittime volontarie che optano per delega e ubbidienza. Si semplifica per aggirare vigilanza, controlli, regole, si riforma perché tutto resti uguale, anzi peggio, si valorizza, svendendo, liquidando avvilendo, come si fa in quello che una volta era il lontano Terzo Mondo, quando valorizzazione delle risorse significava espropriazione, taglio di foreste per hamburger e parquet sulle nostre tavole e sui nostri pavimenti, si razionalizza per tagliare servizi, garanzie, prerogative, quelle che sorreggevano stato sociale e dignità di cittadinanza.
C’è da chiedersi che cosa susciti coraggio, dignità, lesa e risvegliata, in un negozio Tim e in consumatori e non in un ospedale e in utenti e non in un ufficio pubblico e in cittadini e non davanti al Mose, leggendo dell’Expo o della Tav mentre si viaggia nei carri bestiame dei pendolari. Deve essere stata esercitata un persuasione davvero perverso se ci siamo fatti colonizzare la testa dall’ideologia del “mercati”, dalla supremazia del “privato” convertendo l’accesso a prestazioni pagate da ognuno di noi in elargizioni, se il consumatore ha più diritti del cittadino, se riteniamo abbiano più valore i soldi sepsi in prodotti di quelli investiti in servizi e beni comuni, se ci hanno convinti che il lavoro, le garanzie, siano concessioni giustamente arbitrarie, addirittura immeritate, se non ce le conquistiamo pagando un prezzo altissimo in denaro, tutele, certezze, rinunce, assoggettamento ai ricatti, accettazione dell’occultamento della ricchezza da parte di pochi, dell’estendersi e incrudelirsi della povertà di molti, come della corruzione diffusa, come per un destino inevitabile e indiscutibile.
E se ci accontentiamo di balocchi che diventano subito vecchi e della collera da bambini cui si è rotto il giocattolo.