INAZIONE CLIMATICA e SOCIALE

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Emanuela Celauro 'Manugea'

(tempo di lettura stimato: meno di 5 minuti)

INAZIONE CLIMATICA e SOCIALE

Siamo davvero incapaci di “fare ed essere società”?

 

Le immagini di Valencia ci  sbattono in faccia gli effetti della nostra, come qualcuno l’ha definita “inazione climatica”.

Saitō Kōhei ha scritto “Il Capitale nell’Antropocene” dichiarando, senza mezzi termini,  che il capitalismo non ci guiderà fuori dalla crisi. Che qualunque tipo di crescita economica va’ di pari passo con la distruzione del Pianeta. Che non abbiamo altra possibilità che tirare il freno.

Ha dichiarato, usando le parole del premio nobel per l’Ambiente (minuscolo perché in realtà si chiama Premio Tyler)  Johan Rockström, che la crescita economica verde è una fuga dalla realtà.

Eppure noi non riusciamo a rinunciare alle nostre vite e ai nostri privilegi. Siamo tutti vittime del fascino delle nostre vite attuali.

E ci facciamo abbindolare dalla prospettiva economica di produrre auto elettriche, di dare vita a holding verdi che gestiscano questa transizione. Lo fa’ chi può economicamente. Chi non può implode, subisce le tassazioni sempre più pressanti su ogni fronte. Stiamo creando un divario sempre maggiore tra i Nord e i Sud del mondo e lo stiamo creando anche in senso diagonale. Assistiamo a poveri sempre più poveri e a un ceto medio che comincia un po’ a tremare ma si fa’ forte del sistema capitalistico che continua a portare via dove già non ce ne è più.

Per approfondire le apparenti ovvietà che Kōhei scrive, circostanziate con grande scientificità, vi rimando alla lettura del suo saggio (molto scorrevole), sempre che non siate troppo presi da altro e pensiate che si possa attendere ancora un po’, procrastinando come da almeno quattro decenni si è fatta norma.

Ci riempiamo la bocca di buoni propositi con l’etica e il dovere e poi cadiamo nella vera INAZIONE.

E per comprenderla bisogna osservare i gesti quotidiani, il consueto con cui si incontra e si scontra la gente normale.

Ho parlato con una mamma che lavora da precaria e cresce da sola *  figl* . Vuole parlare con i docenti. Qualcuno ha mantenuto i colloqui on line del periodo pandemico, qualcun altro ha ripristinato quelli in presenza.

Un* docente rifiuta il colloquio telefonico richiesto dalla madre per impossibilità lavorativa, di costi economici, sociali, ambientali, a recarsi in presenza in un’altra regione, dovendo perdere lavoro, soldi, tempo, aumentando la produzione di C02, per stare in tema.

A me piacciono i colloqui de visu, molto. Si vede la gente, ti rendi conto se ti guardano negli occhi, come stanno, si può mettere in atto la compassione, lavorare di empatia, si può, in maniera sognante “cambiare il mondo”. Se però non si può o costa troppo, in tanti sensi, non c’è nulla di male a consentire un colloquio telefonico.

Mi piace peraltro che una madre si interessi ancora, di sti tempi, ai figli assegnati a una scuola e ad un gruppo di adulti che dovrebbero occuparsi solo della loro formazione mentre, ahimè, sono schiavi, essi stessi, di questioni burocratiche, di una scuola allo sbaraglio, o impegnati ad evitare che i controsoffitti crollino in testa agli studenti.

Questa mamma scrive al* docente rispettando il volere ma chiedendo di considerare la situazione. Poi scrive a* rappresentanti di classe dei genitori chiedendo di poter esporre la peculiarità e fare azione di mediazione. Altri genitori sollevano lo stesso problema.

Risultato: * rappresentanti dicono che è meglio che ognuno scriva privatamente, cosa che la mamma ha già fatto e così pare anche altre mamme.

Il succo non sta nel merito di consentire o non consentire colloqui telefonici o in presenza. Il succo non sta se sì alle auto elettriche e sono brutti e cattivi quelli che non l’hanno ancora comprata e che non la compreranno mai.

 

 

 

Il succo sta nella nostra incapacità a rinunciare a qualcosa, che è una inazione, e a spenderci per il bene di qualcun altro, che poi è anche il nostro.

Il succo è nel rifiuto di prendere una posizione, che non è una bandiera, da parte di alcuni.

L’inazione è il rifiuto all’azione. Non è l’incapacità di agire. La gravità sta nel rifiuto di empatizzare con l’Altro.

Fare Società è prendersi la responsabilità del proprio, anche dove sconfina nel “dell’Altro”. Fare Società è prima di tutto Esserlo.

Non abbiamo più tempo, e ce lo stanno dicendo in tutti i modi, il Pianeta, l’Ambiente, le Relazioni che viviamo.

Eppure ce ne stiamo nelle nostre micro nicchie di potere (a partire da un ruolo affidato…….basterebbe ricordare cosa accade quando si investe qualcuno di potere o di una divisa, non per forza nell’outfit, o di un’appartenenza).

Abbiamo bisogno di tornare umani. Che è l’unica appartenenza che ci è propria.

RESTIAMO UMANI  scriveva Vittorio Arrigoni.

Io credo che ci si debba pensare seriamente.

Di ritornarlo, umani.

A partire dal piccolissimo quotidiano.

Anche in un Nord del mondo che sta perdendo tutte le roccaforti

Di Emanuela Celauro “manugea”

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