In memorian di Gianni Vattimo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Antonio Carioti

IN MEMORIAM
Gianni Vattimo era un caro amico; di lui conservo ricordi pieni di delicatezza e di serenità. Era un uomo timido e sensibile: la più bella memoria che conservo di lui è quella di un casuale incontro in un deserto vagone di seconda classe di una linea ferroviaria secondaria – oggi un “ramo secco” non più attivo, a causa della dissennata politica dei governi italiani del dopoguerra che obbedendo al diktat della famiglia Agnelli e di quanti erano interessati a indebitarci costringendoci a viaggiare sempre e soltanto in auto – durante il quale, tra le montagne dell’Appennino centrale, mi confidò di aver passato un’intera notte insonne vegliando il suo vecchio gatto preda di un duro attacco d’asma. Vattimo ha scritto cose molto belle: ma nel mio ricordo valgono soprattutto quelle lunghe ore notturne passate a confortare un vecchio amico. Per quel che concerne il suo pensiero e la sua opera, preferisco passare il testimone a chi ne sa più di me. – Franco Cardini

UN SALUTO A GIANNI VATTIMO
di Antonio Carioti

 

Gianni Vattimo, Italian writer and philosopher, Torino, Italy, 15th May 2016. (Photo by Leonardo Cendamo/Getty Images)


È morto martedì sera all’ospedale di Rivoli (Torino) il filosofo Gianni Vattimo. Aveva 87 anni. Lo studioso ha trascorso gli ultimi giorni ricoverato nel reparto di nefrologia, dopo che le sue condizioni di salute si erano aggravate. La notizia della morte è stata data da Simone Caminada, 38 anni, suo assistente e compagno per 14 anni.
Si considerava al tempo stesso comunista e cristiano (anzi: proprio cattolico), ma era il pensatore antidogmatico per eccellenza, l’avversario convinto della pretesa di descrivere per via filosofica, o anche scientifica, l’ordine autentico della realtà. A Gianni Vattimo, morto martedì 19 settembre all’età di 87 anni, va riconosciuta la coerenza nel criticare ogni costruzione metafisica, che si esprimeva nella posizione comunemente conosciuta come “pensiero debole”, dal titolo di una famosa raccolta di saggi da lui curata con Pier Aldo Rovatti nel 1983.
Al filosofo torinese va reso inoltre il merito di aver cercato sempre di rendere la sua raffinata elaborazione teorica accessibile al pubblico mediamente colto. Aveva una straordinaria capacità di esprimersi in modo chiaro, per quanto suggestivo. E ha lasciato un formidabile resoconto della sua vita e del suo pensiero nell’autobiografia a quattro mani Non Essere Dio, scritta con Piergiorgio Paterlini (Aliberti, 2006; Ponte Alle Grazie, 2015). Sempre disponibile a dialogare e a partecipare nelle più diverse iniziative, Vattimo non aveva esitato a farsi avanti anche nell’arena politica: era stato a lungo parlamentare europeo, sempre nell’ambito della sinistra, ma in collocazioni via via mutevoli.
Nato il 4 gennaio 1936, Vattimo era figlio di un carabiniere calabrese di stanza a Torino, che era morto di polmonite quando il piccolo Gianni aveva appena sedici mesi. Cresciuto in condizioni disagiate, aveva sempre rivendicato le sue origini proletarie: oltre alla scuola, frequentata sempre con ottimo profitto, alla sua formazione aveva contribuito l’ambiente dell’oratorio, dove si era presto messo in luce. Appena diciottenne era divenuto delegato diocesano degli studenti dell’Azione cattolica, dalla quale però era stato presto espulso per le sue posizioni critiche verso l’autorità ecclesiastica. Ricordava però sempre con caloroso affetto il suo maestro, monsignor Pietro Caramello, un pensatore cattolico dalle idee assai conservatrici, legato all’eredità di Tommaso d’Aquino.
Nel 1955 il futuro filosofo era entrato alla Rai insieme agli amici Furio Colombo e Umberto Eco, ma l’aveva lasciata dopo un paio d’anni. La sua vera strada era quella universitaria, sotto la guida di un altro importante maestro e amico, Luigi Pareyson. Vattimo si era laureato nel 1959 con una tesi su Aristotele e nel 1964, a soli ventotto anni, aveva intrapreso l’insegnamento come incaricato di Estetica. L’anno prima era uscito il suo libro Essere, storia e linguaggio in Heidegger (Marietti, 1963), che già indicava una linea di ricerca dai tratti originali.
Lo stesso Martin Heidegger e Friedrich Nietzsche, al quale avrebbe dedicato nel 1974 il fondamentale saggio Il soggetto e la maschera (Bompiani), erano già allora i punti di riferimento basilari del pensiero di Vattimo. Un’autentica illuminazione era stata per lui un’immagine coniata dall’autore di Così parlò Zarathustra per cui “l’uomo moderno si aggira nel giardino della storia come in un deposito di maschere teatrali prendendo questa e quella”. Da Heidegger, di cui forse sottovalutava gli aspetti più inquietanti, aveva mutuato la polemica contro la tradizione teoretica “che crede di poter afferrare un fondamento ultimo della realtà nella forma di una struttura oggettiva collocata fuori dal tempo e dalla storia”.
Qui si possono individuare le basi dell’impostazione che avrebbe reso Vattimo un punto di riferimento anche a livello internazionale. L’introduzione alla raccolta di saggi Il pensiero debole (Feltrinelli), firmata con Rovatti, è un’acuta critica alla ricerca dell’“Essere originario, vero”, in cui ad avviso degli autori ancora si attardava gran parte dell’accademia italiana, in alternativa alla quale proponevano invece “una via per incontrare di nuovo l’Essere come traccia, ricordo, un essere consumato e indebolito, per questo soltanto degno di attenzione”.
Era un’impostazione che non mancava di forti ricadute sul terreno della vita pubblica, sorretta dall’“idea – avrebbe scritto molti anni dopo Vattimo – di utilizzare l’alleggerimento dei rapporti sociali, prodotto dalla tecnologia, fino a realizzare una forma di liberazione”. Era l’annuncio dell’epoca postmoderna, una visione iconoclasta che all’intento di fondare i saperi, proprio della filosofia occidentale, sostituiva il proposito di esautorarli, nella convinzione che l’Essere può essere pensato solo in forma plurale e contingente. Vattimo non negava il reale, come alcuni lo accusavano di fare, ma riteneva che fosse possibile coglierlo solo all’interno di determinati paradigmi, senza alcuna ambizione di piena e assoluta razionalità.
Preside della facoltà di Filosofia di Torino negli anni Settanta, firma della “Stampa”, personaggio pubblico di rilievo, Vattimo non nascondeva la sua omosessualità. La vita privata gli aveva riservato esperienze assai dolorose, delle quali parlava e scriveva apertamente. L’Aids gli aveva portato via nel 1992 il suo compagno Gianpiero Cavaglià, assistito amorevolmente fino all’ultimo. E poi un altro, Sergio Mamino, era stato colpito da un tumore ed era morto su un volo transoceanico dall’America all’Europa nel 2003, quando aveva già optato per l’eutanasia all’estero. Da ultimo era nato un caso giudiziario circa il suo rapporto con il compagno e assistente Simone Caminada, condannato a due anni di carcere per circonvenzione d’incapace nei riguardi del filosofo.
Negli anni Novanta si era intensificato l’impegno pubblico di Vattimo, sfociato nell’elezione al Parlamento europeo per due legislature, prima nei Democratici di sinistra nel 1999 e poi con l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro nel 2009. In seguito le sue posizioni erano andate radicalizzandosi e alcune sue sortite, per esempio contro Israele o a favore del populismo venezuelano di Hugo Chávez, avevano sollevato parecchio clamore.
Si proclamava comunista, ma non in senso veteromarxista, anche se riteneva che ci fossero vari aspetti dell’opera di Karl Marx da recuperare. Più che altro intendeva manifestare così il suo rifiuto dell’ordine esistente. Non coltivava tuttavia una visione catastrofista della “tarda modernità”: era convinto che contenesse una dose insopportabile di barbarie, ma anche potenzialità emancipatrici di straordinario rilievo. Il futuro, diceva, “sarà socialista o non sarà”. Si richiamava, per alimentare il suo cauto ottimismo, a un verso del poeta romantico tedesco Friedrich Hölderlin, spesso citato da Heidegger, per cui dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva.
E per Vattimo una fonte di salvezza rimaneva la fede religiosa, alla quale si era da lungo tempo riavvicinato, forse senza mai distaccarsene davvero. Reinterpretando a suo modo il paradigma del capro espiatorio di René Girard, vedeva in Gesù “il primo grande desacralizzatore delle religioni naturali”, colui che aveva smentito lo schema di un rapporto autoritario tra l’uomo e il trascendente, rivelando che “Dio ci chiama amici”.
Perciò la secolarizzazione profonda del mondo occidentale gli appariva una grande “eredità del cristianesimo”. Anzi era convinto che il nichilismo postmoderno del pensiero debole fosse l’unica filosofia cristiana plausibile del nostro tempo. E nel pontificato di Papa Francesco Vattimo aveva ravvisato un segnale consolante di speranza.
(Corriere della Sera, 20 settembre 2023)

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