Fonte: huffingtonpost
di Roberto Weber – 2 maggio 2018
Buono il Friuli Venezia Giulia, perché offre risposte piuttosto nette in relazione allo stato di salute dei tre poli in campo. Come per tutte le storie che valgono la pena di essere raccontate, bisogna incominciare dall’inizio. E l’inizio non sono né le elezioni regionali di ieri, né quelle politiche di qualche mese fa.
L’inizio a nostro insindacabile giudizio sono le elezioni politiche del 2006, quelle della vittoria dimezzata per così dire, ma anche quelle in cui la ‘famiglia’ del centro-sinistra (a metterci dentro tutti, moderati, centro-sinistri e sinistrissimi) raggiunge in una regione tradizionalmente ‘moderata’ il più alto numero di consensi di sempre: 362.945 voti. Da allora si susseguono altre 3 tornate elettorali nazionali e ben 3 elezioni per il rinnovo della Presidenza della regione.
Perché mettere assieme regionali e nazionali? Perché mescolare le mele con le pere? Perché come avrete modo di vedere, i dati – al lordo di differenze di partecipazione di quasi 30 punti – mettono in luce aspetti assai interessanti e utili a capire le dimensioni effettive del trend di centro-sinistra, la qualità/quantità della vittoria di Fedriga e le molte ombre che caratterizzano l’andamento del M5S.
Tutto ciò con il sospetto, che le tendenze rilevate, siano per molti versi sovrapponibili a quelle del paese intero o perlomeno del paese del nord – e chissà – forse del centro.
Dunque in termini di voti effettivi il bacino di centro-sinistra, mostra segni di progressivo rimpicciolimento. Oggi, rispetto al 2006, gli elettori rimasti sono pari a 144.361. Guardando alle sole elezioni politiche, rispetto al lontano 2006 osserviamo un andamento di questa natura: 55.592 (il 15,3%) voti si perdono nel 2008 quando alla guida del Pd c’è Veltroni; del patrimonio rimasto ulteriori 94.000 voti (il 30,6%) se ne vanno durante la gestione Bersani; 24.448 voti infine (pari all’11,4%) spariscono con il PD a guida Renzi. Un bilancio che si fa assai più pesante per il partito concepito in chiave di auto-sufficienza, se guardiamo alle ultime due elezioni regionali. Si parte da un raccolto di 211.508 voti e si atterra con 144.361 voti (meno 31,7%).
Ben diversa la tendenza della “famiglia” legata al centro-destra. Subisce il colpo delle politiche 2013 sostanzialmente dimezzando i consensi effettivi, mostra segni di netta ripresa alle regionali di qualche mese dopo perdendo di misura le elezioni vinte da Deborah Serracchiani, ma avvicinandosi ai volumi delle nazionali, risale di oltre 100.000 voti alle elezioni nazionali di quest’anno, per raggiungere infine il voto più alto mai registrato alle elezioni Regionali con Fedriga.
La famiglia mononucleare del M5S mette invece in evidenza un andamento in cui le fiammate sono pari alla friabilità; nel voto a carattere regionale testimonia un netto deficit di credibilità, a soli pochi mesi di distanza dal voto politico infatti il bacino di consensi si riduce brutalmente passando nel 2013 a circa la metà (da 196.000 a 103.000) e nel 2018 a poco più di un terzo (da 169.000 a 62.000). In entrambi i casi la caduta è verticale e mette in luce una debolezza di radicamento, di proposta e di personale politico che a cinque anni dalla nascita e dall’affermazione del M5S, mostra tratti cronici in particolare nel nord. Nella dimensione squisitamente territoriale, la radicalità di offerta sembra evaporare, fino ad apparire clandestina testimonianza.
In sintesi, osserviamo da un lato una coalizione centrata su un partito (la Lega) che sfrutta con grande sapienza politica la condizione di leggera paranoia in cui sembra essere scivolato il vecchio mondo moderato; dall’altro una famiglia aristocratica di grandi tradizioni (quella di centro-sinistra) che anno dopo anno guarda impotente all’erosione del proprio patrimonio; dall’altro ancora una tribù spensieratamente intenta a dilapidare quanto il popolo sovrano ha posto nel suo grembo.