Il valzer della brava gente

per Gabriella
Autore originale del testo: Anna Lombroso
Fonte: il Simplicissimus
Url fonte: https://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2015/06/09/il-valzer-della-brava-gente/

di Anna Lombroso per il Simplicissimus – 9 giugno 2015

Ieri mentre osservatori e opinionisti si esercitavano intorno al cinismo di Maroni in modo da non doverne commentare altri “ufficiali” solo apparentemente meno cruenti e meno sfrontati, una intelligente amica si è espressa in rete, con una frase di sfida nei confronti di certa correttezza  politica capace di sconfinare nell’ipocrisia, sostituendo la solidarietà con la pietà. “Che ne pensate, ha scritto,  e che fareste se a pochi passi dalla vostra casa, la vostra amata dimora che avete scelto con cura, in un quartiere gradito e gradevole e a lungo ricercato, decidessero un giorno di far sorgere degli ostelli, delle case accoglienze immigrati o un bel campo nomade?”.

E infatti così facendo ha mirato dritto al cuore nero della brava gente, quella che si è conquistata, in tempi migliori,  privilegi,  ormai labili, beni, ormai minacciati, sicurezze, ormai instabili, e che vive con sorpresa  e risentimento la perdita, la retrocessione sociale, la demoralizzazione intendendo con ciò l’erosione di valori di riferimento, primo tra tutti la coesione, il rispetto di leggi e regole, il riconoscersi nei capisaldi della cittadinanza, e, insieme, un malinconico ripiegamento solipsistico, la triste autodifesa nell’isolamento e nella diffidenza.

Per intere comunità, per molti segmenti sociali che vivono come topini in gabbia, che si arrampicano su è giù per le eterne scalette impervie dei mutui, dei debiti, delle tasse, della precarietà, la tutela del poco conservato e risparmiato dall’aggressione “esterna” e che tra l’altro assicura il “riconoscimento” della superiorità di chi ha ancora una scialuppa rispetto a sommersi, a nuotatori disperati che cercano di restare a galla,  è diventata  la ragione di vita che fa accettare la rinuncia a diritti, i propri e quelli degli altri, l’abiura da libertà personali e collettive, la ragionevolezza che cancella la possibilità di immaginare e sognare altro dal qui e ora, che tanto del doman non v’è certezza.

E infatti è proprio questa rinnovata disuguaglianza tra disuguali, questa rigida gerarchia alimentata di chi ha fatto dell’inimicizia, del rancore, della paura, della divisione, della sopraffazione, un sistema di governo,  ha consentito e favorito che si alzassero muri, determinando apartheid non  scritte ma invalicabili, sicché abitanti che non si conoscono, non si salutano, non suonano dal vicino per chiedere una manciata di sale, trovano  intese temporanee e interessi condivisi nella salvaguardia del “decoro” e soprattutto nel valore delle loro proprietà e delle loro rendite, messe in pericolo dall’irruzione di “diversi”, ostili e intimidatori in quanto “altri”, in quanto estranei, in quando differenti.

E ha ragione l’amica ad invitare a guardarsi dentro, nella profondità degli “italiani brava gente” che ha accettato di buon grado il reiterarsi di leggi razziali, che non è “xenofoba, però i rom..”, che vota per una destra che incarna rifiuto, respingimento, razzismo, anche interno, soperchieria, ignoranza,  o per una “diversa destra”, che rifiuta responsabilità morali e di mandato, che perpetua l’umiliazione facendola scontare a chi sta più sotto, forte coi deboli, debole coi forti, facendo credere che la colpa dell’impoverimento, dell’avvilimento del  futuro, dell’arretramento sociale si debba attribuire di volta in volta a costumi dissipati o a chi arriva, a chi ci “invade”, a chi occupa le nostre scuole illegittimamente, come i nostri asili e  i nostri ospedali  e magari anche a chi ruba il nostro lavoro di raccoglitore di pomodori, di muratore senza protezione, di cucitrice o tagliatrice sepolta in un hangar giorno e notte.

Ma non ha ragione invece quando, provocatoriamente, si rivolge a vittime minacciate da altre vittime,  quelli che si sono conquistati e meritati una confortevole dimora in un quartiere gradito e gradevole – che, se fossimo a Roma, tanto per dire, sarebbe comunque assediata da cassonetti da cui trabocca la monnezza, dove non è stata fatta la disinfestazione da anni e prolifera la zanzara tigre, dove impera la doppia file, dove i mezzi pubblici sono presenze estemporanee dedicate a colf pazienti.

Stiano tranquilli: è d’uso presso la capitale occupata dalle cosche, come a Berlino, Istanbul, Parigi, Londra, che l’articolazione interna delle città   in ghetti di lusso difesi da vigilantes, muri e recinti video sorvegliati, chiodi che spuntano dal terreno per scoraggiare le “visite”, e il resto, giù giù fino alle bidonville, fino alle favelas, fino alle baracche di lamiera, rendere eterna e inviolabile  la “divisione”. E infatti i disperati che arrivano, dopo soste in lager, ospiti maltollerati  e rei all’origine del crimine di irregolarità, quindi condannati a trasgredire per il solo fatto di esistere, non si affacciano torvi e inquietanti ai Parioli, all’Olgiata, in Parti, ma vengono invece confinati dove ce ne sono già altri, stanziali o provvisori, a gonfiare come in una bolla la violenza compressa, la sofferenza insopportabile, il malessere senza domani, fino a che scoppia o viene fatta scoppiare a orologeria, in modo da confermare pregiudizi, stereotipi, odio, rifiuto.  Certo è vero, la marginalità è aggressiva perché sempre più estesa, è intimidatoria anche grazie a una percezione dell’invasione largamente distorta per via  di quella egemonia dell’emergenza che promuove il ricorso a misure eccezionali, allo scavalcamento delle regole che apre vantaggiose scorciatoie alla corruzione e alla criminalità. Ma mentre chi sta nelle tiepide case, chi  tornando a sera trova il cibo caldo e visi amici, ne è sfiorato come da fantasmi molesti, c’è chi invece la vive come una punizione e sono i “borgatari”, quel “popolo” di Tor Sapienza, protagonista di  “ribellismi reazionari”, che non è nemmeno grado di distinguere tra un immigrato e un rifugiato politico, oppure tra un rom e un extracomunitario, tanto è abbrutito e relegato  in condizioni di degrado sociale, ambientale e culturale. Così sconsolato e frustrato  da non essere  in grado di riconoscere la vera controparte, i veri responsabili della sua condizione,prendersela  con i bersagli facili,   con tutti quelli che gli capitano a tiro, a cominciare  da quelli con cui convive e condivide la stessa condizione  rei di aggiungere  disagio al disagio.

Nessuno ricorda di aver visto   manifestazioni di operai   torinesi o genovesi o milanesi contro gli immigrati meridionali che durante gli anni ’50,  ’60 e ’70  andarono a cercar fortuna nei grandi centri industriali delle metropoli del nord. Eppure i problemi che quella immigrazione massiccia produsse erano esattamente gli stessi che viviamo oggi con gli extracomunitari.   È che allora esistevano ideologie e organizzazioni che testimoniavano e rappresentavano la lotta contro lo sfruttamento per un mondo di uguali nella diversità, che facevano dei diritti, delle garanzie, dell’istruzione, dell’abitare e della qualità del territorio,  della conoscenza e della cultura aperte  a tutti le loro battaglie. Mentre ora questi stessi richiami paiono appunto ipocriti, propagandistici e comunque deboli di fronte alla violenza di un pensiero comune che li ha ridotti a slogan elettorali, a attrezzature arcaiche.

Invece dovremmo fermarci a pensare che da ben altri sono minacciate le nostre “amate dimore”, dagli stessi che dirigono le scelte contro stati considerati di serie B e popoli straccioni, talmente poveri anche di senso morale e dignità da doversi prestare a contribuire allo sterminio di milioni di esseri umani, da doverseli tenere quei “pacchi”  ingombranti, noi, la Grecia, il Libano, la Gior­da­nia, la Tur­chia, l’Egitto. Proprio come è obbligatorio per le periferie siano Tor Sapienza o la Sicilia o la Puglia, è doveroso per questi Paesi propaggini dell’Africa, prenderseli in carico senza distinzione tra pro­fu­ghi di guerra, di per­se­cu­zioni poli­ti­che, reli­giose o etni­che, di crisi ambien­tali o di fame e mise­ria, vittime comunque di una guerra ali­men­tata dal com­mer­cio di armi a bene­fi­cio di nazioni che le producono, compresa la nostra che riesce ad essere ad un tempo artefice e succube. Cosicché sa fronteggiare  la tragedia delegandola a mala­vita, mafia, malaffare  e mal­go­verno, i gestori abituali di tutte  le emer­genze vere o artificiali: Expò, Mose, rifiuti, ter­re­moti, allu­vioni,  epidemie vere o artificiali, buchi di bilancio. Con due effetti, trarre profitto dalla sfruttamento, dal degrado, dalla mercificazione di persone,  dall’oltraggio ai corpi e alle speranze, e nutrire malcontento, rancore, disagio per indurre la richiesta di maniere  forti, di pugni di ferro, di soluzioni finali.  Quando, è bene ricordarlo, tutti noi, la brava gente sempre meno proba, i cittadini sempre meno tali,  saremo in pericolo.

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