Il taccuino segreto di Cesare Pavese (1908-1950), l’ultimo di settant’anni di pettegolezzi

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Gian Franco Ferraris

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A settant’anni dalla morte dello scrittore piemontese, arriva in libreria il controverso inedito “Taccuino segreto” tenuto durante la guerra. Si tratta di appunti risalenti al biennio 1942-1943 e individuati per la prima volta all’inizio degli anni Sessanta da Lorenzo Mondo, che nell’estate del 1990 ne curò la pubblicazione sul quotidiano” La Stampa”. Mentre la pubblicazione nel 1990 aveva provocato varie polemiche, Giancarlo Pajetta  arrivò a scrivere “sono rimasto stravolto. E oggi considero Pavese un disertore”.

Amici e intellettuali che con Pavese avevano condiviso l’avventura della casa editrice Einaudi, misero addirittura in dubbio l’autenticità degli appunti.

Il taccuino segreto in realtà è un bloc- notes di piccole dimensioni (cm 12 x 15), composto di 29 foglietti scritti a matita, che in alcune pagine contiene nomi di allievi e orari settimanali per dare ripetizioni di italiano e latino. Gli appunti sono stati trovati da Lorenzo Mondo nel 1962, il quale aveva da poco scritto la tesi di laurea su Cesare Pavese e pubblicato un libro sullo scrittore e in quello stesso periodo aveva avuto il consenso dalla sorella Maria Pavese in Sini di rovistare in uno scatolone dove erano posati numerosi manoscritti inediti. Questi scritti consentirono a Lorenzo Mondo di scrivere insieme a Italo Calvino un libro sulle lettere di Pavese, che gli procurò un certo successo di pubblico e professionale.

Possiamo leggere dalla penna dello stesso Mondo la “ricostruzione” del taccuino segreto:

“Tornai altre volte da Maria Sini per recuperare materiali estravaganti, non contenuti nel famoso scatolone. E fu durante una di queste visite che, tra le altre carte racimolate dalla signora, mi cadde l’occhio su un taccuino di carta quadrettata, mancante di foglietti iniziali. Una rapida scorsa tra le righe, tracciate per lo più a matita, mi lasciò esterrefatto e turbato. Non ne feci cenno a Maria Sini e mi accommiatai dalla sua casa riservando il geloso segreto a Italo Calvino. Si tratta delle note che qui pubblichiamo e che tanta eco e animate discussioni, avrebbero provocato. Rivedo ancora il volto di Calvino mentre sfogliava il manoscritto che gli avevo appena consegnato; pallido come di consueto ma come indurito nei lineamenti. Sollevò il capo, disse di non saperne niente, si limitò a chiedermi che cosa volessi farne. Risposi che al momento non mi pareva opportuno renderlo noto. Ma decidesse lui. Lo affidavo intanto alle sue mani perchè lo mettesse al sicuro e, quando avesse pensato di pubblicarlo, si ricordasse di me. Acconsentì, mi suggerì appena di farne una copia, che magari mi sarebbe servita per l’eventuale prosecuzione dei miei studi. Il mio atteggiamento era dovuto a varie motivazioni. Intendevo affidarmi al suo discernimento, mettermi sotto la sua autorevole tutela, ma volevo innanzitutto sottrarre il mio amato Pavese a volgari e faziose speculazioni, ad un temuto linciaggio ideologico.

C’era inoltre la preoccupazione di non ferire la sorella Maria, già afflitta dalle ricorrenti evocazioni degli amori sfortunati, del tragico destino di Cesare. Poi, conclusa la vicenda dell’epistolario persi di vista Calvino, che lasciò Torino per Parigi e Roma, non ebbi più modo di sentirlo, nè sul taccuino che aveva evidentemente rimosso, nè su altri argomenti”

Quindi gli originali sarebbero stati presi in consegna da Italo Calvino e ormai irreperibili, ma Lorenzo Mondo avrebbe conservato le fotocopie  che hanno consentito quest’anno la pubblicazione de Il taccuino segreto, solo adesso edito in volume dalla sofisticata casa editrice Aragno a cura di Francesca Belviso (pagine CXXVI+129, euro 25,00).  Volume che è passato inosservato completamente da tutti i giornali, indifferenti alle polemiche suscitate nel passato.

«Quanto sono stato ingenuo!»

Il libro gode dell’introduzione di un illustre intellettuale torinese Angelo D’Orsi , che si può liquidare con : “l’ultimo inutile pettegolezzo su Cesare Pavese”. E’ bene ricordare l’ultimo messaggio di Pavese.

La notte tra sabato 26 e domenica 27 agosto del 1950, Cesare Pavese si chiude nella camera 43 dell’Hotel Roma in Piazza Carlo Felice a Torino e ingerisce, sciolte nell’acqua, “venti bustine di sonnifero”

Sul frontespizio dei Dialoghi con Leucò posato sul tavolino, Pavese scrive le sue ultime parole:

Di fatto Angelo D’ Orsi (immigrato da bambino a Torino ), come quegli attori che hanno faticato ad approdare al palcoscenico, conquista la sua notorietà, svilendo la vita di Cesare Pavese e mettendone in evidenza le contraddizioni e la viltà come aveva già fatto in passato con Norberto Bobbio e Massimo Mila e altri intellettuali, tutti provenienti dal liceo Massimo D’Azeglio dove insegnava il loro mentore Augusto Monti. D’Orsi non coglie tra l’altro il fatto che questi intellettuali provenivano dalla borghesia torinese, mentre Pavese proveniva da una famiglia della piccola borghesia delle langhe (Santo Stefano Belbo), trasferitasi a Torino (il padre era morto in giovane età lasciando la moglie di severi costumi e due bambini). Lo scrittore quindi resterà sempre un langarolo immigrato in città.

Si trattava di un  gruppo di intellettuali cresciuti all’ombra del fascismo, che con le loro viltà, passioni, gelosie , ambizioni, eroismi , hanno rappresentato l’Italia migliore in quel lungo periodo di dittatura. E’ come se D’Orsi svilendo loro, di conseguenza, facesse emergere per contrasto la sua figura “di super uomo” di sinistra, che non accusa apertamente ma elegantemente si erge a giudice : insinuare il dubbio di un ambiguità fascista dello scrittore è  ingiusto. Pavese, infatti non ha mai avuto amici e frequentazioni fasciste, durante il fascismo non ha mai insegnato e il suo complesso codice etico emerge chiaramente in migliaia di pagine scritte. Scuola, amici, amori, lo collocano nell’ambiente politico e culturale antifascista di Torino, ben lontano dalla “caricatura” che ne fa il D’Orsi.

La dimostrazione di una retorica fasulla e non vera utilizzata da D’Orsi, sta nel fatto che criticasse la fuga di Pavese, reo a suo avviso di non avere partecipato alla Resistenza. I partigiani infatti, erano nella maggior parte giovani renitenti alla leva, appartenenti alle classi tra il 1921 ed il 1927, cioè quelle coinvolte dai bandi di arruolamento della Repubblica sociale di Salò.

Questi giovani si erano nascosti per non combattere una guerra già di fatto perduta nel 1943 e nella lenta liberazione dai nazifascisti da parte delle forze alleate all’America, si erano organizzati in formazioni partigiane, di cui molte  lievitate all’ultimo minuto ( molti fascisti all’ultimo divennero partigiani).

Pavese era nato nel 1908 e  i partigiani di età superiore ai 35 anni erano meno del 15% e provenivano quasi tutti dall’esercito. I laureati poi non arrivavano al 2%. Beppe Fenoglio partigiano e scrittore era nato ad Alba il 1 marzo 1922 (14 anni dopo Pavese) e si arruolò come ufficiale nell’esercito italiano nel 1943. Insomma ve lo vedete Pavese con il fucile?

I partigiani attivi erano pochissimi e la maggior parte degli antifascisti se ne stavano nascosti, in attesa finisse la guerra.

Non penso che il ritrovamento di questi taccuini possa far cambiare il giudizio su Cesare Pavese, che ha scritto le pagine più umane, commoventi e di una lucidità accecante, sulla guerra civile nel libro “La casa in collina” (1947):

“… ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, vuoi dire che anche vinto il nemico è qualcuno. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.”

Un brano che è anche una presa di coscienza dello scrittore e la testimonianza della solitudine e fragilità della condizione umana.

Anche l’accusa di decadentismo è antica e ricorrente: il primo a muovere questo rimprovero è stato Augusto Monti (l’insegnante del liceo d’Azeglio che con l’insegnamento di un rigoroso metodo di studio, influenzò Pavese insieme a Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e tanti altri allievi), a proposito dei racconti ‘Il diavolo sulle colline’ e ‘Tra donne sole’.

 Il 18 gennaio del 1950 Pavese rispose: “Caro Monti, quando ho letto il paragone con Pastonchi, “l’altro dannunziano”, ho detto: “E’ diventato fesso, e basta”…. col gusto… non si discute…. Ma un giudizio sul “positivo etico” è un’altra cosa e si discute…. Mi viene un sospetto: che tu sia sentimentalmente così legato all’alta borghesia da seccarti quando senti dir cacca sul suo conto, e volontaristicamente così legato al mondo del lavoro, da esigere da un libro il generico astratto ottimismo di tipo militante. In questo caso, è evidente che non possiamo intenderci.

Dopo la morte, nel 1954 arriva la stroncatura dell’invidioso  Alberto Moravia che definisce Pavese un “decadente di provincia. L’anno seguente il critico Carlo Salinari, che dal 1951 al 1955 fu il responsabile della politica culturale del Pci, “riconosce la complessità e l’interesse” dell’opera di Pavese e ne ammette la funzione culturale. Salinari tuttavia afferma pure che tale funzione è «stata maggiore della sua resa artistica», e ribadisce che lo scrittore piemontese è «il punto di approdo del decadentismo italiano».

Non mancarono poi le tensioni tra lo scrittore e gli intransigenti custodi dell’ortodossia del PCI: Pavese si iscrisse al Partito Comunista con convinzione e a mio parere fece uno sforzo sincero (vista la sua natura introversa) nel tentativo di partecipare alle speranze e agli entusiasmi dell’Italia uscita dalla guerra, ma il 15 febbraio del 1950 nel diario “Il mestiere di vivere” scrisse: « “P. non è un buon compagno”…. discorsi d’intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che più ti stanno a cuore».

La polemica più conosciuta riguarda la pubblicazione di saggi nella collana viola della casa editrice Einaudi. Con il trascorrere degli anni Pavese approfondisce lo studio delle tradizioni folkloristiche e popolari avvalendosi di numerose fonti (la Scienza nuova di Vico, le opere dei filosofi romantici, testi di psicoanalisi, antropologia ed etnologia, fra cui quelli di Carl Gustav Jung e di Ernesto De Martino). Proprio in collaborazione con De Martino riesce a pubblicare i saggi di antropologia, nella Collana viola, una delle iniziative più “scandalose” della casa editrice perché i nomi proposti  appartenevano a una cultura bollata nel dopoguerra come “irrazionale” e considerata sinonimo di fascismo. Pavese riesce a far pubblicare autori imbarazzanti (a volte anche in contrasto con De Martino che non gradiva la pubblicazione di opere invise agli intellettuali comunisti) come Mircea Eliade, nazista riparato in America dopo il ‘45, ma studioso di primissimo piano. “Non c’è passato per la mente di esaminare la fedina penale dell’Autore – scrive Pavese a Giolitti nel ‘49 – in quanto non si tratta di opere di politica o di pubblicistica. Qualunque cosa faccia l’Eliade, come fuoruscito, non può ledere il valore scientifico della sua opera”.

Altro motivo di contrasto traspare il 17 gennaio del 1949, in risposta a una recensione lusinghiera del critico Emilio Cecchi alla pubblicazione di “Prima che il gallo canti”. Pavese con sincerità si sfoga sui “fermenti politici” con cui era stato accolto il libro:

”Un’ultima cosa. L’inevitabile piano politico su cui la discussione del mio libro sta precipitando, mi fa rivelare la sua discrezione. Vorrei che tutti avessero la sua mano, e non vedermi adoperato per dimostrare che ormai tra fascisti e patrioti c’è parità morale. Quest’è un po’ forte. Ma la perenne, quotidiana scoperta che si fa qui in Italia è «Quanto sono stato ingenuo!»”

Insomma il testo di Angelo d’Orsi non aggiunge nulla di nuovo, casomai il punto di vista piuttosto ignobile di spiare Pavese dal buco della serratura, utilizzando i 29 pizzini del bloc-notes, scritti chissà quando e chissà come, magari in un momento di stizza o di sconforto. Ma anche se prendiamo in esame le frasi che suscitano più scalpore:

«Una cosa fa rabbia. Gli antifascisti sanno tutto, superano tutto, ma quando discutono litigano soltanto». O in altra pagina: «Stupido come un antifascista». Non mi paiono così scabrose.

Il paragone poi tra il nazismo e la Rivoluzione francese è così scandaloso?

«Tutte queste storie sulle atrocità naziste che spaventano i borghesi che cosa sono di diverso dalle storie sulla rivoluzione francese, che pure ebbe la ragione sua?

Insomma tagliare le teste con la ghigliottina non è stato come partecipare a un pranzo di gala. Entrambi i casi si possono classificare come esempi di terrore di Stato

La seconda prefazione al “Taccuino” porta la firma di Lorenzo Mondo, che già su “La Stampa” del 1990 raccontò “di aver avuto verso il 1962” da Maria Sini, sorella di Pavese un bloc-notes, dell’autore de La luna e i falò: “Andai da Calvino (ndr allora dirigente dell’Einaudi) che stava dietro la sua scrivania. Mentre sfogliava il taccuino, la sua faccia mi pareva ancora più pallida e magra. Disse che non ne sapeva niente e stette a guardarmi in silenzio meditabondo. Pensai, a grande velocità, che per il momento era opportuno mantenere il riserbo sul testo. Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia, c’era da esporsi alle accuse e al rischio di speculazioni volgari. Non lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese. ‘Tienilo tu – gli dissi – mettilo in cassaforte. Quando varrà la pena di pubblicarlo, ricordati di me’”.

Racconta sempre Mondo su La Stampa del 1990:

“Dopo l’impresa dell’epistolario (ne uscirono due volumi con lettere dal 1924 al 1950) vidi solo fuggevolmente Calvino che poi si trasferì a Roma e quelle poche volte, nessuno di noi toccò l’argomento. Avevo del resto una mia idea: pensavo di scrivere una vita di Pavese nella quale avrebbe trovato il giusto posto, contestualizzato, il capitolo sconosciuto della biografia pavesiana”, ma “il lavoro giornalistico sempre più intenso”, proseguiva, “la sopravvenuta disaffezione per l’argomento, la pigrizia, mi fece accantonare il progetto e dimenticare le carte. Ne accennai appena, negli anni, a qualche amico. Chissà dov’era mai finito l’originale. Dimenticato o perduto nelle vicissitudini della casa editrice, nel viavai di laureandi che si sono chinati sui fogli pavesiani? A ogni importante occasione (anniversario o congresso pavesiano) temevo di veder spuntare l’oggetto misterioso, ero quasi rassegnato a vedermi spossessato del mio piccolo segreto. Anche perché non riuscii più a rintracciare per parecchio tempo le mie fotocopie. Poi, dopo la morte di Calvino, mettendo ordine dopo un trasloco, le vidi riaffiorare”.

E i taccuini vennero pubblicati su “La stampa”

A parte qualche dettaglio, i due resoconti di Mondo (nel 1990 su “La Stampa” e nel 2020 nella prefazione del “Taccuino segreto) sono simili.  Probabilmente sono anche una verità – nel 1990 venne sollevato più di un sospetto sulla loro autenticità: gli originali sono scomparsi e nessuno dei protagonisti può smentire Mondo, perchè sia la sorella di Pavese che Italo Calvino sono morti da alcuni anni, ma la calligrafia e anche lo stile appartengono a Pavese. Dando per certo che gli appunti siano autentici, sorge tuttavia spontanea la domanda: che cosa avrebbe dovuto farne Calvino?

Di fatto questi appunti non aggiungono nulla rispetto all’opera di Pavese e niente rispetto alla sua vita e al suo ensiero. Al contrario, caricare di suspense il ritrovamento e la obliterazione da parte di Calvino degli appunti, getta le basi per fare del taccuino un caso letterario e politico.

Anche il rispetto ostentato verso la famiglia di Pavese è ambiguo e peloso, perchè Mondo ha portato via il bloc-notes dalla casa di Maria Sini senza dirlo e poi più volte ha scritto: “Al di là delle probabili e legittime opposizioni della famiglia, c’era da esporsi alle accuse e al rischio di speculazioni volgari. Non lo meritava la famiglia, non lo meritava Pavese”. Se non che anni dopo pubblica gli appunti caricandoli di significato oltre misura.

Ad essere sincero, come Angelo d’Orsi mi ha ricordato la caricatura dei migranti di seconda generazione invidiosi della borghesia torinese, Lorenzo Mondo pare la caricatura del piemontese “falso e cortese”.

Lorenzo Mondo ha pubblicato numerosi libri, in cui si è occupato specialmente di Pavese, a partire dalla monografia «Cesare Pavese» (1961), fino ad arrivare a «Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese» (2006) e a numerosi romanzi e saggi di critica letteraria senza molto successo, a parte nel 1966 insieme a Italo Calvino, l’epistolario di Pavese  «Lettere 1924-1950» . Diventerà poi un giornalista di successo, responsabile della pagina culturale de “La Stampa” e vicedirettore dello stesso quotidiano. Ecco nella vita professionale di Mondo credo si possa individuare la chiave di lettura del Taccuino segreto, la speranza consapevole o meno che in quell’inedito di Pavese avrebbe trovato un posto al sole nella letteratura italiana. Occorre peraltro ricordare che si deve a Lorenzo Mondo la scoperta nelle carte di Beppe Fenoglio di due inediti : “Appunti partigiani ’44-’45” e il testo del romanzo “Una questione privata”.

La terza prefazione dal titolo “ritratto in chiaroscuro” è decisamente la parte più interessante del libro, frutto di un lavoro meticoloso, di dotte citazioni, di spunti felici, tuttavia il risultato finale risulta fuorviante. Francesca Belviso ricorda che Pavese era uno lettore onnivoro, dalla letteratura alla filosofia, dalla antropologia all’etnologia, dalla filologia arcaica alle religioni comparate , i suoi interessi di lettore e traduttore furono quanto mai estesi e variegati . Come Pavese( all’età di 18 anni) scrive in una lettera a Augusto Monti:….” ..se lo debbo dire ,io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri . Non le grammatiche o i vocabolari ma tutte le opere in cui vive qualche sentimento..”. Per la Belviso è come se tutte queste letture (in un breve lasso di tempo ,vista la prematura morte dello scrittore),avessero condizionato il modo di scrivere e di pensare di Cesare Pavese.  Francesca Belviso fa riferimento ai libri posseduti da Pavese e, rifacendosi all’epistolario con Monti e alle accuse di decadentismo mosse da quest’ultimo nei confronti di Pavese, conclude facendo riferimento all’influenza di Nietzsche sul pensiero pavesiano frutto di un confronto tra i “29 foglietti del blocnotes (appunti ritrovati postumi in un vecchio scatolone) “e ” Il mestiere di vivere”(opera perfettamente compiuta di C.Pavese). Personalmente ho letto più volte (e in varie età) il ” mestiere di vivere” di Pavese ed è stato per me come un farmaco salva vita , in quanto nei sui drammi ho trovato. consolazione. Non ho mai osato scrivere su questo testo, perchè quel che ricordo sono gli amori infelici, le crisi esistenziali, l’introspezione di sè. Una buona parte del libro si riferisce a riflessioni sugli scritti che leggeva ( che spaziano da Omero a scrittori americani come Melville al russo Dostojevskij a… Vittor Hugo, solo per citarne qualcuno) che in buona parte gli arrivavano per posta, in quanto nel periodo del fascismo non si poteva accedere a scritti stranieri, tant’ è vero che Pavese si vantava con le ragazze di aver portato la letteratura americana Italia, avendo tradotto Moby Dick di Melville e altri testi.

Per chiarire le difficoltà di reperire testi in lingua straniera al tempo dell’autarchia al tempo del fascismo, ripropongo uno stralcio della prima delle numerose lettere scritte da Pavese a Antonio Chiuminatto un musicista americano di origine piemontese, nel tentativo riuscito di farsi spedire libri e riviste letterarie pubblicate negli Stati Uniti:

Penso che Lei ricordi con quanta passione l’anno scorso io ammirassi e studiassi le cose d’America, e questa passione è andata crescendo. Lei sa pure che qui in Italia è quasi impossibile trovare qualsiasi cosa d’americano si cerchi […] Sono a malapena riuscito a trovare qualcosa di cui avevo bisogno per la mia tesi di laurea su Walt Whitman. (Lei non sa, sarò il primo italiano a parlare di lui distesamente e criticamente. Mi perdoni, quasi sarò io a rivelarlo all’Italia!).

Lettera ad Antonio Chiuminatto, Green Bay, Wiscounsin, (Torino) 29 novembre 1929


Questa lettera sempre a Chiuminatto, del luglio del 1931, quando ormai ricevere libri per corrispondenza era diventata una consuetudine:

Caro Tony,

la tua lettera è stata un oasi nel deserto, in queste giornate di calma. Fa bene, nel malinconico abbattimento italiano, ricevere qualcosa come una stretta di mano da laggiù. e oltretutto sono stato contento d’aver l’occasione di contraccambiarti finalmente un favore. non posso domandare immediatamente a Mila cosa significa quella fattura, perché lui ora sta scalando le Alpi, ma appena posso metterò tutto a posto. comunque credo che le cose stiano così: Mila t’aveva regalato un abbonamento annuale alla <Rassegna Musicale>; finito l’anno se n’è dimenticato e ora l’amministrazione ti manda il modulo che ricevono tutti gli anni gli abbonati. non devi preoccupartene: protesterò e pagherò quello che c’è da pagare, e tu continuerai a leggere la roba del nostro dongiovanni. il quale, a proposito, ha proprio un contegno poco decente. credo che la sua stagione alpinistica nasconda una fuga con… . Così stai scalciando per Melville, eh? Non sei il solo, non sei il solo. Anche gli Editori italiani stanno scalciando (1), ma io me ne sono presa una cotta e mi costasse la testa lo voglio portare avanti. Trovo Moby Dick un’opera straordinaria, e così via, ma rallegrati, non voglio affliggerti con una conferenza estemporanea sulla personalità dell’autore. Mi riservo per un’altra occasione: tra poco butterò giù uno dei miei famosi saggi, e sentirai.

A proposito di saggi, devo dire in difesa dell’ Anderson che il direttore della rivista mi aveva assegnato quel numero di pagine e basta (per via dell’interminabile Lewis) e così ho dovuto contrarre il mio stile il più possibile!

Molte grazie anche per il tuo sempre vivo interesse alla tradizione del saggio su Lewis, per il quale dubito solo di deludere tutte le speranze dell’ America. il simpatico elenco di frasi in slang m’ha toccato il cuore e già me lo sto studiando. a memoria. Fatti sempre vivo, amico, con regali così, più dolci d’ una scatola di cioccolatini! A proposito, aspetto impaziente che finisca il caldo, perché ho intenzione di mandarti ancora dei cioccolatini con dentro il liquore. Ma stavolta presenzierò di persona alla confezione del pacco per evitare sostituzioni. (Procrastino solo per avere un clima più propizio; sai che il liquore dentro ai cioccolatini si asciuga facilmente).

Tra pochi giorni ti restituirò gli undici libri del prestito estivo da restituire alla biblioteca e se tu sarai in grado di rinnovare il dono, sarò commosso ecc.

Così tutto ti va che è un sogno? Stai insegnando alla Scuola Estiva? Dacci dentro anche da parte mia, che ora sono un completo fannullone, come un vero filosofo, e passo ore allo specchio ad ammirare la perfezione dei miei sguardi ( e aspettando che il servizio militare la rovini). Ciao.

P.S.  Naturalmente ho ricevuto Melville e Anderson e ti ringrazio. Quando ai nuovi libri, tieni sempre conto dell’elenco che hai, insisti negli autori ivi nominati ( specialmente Cabell, Williams, Hughes, Sandburg), trovane di nuovi, insomma, metti in opera il tuo giudizio.

Il bibliofilo

American actress Constance Dowling (1920 – 1969) in Los Angeles at the start of her movie career, USA, 1944. (Photo by Pix/Michael Ochs Archives/Getty Images)

Valesse la pena si dovrebbe partire dalla ricostruzione delle letture di Pavese, ma sarebbe un lavoro improbo (avendo Pavese passato la sua vita a leggere). Di fatto Pavese fu un rappresentante esemplare , affascinante e disturbante dei dilemmi di una generazione cresciuta nel fascismo, con il desiderio di uscire dall’opacità e dal provincialismo di quel periodo buio che è stato il fascismo. Pavese ha vissuto anche i primi anni della Repubblica, il risveglio del Paese , i migliori anni della nostra storia nazionale, ma sono stati anche gli anni della guerra fredda, sempre stretto nella morsa di dover scegliere tra un capitalismo che ha riciclato gran parte della classe dirigente del regime e lo stalinismo. La Belviso si limita, sulla base dei “29 foglietti di bloc-notes”, ad affermare l’influenza di Nietzsche, ma è una opinione senza senso: mi sono limitato ad andare a cercare le citazioni sul diario di Pavese “Il mestiere di vivere” e ho ottenuto questo risultato:

Nietzsche è stato citato 3 volte
Dante 19
Dostojevskij 17
Joyce 4
Leopardi 19
Omero 13
Rousseau 6
Shakespeare 23
Stendhal 12
Tolstoj 6
Vico 10
D’annunzio 9

Può essere un consuntivo discutibile ma è di certo esemplare rispetto a una ricostruzione delle influenze ricavate sulla base di 29 foglietti di block-notes che mi ricorda l’ambizione di comprendere una persona osservandola dal buco di una serratura. Francesca Belviso riprende altresì l’accusa di dannunzianesimo rivolta da Augusto Monti a Pavese al tempo della pubblicazione de “La bella esgtae”, ma è molto più proficuo leggere qui (2) il ricordo di Augusto Monti su Pavese, dove racconta le frustrazioni della generazione di cui fece parte lo scrittore. In conclusione, la Belviso mette in risalto la figura politica di Pavese, che avrebbe aderito al PCI per convenienza, per conformismo con gli altri protagonisti della casa editrice Einaudi, fedeli all’ortodossia comunista, ma anche qui la realtà é diversa: l’adesione al PCI di Pavese era frutto della sua volontà e convinzione e poi dovette scontrarsi su alcune questioni cruciali con gli intransigenti sacerdoti dell’ortodossia che ritenevano che gli scienziati, i letterati, gli artisti avrebbero dovuto applicare nel loro lavoro i principi del marxismo-leninismo . Pavese rimase fermo sulle sue posizioni culturali, la letteratura dell’epoca si divideva tra neorealismo e decadentismo, Pavese venne accusato di essere «il punto di approdo del decadentismo italiano» come in questo giudizio  postumo (« L’Espresso », 12 luglio 1970, p. 14.) di Alberto Moravia:

[…] questo esasperato irrazionalismo e antistoricismo sono quanto di più diverso e di più ostile che ci possa essere al comunismo e all’arte come il comunismo l’intende. La conversione di Pavese al comunismo acquista così il carattere di una trasmutazione o di un tentativo di trasmutazione di una somma di valori negativi (decadentistici) in uno solo ritenuto positivo. È un’operazione non nuova nella cultura italiana: dal decadentismo trasmutato in patriottismo (D’Annunzio) si giunge al decadentismo trasmutato in comunismo (Pavese), ma i modi dell’operazione non cambiano.

Di fatto Pavese  non rientrava in questo schema. Punto.

Si può anche affermare con delle ragioni che Cesare Pavese sia uno scrittore mediocre ma di certo è stato un autore con una scrittura e un pensiero originale e a se stesso fedele.

 

1) Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa – non importa esattamente – avendo pochi o punti denari in tasca e nulla di particolare che m’interessasse a terra, pensai di darmi alla navigazione e vedere la parte acquea del mondo. E’ un modo che ho io di cacciare la malinconia e di regolare la circolazione.

Incipit del I capitolo di Moby Dick tradotto da Cesare Pavese

2) LA LEZIONE IN MORTE DI CESARE PAVESE 1951

di Augusto Monti

Questa di stasera non è una commemorazione; genere che non piace a Geno Pampaioni, e non è una conferenza, genere che non piace a me; è una lezione. Una lezione come quelle che facevo al liceo, e fra gli scolari sedeva Cesare Pavese: lezione di letteratura italiana, cioè di storia d’Italia con l’accento sul fatto letterario. Solo che allora il programma si fermava come storia alla grande guerra (15-’18), come letteratura a Verga e a D’An­nunzio; adesso — stasera— il programma giunge fino ad oggi 1950 e l’autore di cui si tratta è Cesate Pavese, e le pagine della lectio= lettura, son tratte dalle ultime due opere di questo autore, La bella estateLa luna e i falò……..

Che vita è questa di Cesare Pavese? La vita della generazione più sconsolata e infelice che la storia d’Italia conosca. Vita di gente che non ebbe motivi di sorriso se non nel vago ricordo  dell’infanzia  e  nella  tradizione dei padri; del resto: guerra, fazione, paura, fuga, strage E, peggio, la incapacità, la impossibilità di trovar una stabilità, una condusione, una maturità.

Innocenti ragazzi desiderosi di ridere, di giocare, di amare, di credere; li avevan forzati ad essere uomini dalla faccia feroce, cinici e minacciosi; trentenni, quarantenni non avevan toccato mete, attendevano ancora, erano ancora, più che uomini, adolescenti. Coatti della politica, se fascisti avevano assistito allo sgretolamento prima, alla rovina poi del fascismo e dell’Italia; se antifascisti avevan passato gli anni migliori nella compressione e nella persecuzione o – peggio – nell’indulto; toccata appena  la  meta  della  Liberazione vedevan tosto traditi gl’ideali per cui si eran esposti, battuti.

Borghesi, il loro mondo era in putrefazione. Salvezza, sicurezza, avrebbero potuto raggiungere solo con una fede religiosa o comunismo o cattolicesimo; perciò occorreva loro esser dei fanatici, credere perché era assurdo; non potevano; i padri, i maestri ne avevan fatti dei laici, dei liberali, i tempi non permettevan loro codesti lussi. Che via rimaneva loro? la  protesta contro i tempi. Quale? la rinunzia alla vita; rinunzia  radicale ne’  più feroci, il suicidio; rinunzia alla lotta, per i più, rassegnazione, « concordato con la vita » – per dirla con Mila – o una stracca conversione; cioè sempre un suicidio.

Questa  insomma la tragedia  di quella generazione:  aver conosciuto una età felice, quella dei padri; aver riconosciuto che quell’età era un passato irrevocabile, un paradiso perdùto; essersi promessa una  terra come quella dei padri ma più doviziosa e beata; essersi battuti per raggiungerla; aver riconosciuto che la terra promessa era un miraggio vano, un irraggiungibile pianeta,  non  aver potuto  regger al pensiero di  seguitar ad abitare su questa « aiuola che ne fa tanto feroci »…

…Dei due temi che si alternano nell’opera del Pavese, città e paese, quello che prevale quasi esclusivo ne La bella estate è la città: Torino. Le sue strade, i suoi dintorni, caffè, studi di pittori, salotti, mondanità, deboscia; stracittà, novecento quel che piace agli ammiratori del Pavese,ultramoderno, esistenzialista, crudo affrontatore di situazioni scabrose. La bella estate è piaciuta anche ai critici alla moda — à la page — che han premiato il libro a Roma nel salotto Bellonci e l’han lodato sulle riviste a rotocalco.

È pubblicato nel novembre del ’49. Contiene tre lunghi racconti: uno del ’40, uno del ’48, uno del ’49. Siccome Pavese è sempre uno scrittore «Impegnato» — cioè politico-sociale a dirla in soldoni — perché è uno scrittore, così anche questo libro come tutti quelli del Pavese rientra nella letteratura della Resistenza. Vi si rappresentano gli assenti: giovanissimi e anziani. Questo non lo dico io, lo dice Pavese per bocca d’un de’ suoi personaggi: « Nemmeno a Roma la gente era in festa così di continuo. E Mariella voleva recitare a tutti i costi. Sembrava che la guerra non ci fosse stata E il giudizio che Pavese dà di questi assenti è inequivocabile: « non la nausea di questo o di quello… ma lo schifo di… tutto e di tutti… Ma non è su questo che io, impegnato fin troppo, voglio attirar la vostra attenzione. Voglio documentarvi un Pavese preso fra il « paradiso perduto » e la « terra promessa »; voglio veder con voi in che cosa consista la famosa « modernità» di Pavese. La bella estate dunque, tre lunghi racconti.

Sentitene i motivi. Primo: La bella estate. Tema: la verginità perduta — e pianta. Una sartina, una minorenne — Virginia, appunto — una polledrina selvatica, di quelle che s’impennano e recalcitrano appena tu le posi una mano sulla groppa, s’avventura nelle sirti d’uno studio di pittore, vi s’innamora di Guido, pittore vestito ancora da soldato, perde il fiore…insomma non è più Virginia né Ginia, ma Ginetta, piange davanti alla distratta indulgenza del suo Guido, che ha tante altre cose a cui pensare, e passa nelle ultime pagine a braccio di Amelia, una sifilitica ragazza se non da marciapiede da caffè.
Secondo: Il diavolo sulle colline. Tema: la fedeltà coniugale, sempre più novecento, come vedete. Poli, figlio viziato di industriali oriundi piemontesi stabiliti a Milano, intelligente non incolto cocainomane e amico delle donne, va nell’antica sua villa in Monferrato a rimettersi d’una pistolettata che una donna sposata gli ha tirata nelle costole; lo cura e l’assiste nella solitudine della vecchia tenuta abbandonata la moglie Gabriella, donnina del suo rango, moderna brillante e in apparenza spregiudicata. Tre giovani amici di Poli lo raggiungono nel suo eremo, tre studenti, di cui uno s’invaghisce dell’affascinante madamina; par che Poli, il rottame, stia per esser fatto becco — che sarebbe se mai, focaccia per pane— niente: Poli ha uno sbocco di sangue, la signora spaventatissima e innamoratissima del marito e stabilmente fedele al suo Poli se lo porta in macchina a Milano a casa loro.

Verginità perduta e pianta; fedeltà serbata gratis; per uno scrittore ultimo grido; mi pare,.. S’incomincia a capire la modernità di Pavese: i personaggi de Il diavolo sulle colline sono stati in un tabarin ultramoderno dalle parti di Sassi, vi han fatto le ore piccole fra luci varianti e musica sincopata e canti; uno conclude: «Queste notti moderne.,, sono vecchie come il mondo ».

La terza novella, la più « moderna » di tutte, Tre donne sole, ha per tema un motivo più ottocentesco ancora, forse: una persona — una donna — Clelia, che dal nulla — dalla gavetta, o addirittura dalla lattina di conserva — s’è fatta una posizione, è « arrivata » e vive con le sue sole forze « le spese dì spiaggia me le pago da me » e non deve nulla a nessuno; e la carriera l’ha fatta non perché

donna — e bella donna anche — ma perchè uomo « aveva il vizio di lavorare — dice di sé questa Clelia -— di non prender mai una feria completa: …è peggio degl’industriali padri di famiglia… che erano uomini coi baffi e hanno fatto Torino»; ottocento: età dei padri, e come vita e come letteratura.

Se questi sono i motivi centrali, i primi piani, la modernità di Pavese sarà negli sfondi: studi di pittori con discussioni sull’astrattismo, sbornie coucheries, caffè del centro, con donnine e cocaina, sifilide e amori lesbici, tabarin, macchine americane lunghe di qui fin là, alberghi e locali di lusso in montagna e in riviera, casini e cusinos, dialoghi a repliche ardite e sottintesi, il correr l’andare-venire il moto perpetuo di questo dopoguerra, la deboscia il lusso, E, soprattutto lo stile con cui questa deteriore materia è trattata: scarno, impassibile, secco, lucido come un grattacielo o un bar, come vetrine al neon. Secondo me tutto ciò esiste in Pavese — c’è, specie ne La bella estate —- ma il suo stile non è qui: questo è moda appena e domani sarà démodé, scaduto. Anzi tutto quel che abbiamo enumerato appena cessa di far da sfondo al quadro, appare come eccessivo, come superfluo, pesa, guasta, fa « cattivo gusto», Volevo dire che esteticamente il positivo di quei tre racconti è nei temi a cui ho accennato — personaggi e dramma — il resto, quasi tutto, è aggiunta, svolazzo, esercizio, virtuosità’ i tre temi verginità, fedeltà, Stabilità economica sono gl’infìssi piantati saldo nei muro, il resto sono ciarpe, cianfrusaglie appese a quegli infissi in tal copia da nasconderli e da minacciare di scardinarli c tirarli giù, pezzi sempre di bravura, squisitezze stilistiche da far aprir la bocca di maraviglia, da far dir talora: « grande scrittore se avesse qualcosa da dire ».

Senonché Pavese ha pure nella Bella estate qualcosa di suo da dire, di tragicamente suo. La bella estate che cos’è? «A quei tempi era sempre festa. Bastava uscir dì casa e traversare la strada per diventar come matte e tutto era così bello,.. », « una cosa da ragazzi, senza conseguenza, un effetto del sole e del cantare»; i tempi per Ginìa dell’’innocenza e della « verginità ».

Che son passati, che ci sì ripensa con struggimento, nel cui ritorno sì spera d’inverno. « In certi momenti per le strade, Ginia sì fermava perché di colpo sentiva persino il profumo delle sere d’estate, e i colori e Ì rumori, e l’ombra dei platani. Ci pensava in mezzo al fango e alla neve, e si fermava sugli angoli col desiderio in gola ». « Verrà sicuro, le stagioni ci sono sempre ». «Che non tornerà più, Guido l’ha prosa, Guido l’ha lasciata. Non per cattiveria o crudeltà, ma perché ora si fa così; non ci si ferma; i tempi non permetton più di attaccarsi-, non usa più ». « Ma le pareva inverosimile proprio adesso ch’era sola: sono una vecchia, ecco cos’è. Tutto il bello è finito ». Ed è finita anche Ginìa, vittima dell’illusione che si possa oggi esser felici come ieri, che possa sulla neve fangosa brillare il sole del mese delle vacanze.

In tutto il libro ricorre il tragico motivo della bella estate come felicità perduta, come « tempi beati che non tornan più ».

Anche Clelia, la ferma ragazza torinese, così sicura padrona dì sè, ha una sua bella estate nel sècrètaire…dei dolci ricordi, ed è l’unico sorriso della sua dura vita; ma quella stagione non tornerà più; e le copie che ne tenterà appariran fredde e sfuo­cate; e la fortuna che ha fatto le serve sì ad assicurarle l’indipendenza, ma questo non dipender  da  altri,  questo  bastar  a  sé, è in  fondo  solitudine – ed esser soli in fondo è l’esser morti da vivi.

E nel Diavolo sulle colline la desolata bellezza del greppo col suo parco abbandonato, i terreni incolti alle falde,  un  cantuccio  di  moderno  confort nella abbandonata suntuosità della villa, è dice dentro  di sé a  Gabriella  e a  Poli uno dei giovani ospiti; « Una cosa la presenza di Gabriella mi aiutò a capire… Quell’abbandono, quella solitudine del greppo era un  simbolo  della vita sbagliata di lei e di Poli. Non  facevano  nulla  per  la loro collina; la col­ lina non faceva nulla per loro. Lo spreco selvaggio di tanta  terra e tanta vita  non poteva dar frutto che non fosse inquietudine e  futilità.  Ripensano  alle vigne di Mombello, al  volto  brusco  del  padre  di  Oreste ».  Ripensate  ai tempi dei padri: al nonno di Poli che faceva render la terra. Alla Bella  estate che non torna più. Che è la luna bella e irraggiungibile;  mentre  qui  in  terra non ci sono che i falò, anzi resti dei falò, cenere, ossa calcinate, spreco, abbandono, morte.

 



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