Fonte: mymovies
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Un progetto basato su tre delle 50 fiabe raccolte nella collana “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille” di Giambattista Basile
di Paola Casella, da mymovies
1600. Una regina non riesce più a sorridere, consumata dal desiderio di quel figlio che non arriva. Due anziane sorelle fanno leva su un equivoco per attirare le attenzioni di un re erotomane sempre affamato di carne fresca. Un sovrano organizza un torneo per dare in sposa la figlia contando sul fatto che nessuno dei pretendenti supererà la prova da lui ideata, così la figlia non lascerà il suo fianco e i confini angusti del loro castello.
Matteo Garrone attinge a piene mani, e con grande libertà creativa, a tre racconti de “Lo cunto de li cunti”, la raccolta di fiabe più antica d’Europa, scritta fra il 1500 e il 1600 in lingua napoletana da Giambattista Basile. Il risultato è un caleidoscopio di immagini potenti ed evocative, ma anche un carnevale di umani sentimenti, pulsioni e crudeltà, nonché una riflessione profondissima sulla natura dell’amore, che può (dovrebbe) essere dono e che invece, per quelle fiere che sono (ancora) gli esseri umani, è spesso soprattutto cupidigia.
Ognuna delle vicende singolarmente narrate contiene qualcosa di ognuna delle altre: un doppio, un riflesso, una citazione, uno scambio di sguardi. La brama con cui la regina vuole per sé (e solo per sé) un figlio annulla il sacrificio del marito e soffoca il desiderio di essere amato (per sé) del nuovo nato, che una volta cresciuto incontra il suo “gemello” più povero ma infinitamente più libero. La lascivia insaziabile del re erotomane, archetipo predongiovannesco, è una sfida inesauribile alla morte e alla decadenza del corpo, così ben incarnata (perché di carne, pelle e sangue sempre si parla ne Il racconto dei racconti) dalle due anziane sorelle impegnate in una corsa a ritroso nel tempo che finirà per dividerle, “separando ciò che è inseparabile”: come l’unione fra i due “gemelli” dell’episodio precedente, come il legame fra un padre immeritevole e una figlia degna di ereditare un regno nell’episodio successivo.
La struttura circolare della narrazione è, a tutti gli effetti, olistica (anche perché guidata da figure femminili), il che è particolarmente sorprendente perché i tre episodi sono stati girati separatamente, e non c’è stato tempo, né denaro, per effettuare il consueto lavoro di rifinitura cui Garrone è abituato. Ma la tessitura dell’arazzo era già insita nella scrittura (degli sceneggiatori Edoardo Albinati, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, oltre allo stesso Garrone, ma ancora prima di Basile) e nell’immaginario cinematografico e pittorico del regista, che ripropone temi a lui cari – la trasformazione del corpo, la passione accecante, l’inganno – attraverso la codifica narrativa archetipale della fiaba e la crittografia visiva del genere fantasy, usato ad altezza autoriale senza dimenticare il pop delle sue origini e dei suoi intenti.
Garrone attinge a Fellini (La strada, Casanova) come al grottesco cortigiano dei dipinti di Goya, a M. Night Syamalan The Village, Lady in the Water) come al Mario Bava de La maschera del demonio, allo strazio romantico del Pinocchio di Comencini come alla comicità “medievale” de L’armata Brancaleone. E tiene in equilibrio il (suo) mondo (perché “l’equilibrio del modo deve essere mantenuto”) come un funambolo sul filo, non a caso l’immagine che chiude Il racconto dei racconti: quello è Garrone, sospeso sull’abisso – del ridicolo, del cattivo gusto, del melodramma, della farsa involontaria – intento ad evitare il fuoco che lo minaccia da vicino. Perché la materia di cui è fatto Il racconto dei racconti, in Basile prima ancora che in Garrone, è supremamente incandescente e richiede atti “di coraggio e sacrificio” per essere narrata come una fiaba accessibile, che non si può possedere solo per sé.
Nell’immaginario visivo de Il racconto de i racconti c’è anche il Garrone precedente: il respiro ansimante delle creature selvagge, siano esse uomini o la loro trasformazione animale; i labirinti della mente; il tentativo di addomesticare l’altrui libertà; la solitudine come destino inevitabile; l’arroganza dei tanti “re” che “non ascoltano nessuno”.
Anche l’uso delle musiche è Garrone, pur nella sua radicale differenza con, ad esempio, Gomorra, in cui sonoro era ambientale: perché anche se ne Il racconto dei racconti l’accompagnamento musicale (di Alexandre Desplat) è quasi incessante, nei momenti più importanti (e più crudeli) si arrende al silenzio assoluto, all’isolamento (anche acustico) totale dell’abbandono.
Nell’universo de Il racconto dei racconti eros e thanatos sono ossessioni supremamente vitali, le bestie si riconoscono all’odore e gli uomini (e le donne) diventano mostri tutti allo stesso modo. Garrone scortica gli esseri umani per rivelarne l’intima fragilità e leva loro la pelle perché è l’unico modo di chiamare in superficie quella pietas che ci permette di accettare la vita, anche nella sua suprema crudeltà.