di Alfredo Morganti – 15 maggio 2018
C’era una volta il ‘leaderismo’, modalità con la quale si assegna a un Capo il compito di incarnare tutto, compresi i contenuti. Quante volte ci siamo scagliati contro questa idea della politica destinata a ingenerarne la morte per consunzione? Tante. Oggi, al contrario, vedo i primi curiosi prodromi di ‘programmismo’, sindrome opposta ma non meno perniciosa: prima si decide cosa fare, prima si elencano le modalità con cui realizzare le ‘promesse’ somministrate all’elettorato, poi, con comodo, se ne indicano i ‘neutrali’ esecutori. Chiunque: un esperto economista ma-anche la casalinga di Voghera, il bracciante lucano oppure la cuoca di Lenin. Chiunque, purché esegua a comando l’algoritmo di contenuti predisposto in termini di marketing. Sono entrambi ‘vizi’ della antipolitica, tuttavia, facce opposte della stessa medaglia. Si può morire politicamente, sia scegliendone uno, sia adottando l’altro metodo. Il risultato non cambia, spiego perché.
Il leaderismo è una delle forme di disintermediazione mediatica più abusata. Tutta la politica viene riassunta, a destra come a sinistra, in singoli vertici intercambiabili della piramide politica. I famosi uomini ‘nuovi’. La scena è occupata da figurine che si battono in tv per idee che alla fine si somigliano tutte, e per soluzioni identiche, né di destra né di destra ma dettate dal ‘buonsenso’. Renzi non è stato un uomo politico ma un paradigma purissimo di questa tendenza. I corpi intermedi, i partiti, le organizzazioni, le forme di partecipazione organizzata si devono assottigliano (alleggerire nelle strutture e nelle idee) al punto da scomparire, quasi fossero zavorre da buttar via per velocizzare (tutto e subito, anzi adesso!) i processi istituzionali e la soluzione dei problemi. Dietro il leaderismo, non secondariamente, c’è anche la strana abitudine di chiamare i Capi per nome: Matteo, Silvio, Luigi, Beppe, ‘the’ Donald, Angela. Segno che si tende a concentrare in un ‘corpo’, in un ‘nome’, in un poche figure mediaticamente antagoniste una complessità politica in realtà parecchio più articolata. Qui conta molto il condizionamento della logica mediale, la necessità per Tg e giornali di avere ‘figure’ sintetiche grazie alle quali ‘narrare’ politica in testi brevi e pochi soundbyte. Uno storytelling, d’altra parte, non si regge senza protagonisti, antagonisti, eroi, antieroi, oggetti del desiderio, forze magiche, stregoni e fatine. Così per i media.
Che fare? Non c’è dubbio: bisogna gettare via il foglio che vede inciso da un lato il leaderismo e dall’altro il ‘programmismo’. Non vale la pena morire né per l’uno né per l’altro. Lo spettacolo di questi giorni è d’altronde sotto gli occhi di tutti. Perché c’è un solo strumento che supera entrambi, e propone la politica come incontro di uomini e idee in una comunità, ed è il partito, il caro vecchio partito. Quello che agiva in una Repubblica dove le istituzioni erano le istituzioni, e si difendevano in piazza da fascisti, brigatisti, servizi segreti, ecc. invece di minarne la fiducia ogni giorno che Dio manda in terra, secondo gli schemi da Seconda Repubblica, maggioritario, populismo e antipolitica (tiè, li metto tutti assieme). Partiti dove uomini e idee crescevano assieme, e non si consentiva al primo parvenu di passaggio di rottamare, insultare, sfasciare per mera ambizione personale. Partiti che agivano in contesti istituzionali ma organizzavano la partecipazione sociale, il confronto delle idee, il dibattito pubblico, stimolavano la crescita culturale, dialogavano coi soggetti sociali senza prendere ordini, ma agendo positivamente, convincendo se serviva, anticipando le tendenze, indirizzando l’opinione pubblica, e comunque stimolando e ascoltando la società civile senza farla diventare un feticcio o un focus group, come è oggi. Partiti. Ecco da dove ripartire. Ed ecco una delle ragioni storiche della necessità di ‘Liberi e Uguali’, nei tempi, nei modi e con la pazienza dovuta. Meditate gente, meditate.