di Antonio Napoletano su facebook 25 giugno
Leggo dal sito dell’Espresso:
<<Contrattacco dei falchi del rigore monetario a ogni costo, all’indomani dell’apertura di Angela Merkel a Matteo Renzi con il suo sì condizionato a una maggiore flessibilità nell’interpretazione dei criteri del Patto di stabilità e del fiscal compact. In un intervento pubblicato stamane dall’autorevole quotidiano liberal di Monaco Sueddeutsche Zeitung, il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, ammonisce duramente contro ogni ammorbidimento dei criteri, e scrive che occorre non un indebolimento bensì semmai un rafforzamento delle regole di disciplina fiscale, perché “nessuna crescita economica sostenibile può essere costruita su una montagna di debiti”. Nelle stesse ore, intervistato da un programma del mattino, il ministro delle Finanze federale, Wolfgang Schaeuble, affermava che “contrarre nuovi debiti sovrani sarebbe il peggiore errore”.>>
Ora che la Cancelliera si possa contraddire impunemente e a stretto giro è una di quelle barzellette che non fanno ridere. Ma la linea del Gruppo De Benedetti è segnata e, fin quando Renzi non troverà argini in casa, dovremo sorbirci questa ridicola storiella della Merkel incapace di mettere a cuccia i suoi mastini.
In realtà i tedeschi e il governo che li guida – la Grosse Koalitiom – di questa ‘flessibilità’ nei confronti nostri, così come degli altri Paesi europei ingabbiati dal fiscal compact, non vogliono sentir parlare, neppure in quella similvirtuosa versione per la quale si è speso – oltre ogni decenza – il nostro arrembante segretario/presidente. E’ questo il vero nodo scorsoio che sta strozzando l’Europa: un’economia forte e dagli equilibri interni assai complessi e delicati – e finora vincenti, nonostante otto anni della crisi più violenta mai attraversata – che nessuno, né la CDU-CSU, né la SPD, vuole realmente mettere in discussione. E’ un’idea di Germania in Europa,quella nella quale si è come incistata quella particolare forma di liberismo neo mercantilista innalzata come un gran pavese, che fa da ostacolo al futuro dell’Europa e che nessuno, almeno finora, ha neppure provato a tematizzare nell’unica sede possibile: il Parlamento europeo. E’ questo che complica le cose, perché qui non si tratta solo (si fa per dire) di abbattere un paradigma che si è impossessato dell’accademia, delle classi dirigenti, della politica, dell’insieme sistemico dei media. No, qui c’è un’intera grande nazione al centro dell’Europa che identifica se stessa, le proprie virtù, le sue grandi qualità con quella forma particolare di ideologia e i suoi risultati, non solo per l’evidente e diffuso e alto benessere che le sono stati intestati, ma (penso in particolar modo) per quell’aura di ineluttabilità virtuosa nella quale essa circonfonde e confonde l’aggressività e il cinismo della conquista e del primato sotto le spoglie della pacifica concorrenza, di una superiorità meritata e, per definizione, non inibita agli altri
Anzi, si può affermare che il solo fatto che qualcosa di simile o di fac-simile a un qualche ripensamento di questa visione condivisa sfiorasse la mente (troppo levantina?) di Schulz è bastato per armare la mano della Merkel con la compiacente ed eccentrica complicità dell’amico “italiano”, come in una congiura rinascimentale, fatta di tranelli, autoinganni, tradimenti, di alleanze e schieramenti incerti e infidi fino alla fine dei giochi.
Così, dapprima è nata l’idea del candidato-presidente della Commissione col più alto numero di consensi, poi le canditature-civetta di una papessa straniera, mentre tra censure e precisazioni tedesche, perché fosse chiaro che il candidato era quello segretamente prescelto ci si è aggiunta anche la dichiarazione sull’accordo preventivo sui programmi, come precondizione necessaria alla concertazione dei governi. Logica del preambolo tutta italiota, e che è servita a smontare dall’interno ogni e possibile reazione del PSE prima e a ridurre la SPD, poi, a stare dentro, comunque, ai margini fissati a quanto sottoscritto per la Grosse Koalition. E questo, dando a intendere, come se la campagna elettorale non avesse chiarito a sufficienza le idee e i programmi di ciascun candidato, che la politica si riprendeva, comunque, il potere di decisione, al di là del voto espresso e dei possibili accordi di coalizione tra i gruppi parlamentari. Ragion per cui ci hanno voluto far credere che, pur avendo avuto la prima vera campagna elettorale, questa si sarebbe svolta in una generale reticenza dei candidati su come essi intendessero muoversi in caso d’affermazione sugli avversari.
Un pasticcio significativo di quanto e come agisca questo maggiorasco germanico nella e sull’Unione e le sue pratiche, soprattutto se, per un motivo o l’altro,esso sia costretto a destreggiarsi col rispetto formale di quei pochi spazi democratici che la retorica europeista impone tra le pieghe di un assetto tutto e unicamente retto dal confronto/scontro tra Stati e classi dirigenti degli stessi.
E’ questo l’enorme prezzo che abbiamo pagato e stiamo pagando alla caduta del muro, alla riunificazione della Germania, alla ignavia e grettezza delle classi dirigenti europee che, sbagliando completamente previsione sui tempi occorrenti all’integrazione/
Da allora si è data la chiave del futuro d’Europa alla Germania e, di fatto, alle sue classi dirigenti, con tutto quello di positivo, ma anche di negativo, che queste si trasmettono di generazione in generazione.
Ai tedescofili di casa nostra questo discorso non piace e, infatti, non fanno altro che magnificare le virtù pubbliche e private di quel grande Paese e in nome di queste ci inchiodano alla nostra aleatorietà come Stato nazionale, inventandosi, giustificandolo storicamente, la necessità del famigerato ‘vincolo esterno’. Una sorta di autorità tutoriale, in nome della quale, consentirono, non solo a un riconoscimento de facto della rinascente potenza tedesca, ma permisero ne dettasse i contenuti nella traduzione di questa in quei termini neotecnocratici, attraverso cui, la Germania con i suoi novanta milioni di cittadini asserragliati in una fortezza autosufficiente o che si ritiene tale, gode da allora una specie di diritto di ‘prima scelta’ su tutte le opzioni riguardanti il futuro di quella che è e rimane, a dispetto della sua autodefinizione corrente, la Confederazione europea. Vale a dire l’ambiente politico-economico più adatto, non solo alla storia dello Stato tedesco, ma al modo di pensare e di pensarsi dei tedeschi in rapporto allo spazio comune europeo.
Uno spazio, appunto, e non una Unione.
La Germania non dimentica mai di essere la Germania nel duro confronto avviato, anche se mano nella mano (come Mitterand e Kohl eternarono in una famosa icona) con la Francia prima e con la Gran Bretagna ora. Essa fa della sua potenza una condizione che s’impone con le sue ‘virtù’considerate come indiscutibili, essendo premiate da una permanente coesione sociale, uno sviluppo moderato, ma continuo, una razionalizzazione di tutte le sue infrastrutture costante (dall’istruzione allo sviluppo di tutti i sistemi a rete, dal sistema finanziario concepito e sviluppato, non solo a supporto dei giganteschi konzern, ma anche alla tutela e sostegno delle piccole e medie imprese).
E in questa ‘virtù’ che essi hanno concentrato una forma particolare di fanatismo popolare, senza più il bisogno di raduni notturni, né di altre simbologie per manifestarsi, ma, come sempre, capace di quella peculiare ostinazione di massa incurante di ogni altra ragione ed evidenza. Una virtù ostinata, dunque, nella quale si riconoscono e che oggi fa della loro moneta incapsulata nell’euro, una cosa soprattutto loro. La testimonianza, il segno – che sentono irrinunciabile e indicibile – della sfida vinta contro i vincitori di ieri. Il segno inequivocabile di una chiamata, di un destino, una predestinazione che non ha bisogno di proclami, ma che s’impone con la forza stessa dei fatti. Una metafisica dello sviluppo tedesco, inossidabile e inattaccabile, la cui ‘virtù’ essi ‘offrono agli altri Paesi europei come imitazione e come sfida.
A questa religione popolare e di massa partecipa anche la SPD. Questo complica il problema che sta di fronte all’Europa, non consentendo altre interlocuzioni, né varianti pur minime come si è visto anche in questultima occasione. La SPD, che pure si vede ridotto il proprio ruolo al di sotto del 30% della rappresentanza, a questa religione popolare ha sacrificato ogni altra cosa, nel modo simbolicamente e politicamente più significativo, quando il dibattito sulla svolta neomoderata avviato e vinto da Schroder, pose le basi per la virata neomercantilista e fu suggellato dalla emarginazione e dalle dimissioni dal partito di Oskar Lafontaine.