Fonte: huffingtonpost
di Giulia Rodano – 15 maggio 2018
(Questo post è stato scritto insieme a Carlotta Caciagli, PhD Student, Doctoral Programme in Political Science, Scuola Normale Superiore – Istituto di Scienze Umane e Sociali)
La sinistra? “Ora mi sa che non c’è più.” I politici? “Non si interessano più delle persone.” Questi sono solo alcuni dei giudizi più paradigmatici emersi da una serie di interviste svolte da il “Cantiere delle idee“, un gruppo di ricercatori e ricercatrici che presenterà, dopo più di un anno di lavoro, i primi risultati della ricerca sabato 19 al Palazzo Bastogi (via Cavour) a Firenze. Titolo dell’evento: “Popolo? Chi? Al lavoro per nuove idee partendo da un’indagine sulle classi popolari”.
Il Cantiere delle idee è andato a intervistare uomini e donne, giovani, adulti e anziani là dove la sinistra è stata accusata di non andare più da tempo, ovvero nelle periferie (per adesso di Milano, Firenze, Roma e Cosenza), su come i cittadini vivono e su come si pensano, come giudicano la propria vita, il proprio lavoro e il proprio avvenire, su quale rapporto abbiano con la politica (quella delle istituzioni e quella della società), sulla comunità in cui vivono e sulle pratiche sociali che incontrano, lontani dai riflettori e dai grandi eventi, dove la sinistra dovrebbe avere la sua base elettorale.
Le interviste hanno testimoniato, con impressionante nettezza, quanto si sarebbe espresso, a mesi di distanza, nel voto del 4 marzo, in cui milioni di elettori hanno cercato un cambiamento e hanno contemporaneamente ignorato tutte le possibili sinistre. Un sentimento diffuso che ci racconta quanta sofferente delusione, quanto disincanto si siano incuneati nel cuore e nelle menti degli uomini e delle donne che abbiamo l’abitudine ormai di definire “popolo”.
Al di là della rabbia e del rancore indotti dalle rappresentazioni dominanti e dalle narrazioni che cercano capri espiatori al disagio e all’impoverimento, quello che sembra emergere dal lavoro del Cantiere, è la scomparsa della speranza, la perdita della consapevolezza che condividere una condizione è già uno strumento per cambiarla, la scomparsa del futuro. Più che il populismo arrembante “né di destra, né di sinistra” di Luigi Di Maio, sembra la sudditanza al pilota automatico di Mario Draghi a aver spazzato via la sinistra e la politica. Sembra questa la responsabilità più grave delle classi dirigenti, l’eredità più pesante che consegnano: aver rinunciato ad ogni visione, aver ridotto la politica ad amministrazione di scelte e interessi stabiliti altrove.
Cosa si intende quando si parla di “popolo”? Perché di “popolo” si parla spesso, ma viene il dubbio che sia un orizzonte di senso inesplorato, un po’ come “la cosa in sé” dei filosofi greci: pensabile ma sconosciuta all’esperienza.
Cercare di produrre questa conoscenza è l’obiettivo del “Cantiere delle idee”. I risultati sono stati eterogenei, semplici e complessi allo stesso tempo. Ma per chi milita o si sente di sinistra rappresentano a un tempo un monito e una strada da percorrere.
Esiste il popolo? Forse. O meglio: esistono persone cha appartengono, per condizioni economiche e sociali, alle classi popolari, ma il popolo è tutta un’altra storia. Non ci si riconosce come classe: siamo sfruttati ma ognuno a modo suo, tutti individui nei propri (simili) disagi. La quasi totalità degli intervistati che riconosce di vivere condizioni precarie, di “lavorare sempre di più per guadagnare sempre meno”, non vede in rivendicazioni collettive e dal basso una risposta plausibile o auspicabile. Dentro questa solitudine si radica la guerra tra poveri, la sensazione che l’unica possibilità sia competere, ma, nello stesso tempo, che il gioco sia truccato dal denaro e dal potere.
Quindi chi comanda? La politica? No. Comandano i soldi. In un “teatrino politico” (così può essere sintetizzata la percezione degli intervistati) confuso. La dicotomia attorno alla quale tutto ruota è questa: chi ha i mezzi economici e chi non li ha. La politica (e la sinistra) disgusta proprio perché, quasi per definizione, è a servizio di “quelli che contano”: banchieri, finanzieri, multinazionali.
Dunque la crisi sembra aver affondato non solo nelle tasche degli italiani, ma anche nella loro percezione di sé: sembra aver minato la nostra esistenza come zoon politikon, come animali politici. E i politici? No, non c’è speranza che siano alla guida di un cambiamento. O meglio, per dirla alla Gattopardo, i politici degli attuali partiti cambiano sempre tutto affinché non cambi mai proprio niente. Chi vota lo fa disilluso, senza nessuna convinzione, senza sentirsi rappresentato. Non era difficile intuirlo, ma la ricerca conferma che la classe dirigente è ben lontana dall’essere percepita come avanguardia, ed è invece vissuta come una élite preoccupata della propria riproduzione.
La sinistra, poi, sembra aver raccontato un mondo inesistente (diviso in modo manicheo tra la catastrofe incombente e la situazione migliore possibile) nella vita concreta della sua gente e così ha rafforzato la sensazione di impotenza e la sua presenza è ormai attenuata, persa nella nostalgia o nei sogni impossibili.
Non c’è dunque più nulla da fare? Non è detto. Perché – udite, udite! – dalle interviste emerge sfiducia verso i politici sì, ma non verso la politica. Anzi, si alza una domanda, implicita, di uscire dalle logiche emergenziali e dalla politica come propaganda, nutrita di simboli e slogan, anziché di progetti. Si chiede alla politica proprio la capacità di dare continuità e disegnare il futuro. Si chiede, dopo decenni di precarietà, che anziché scaricare le responsabilità sui cittadini, la politica semplifichi la vita, che finalmente risolva i problemi.
Al contrario che ritenere che lo Stato e le istituzioni debbano arretrare e concedere più libertà, in realtà si chiede loro di muovere cento passi in avanti.
La famosa antipolitica, tanto gonfiata dalle classi dirigenti, in una sorta di “populismo dall’alto” non sembra un sentimento dilagante. In altre parole: non sembrerebbe la sfiducia nel “sistema” rappresentanza la ragione dello scollamento fra rappresentanti e rappresentati. Mai come oggi la democrazia rappresentativa avrebbe delega, mandato dai suoi elettori.
Ma – quante responsabilità di una sinistra adagiata sul “pilota automatico” del “come reagiranno i mercati”!- attivarsi direttamente non è un’opzione considerata percorribile.
La sinistra non conosce più il popolo. Certo, ma non basta gridare che “il re è nudo”. Per capire come tornare a rappresentare, occorre ammettere che non si capisce.
Il cantiere ha cercato e cerca di indagarne i motivi e provare a dipanarne le contraddizioni. I sentimenti di collettività da catalizzare ci sono. Non si parte dal nulla: un popolo da ricostruire c’è. Quello che manca è proprio un soggetto politico in grado di rimetterlo insieme. Su questo abbiamo davanti una pagina bianca tutta da scrivere.