di Toni Gaeta 16 marzo 2016
Sono molti gli indizi in ambito archeologico con valenza antropologica che indicano l’area geografica compresa tra l’Ucraina orientale e il Kazakistan settentrionale, come quella in cui circa 7.000 anni fa ebbe inizio l’addomesticamento del cavallo. Si tratta inizialmente di un’area (che alcuni hanno chiamato Urheimat) di silvo-steppa intorno al medio Volga, dove molto più tardi si sviluppò il popolo dei Bulgari del Volga, ma che durante la 1′ metà del 5′ millennio a. C. diede origine alla cultura Kurgan: tra il Volga e il Don. Quest’ultima sembra costituire la 1′ forma sociale umana, da cui deriva tutta la civiltà patriarcale dei millenni successivi, fino ai giorni nostri.
Tale cultura diede origine ai cosiddetti popoli «indoeuropei», dei quali il 1′ in ordine assoluto fu proprio quello che la grande archeologa Marija Gimbutas ha definito “popolo Kurgan”. Tale parola (derivante dal turco) che in lingua russa significa ‘piccola altura’, ‘collinetta’ o ‘tumulo’, indica qualcosa che dall’archeologia porta direttamente all’antropologia. Questo perché nelle steppe a nord del Mar Nero (tra i fiumi Don e il Dnepr) da 60-70 anni a questa parte le equipe archeologiche di cui prese parte la Gimbutas hanno scoperto che dette ‘collinette’ nascondono in profondità testimonianze sepolcrali, raccolte in contenitori di legno.
Sappiamo che le usanze sepolcrali dicono molto di un popolo, della sua cultura, dei suoi comportamenti in rapporto a usanze, credenze, miti e riti, nonché delle sue relazioni sociali e umane. Tutto questo é oggetto di indagine tipicamente antropologica.
Contrariamente alle usanze sepolcrali di altre aree geografiche, caratterizzate dalla sepoltura comune di ogni tipo di essere umano, da necropoli o da sepolture di sole donne anziane, il sepolcro ‘Kurgan’ si differenzia per la sepoltura di un solo uomo, contornato da diverse manifatture in ceramica molto grezza ma, soprattutto, da teste di cavallo appositamente sacrificato in suo onore.
Il sacrificio di un animale divenuto molto importante per l’economia silvo-pastorale del “popolo Kurgan”, unitamente alla complessità della sepoltura ornata con vasellame, lascia pensare che il sepolcro sia stato dedicato ad un uomo importante della collettività di appartenenza.
Nel resto d’Europa sepolture di una certa importanza in quello stesso periodo erano dedicate soltanto a donne anziane, di cui in quelle della cultura ‘Kurgan’ non c’è traccia. I reperti archeologici relativi alle sepolture europee, infatti, ci parlano di ceramiche e statuette di pregiata fattura, tutte ispirate alle tante forme con cui si manifestava la Dea. Di quest’ultima verosimilmente la donna anziana costituiva la rappresentate in seno alla comunità locale.
Ciò che ci descrive Marija Gimbutas, infatti, é un repertorio archeologico molto ricco, raccolto in tutta Europa e fatto di testimonianze delle antiche società matriarcali. In esse vigeva l’assoluta parità tra gli appartenenti ai clan, giacché tutti figli della comune Madre Terra (Grande Dea), che assumevano il cognome del clan della matriarca, la cui continuità era garantita dalla discendenza matrilineare.
Nel suo prezioso volume intitolato “La Civiltà della Dea” Gimbutas descrive dettagliatamente la progredita capacità creativa e costruttiva delle società matriarcali, portando esempi di spaziose e solide abitazioni, nonché di preziosi manufatti: tutti appartenenti ai clan e non ai singoli individui raccolti intorno alle matriarche.
La proprietà era quindi collettiva e non si conosceva il significato di “bene privato”. Inoltre, la qualità e il significato delle decorazioni dei manufatti ritrovati presso le abitazioni o nelle sepolture delle matriarche, parlano di assenza di qualsiasi oggetto che potesse far pensare a un uso offensivo nei confronti di esseri umani.
Dopo di ciò l’archeologa passa a descrivere la nuova cultura patriarcale ‘Kurgan’. La sua storia é quella di un popolo destinato ad invadere mezza Europa e a contaminare l’altra metà, come gran parte dell’Asia, fino all’India (per questo motivo i popoli contaminati da questa cultura, sono stati definiti «indoeuropei»), distruggendo o trasformando profondamente tutte le antiche civiltà esistenti prima dell’età del bronzo.
Dai reperti riesumati di questa cultura si apprende che, sebbene i bovini restino i principali animali da tiro, nelle aree circostanti il medio e basso corso del Volga il cavallo diventa il mezzo veloce nel campo dei trasporti. Questa innovazione riduce notevolmente i tempi di viaggio, annullando qualunque tipo di confine territoriale precedentemente esistito. I conseguenti progressi influenzarono enormemente tutti gli altri aspetti della vita di quell’area geografica. Inoltre, cavalcare il cavallo consentiva un più veloce spostamento delle mandrie per il pascolo, favorendo anche spedizioni per razzie di bestiame e conseguenti accumuli di ricchezze, da sfruttare commercialmente. Con il tempo questi vantaggi divennero potenti strumenti di imposizioni, di violenze e conseguenti ritorsioni, che, per la 1′ volta nella Storia della specie umana, sfociarono in conflitti armati: quelli che le società matriarcali non conoscevano.
Nello stesso saggio sopra menzionato Marija Gimbutas, dopo aver dimostrato l’espansione della cultura ‘Kurgan’ su tutto il Ponto settentrionale (odierna Ucraina) descrive le caratteristiche di 3 grandi ondate di invasioni nell’Europa centro-orientale, che furono determinanti nel cambiare il volto alle preesistenti culture autoctone, già tutte di ispirazione matriarcale, poi distrutte o contaminate dalla cultura patriarcale ‘Kurgan’.
La gran parte dei reperti di fossili umani di quell’epoca sono caratterizzati da evidenti ferite mortali sui crani, di donne, uomini e bambini, in evidente fuga dalle abitazioni o dai villaggi. Il risultato di tali molto frequenti aggressioni, nei secoli successivi fu quello di una vasta gamma di trasformazioni nello stile di vita, negli usi, nei costumi, nelle abitudini ma, soprattutto, nei rapporti sociali e familiari tra uomini e donne e relative loro istituzioni.
I reperti archeologici risalenti ai millenni successivi ci parlano di fortificazioni sul territorio e di armi presenti anche nel corredo sepolcrale, che prima del 5′ millennio a. C. non esistevano. Essi ci parlano, inoltre, di coesistenza di principi discendenti dalle preesistenti società matriarcali con principi discendenti dalle nuove società patriarcali. Quindi, forme miste, nelle quali accanto alla discendenza di tipo matrilineare coesisteva il nuovo potere maschile, posizionato in posti di comando: in alcune società condivisi con le donne e in altre invece no.
In quest’ultime le donne divennero di fatto proprietà degli uomini e, quindi, anche merci di scambio con bestiame e altri beni. Nell’ambito di quelle più trucide si stabilì persino l’usanza di sacrificare la vita della donna del condottiero (o del re) a seguito della morte di quest’ultimo, seppellendola accanto a lui.
Ciò che in tanti non sanno e che ha colpito anche me, gettando molta luce sugli aspetti antropologici dei popoli italici esistenti prima dell’ascesa di Roma, é che la 1′ ondata di espansione della cultura ‘Kurgan’ in Europa centro-orientale contaminò anche l’Italia centrale, escludendo i territori che oggi corrispondono alla Toscana, alle Marche e all’Emilia-Romagna.
Una particolare testimonianza in questo senso é la cultura del Rinaldone, in provincia di Viterbo, dove si è effettuato il primo rinvenimento di tombe a ‘grotticella’. Di quel periodo si conosce anche la tecnica di sepoltura, che prevedeva l’utilizzo di tombe a forno o a ‘grotticella’, solitamente chiuse. Uno dei contesti funerari più noti appartenenti a questa cultura è la cosiddetta “tomba della vedova” scoperta nel 1951 a Ponte San Pietro, presso Ischia di Castro (VT).
La tomba è costituita da una cameretta circolare di 2,70 per 2,25 m., dotata di volta curva e nella quale erano sepolti un uomo di età adulta e di alto rango, con un ricco corredo di ceramiche e armi in selce e in rame, e una giovane donna, con un corredo molto più modesto.
Proprio perché detta contaminazione risulta essere di antica data (intorno al 4.000 a. C.) c’è da pensare che l’evoluzione delle popolazioni contaminate in Italia centrale sia stata ben diversa rispetto a quella delle popolazioni non contaminate o contaminate molto più tardi. La stessa diffusione delle sepolture riconducibili alla “civiltà villanoviana”(*), sembra costituire una demarcazione tra popolazioni appartenenti alle aree successivamente definite ‘territori etruschi’ o di influenza etrusca (come tali non contaminate dalla cultura ‘Kurgan’) e le restanti aree del centro, del nord e del sud Italia, invece, del tutto contaminate.
Nelle sepolture della civiltà villanoviana, infatti, non sono riscontrabili reperti riconducibili all’antica cultura ‘Kurgan’. Inoltre, la stragrande maggioranza degli studiosi inserisce la proliferazione delle sepolture villanoviane nell’alveo dei fenomeni evolutivi, che condussero al magnifico sviluppo della civiltà etrusca.
E’ sempre rischioso associare un ‘ethnos’ storico ad una civiltà conosciuta solo per le vestigia archeologiche. Tuttavia, la civiltà villanoviana si sviluppò in ampie parti d’Italia in un’epoca grossomodo corrispondente all’arrivo della seconda grande ondata di popoli «indoeuropei», ma ebbe i suoi centri maggiori nelle zone non contaminate (Etruria propriamente detta) o di contaminazione più tardiva (Etruria padana e campana).
Resta il fatto che in Etruria, in area padana etruschizzata e poi anche in area campana etruschizzata continuò a svilupparsi l’agricoltura, quale economia di gran lunga prevalente che, come già in Mesopotamia, in Fenicia, in Egitto e a Creta (Mezzaluna fertile), permise accumulazioni di ricchezze e di ingegni, quali fattori alla base delle realizzazioni di grandi opere, di importati città e di relativi grandi palazzi (di cui ancora oggi é possibile rinvenire le tracce).
Nel resto dell’Italia centrale, invece, la contaminazione ‘Kurgan’, come in altre aree d’Europa, fu causa di ridimensionamento delle colture agricole e di potenziamento dell’economia pastorale. Come sottolinea Marija Gimbutas, mentre la civiltà dell’antica Europa era agricola, matricentrica e matrilineare, intorno al 4.000 a. C. tra le popolazioni contaminate dalla cultura ‘Kurgan’ si verifica una trasformazione verso un’economia mista agricolo-pastorale, caratterizzante società classiste e patriarcali. Essa asserisce che: “Il cambiamento di struttura sociale, religiosa ed economica non costituisce un’evoluzione indigena graduale, ma il risultato di una collisione e di una graduale ibridazione tra società e ideologie profondamente diverse.”
Poiché sappiamo che la cultura ‘Kurgan’ esalta il valore della morte in battaglia, contrariamente all’esaltazione della vita insita nelle società matriarcali (proseguimento anche dopo la morte), che credono persino nella rinascita dei suoi componenti, si rendono evidenti i caratteri preminenti che accomunarono più tardi tutti i popoli italici dell’Italia centrale: Sabini, Latini, Volsci, Equi, Marsi, Sanniti, etc.
Probabilmente anche per la natura prevalentemente montuosa dell’Italia centrale (sebbene esistono numerosi esempi di prospera agricoltura collinare gestita da società matriarcali), oltre alla valorizzazione dell’attività pastorizia, questi popoli furono per lunghi secoli oggetto di reciproche rapine e scorrerie, che spesso sfociavano in veri e propri conflitti armati. Era la natura stessa della prevalente economia pastorale che agevolava l’attività bellica, giacché l’agricoltura richiede massima cura del terreno agricolo, che non può subire devastazioni di ogni genere.
Quindi, se tutti i figli e le figlie delle società matriarcali erano dediti all’intensificazione dell’economia agricola, alla caccia o alla raccolta di frutti spontanei, i figli delle società patriarcali dividevano i loro impegni tra conduzione delle mandrie, scorrerie e guerre di conquista. Di solito i maschi adolescenti curavano le mandrie, mentre quelli adulti erano dediti alle scorrerie e alle guerre di conquista, nonché alla molto ridotta agricoltura solo in tempo di pace.
Lo stesso Tito Livio (“Annales” o “Ab urbe condita“ – VI ,12), nel corso della narrazione delle guerre contro i Volsci («conflitti senza fine, incessantemente rinnovati per lo strenuo valore degli avversari, mai domi»), per essere il più oggettivo possibile e per approfondire la ricerca di tipo sociologico, sente il bisogno di interrogarsi sull’origine della ricchezza in uomini e mezzi dei Volsci, così contrastante con la situazione di altri popoli limitrofi della sua epoca.
Egli, infatti, scrive: «Sono sicuro che ai miei lettori, a parte la sazietà derivante dalla ripetizione continua delle guerre con i Volsci, che ho narrato ormai in tanti libri, si sarà presentato il problema, che è parso anche a me quasi incredibile, leggendo gli autori più vicini agli avvenimenti: da dove hanno attinto tutti quei soldati gli Equi e i Volsci, nonostante le numerose sconfitte subite ? Si deve pensare […] che una innumerevole moltitudine di uomini vivesse in quel luoghi, che ora non sono del tutto deserti, solo perché abitati da numerosi schiavi del Romani, mentre resta pochissima gente adatta alla leva. Comunque, tutti gli storici sono d’accordo nel riconoscere che [ … ] l’esercito dei Volsci era immenso..».
Quest’ultima affermazione di Tito Livio ci fa capire più da vicino la composizione sociale dei popoli «indoeuropei» e di quelli da questi fortemente contaminati, anche nel corso dei millenni successivi, come lo furono gli Equi e i Volsci. Essi erano dediti prevalentemente alle guerre di conquista. In particolare i Volsci non potevano accettare che gli eserciti di una sola città (Roma) potessero sconfiggere ripetutamente quelli di un forte e fiero popolo, come quello volsco, persino alleato per la circostanza con gli Equi.
Tuttavia, quasi tutti gli storici e gli antropologi concordano con l’affermare che la potenza di Roma derivò dalla perfetta fusione delle intelligenze derivanti da ben 2 civiltà: quella dei popoli «indoeuropei» e quella etrusca, che mantenne sempre le distanze dai rudi popoli italici di antica contaminazione risalente alla cultura ‘Kurgan’.
La matrilinearità degli etruschi é cosa nota. Nelle iscrizioni bilingui il nome del padre é inserito soltanto nella versione latina, mentre il nome della madre (sempre citato in etrusco) a volte viene omesso in quella latina. Fu Bachofen a metà del XIX secolo a notare per primo che la posizione della donne etrusche – perlomeno nel ‘periodo arcaico’ (dal VII al V sec. a. C.) – é sorprendentemente elevata, in confronto con quella delle donne greche e romane. Inoltre, i dipinti funerari e le iscrizioni ci raccontano sullo stile di vita degli Etruschi e sul notevole ruolo svolto dalle donne. I racconti degli scrittori greci e romani offrono, poi, ulteriori testimonianze di tale circostanza. Essi, inoltre, segnalano come la condizione della donna nella civiltà etrusca fosse motivo di spavento e di allarme, poiché le donne forti erano ritenute una minaccia per lo Stato.
Oltre alla libertà sessuale (tipica di tutte le società matriarcali), ciò che dagli affreschi e dagli scritti apprendiamo di più circa gli Etruschi, é la qualità e la finezza della loro arte e letteratura, con cui si esprimono in modo del tutto evidente il potere e la libertà delle donne etrusche.
Teopompo, storico greco del IV sec. a. C., ne é spaventato più di tutti. Secondo la sua testimonianza, infatti, quest’ultime hanno grande cura del loro corpo, praticando molta ginnastica, spesso nude assieme con gli uomini. Egli scrive che le etrusche fossero bellissime e che non fosse raro vederle sdraiate a cena accanto ad uomini che non erano i loro mariti. Infine, queste donne amavano bere e partecipare persino ai brindisi, che altrove erano riservati ai soli uomini.
Queste ed altre usanze, che accomunano la civiltà etrusca alle altre società matriarcali europee dell’epoca (come quella cretese), ci fanno capire per contrasto, quale fosse la profonda diversità dello stile di vita degli altri popoli italici, come ad esempio i Volsci.
Sebbene Virgilio narri di una regina (Camilla) che, in stile del tutto amazzone, affrontava e combatteva i nemici a cavallo, non risulta che gli eserciti dei Volsci annoverassero donne. Si può pensare quindi che, al pari dei Latini, dei Sabini e degli Equi, le loro donne fossero relegate nell’ambito della cura della prole, dei genitori affetti da malanni e dell’agricoltura ad uso familiare.
Quindi, in conclusione, possiamo dire che i 2 secoli trascorsi dalla Repubblica Romana nel cercare di domare uno dei popoli più fedeli alla cultura indoeuropea e più militarmente organizzato, costituirono storica e fondamentale esperienza di conservazione di principi repubblicani, maturati nel confronto con la civiltà etrusca e cari al popolo di Roma, molto utile per le successive campagne militari.
Dai Volsci i Romani impararono molto bene che una battaglia vinta non significa aver vinto una guerra e meno che mai aver domato un popolo. Un’esperienza del tutto simile, i Romani la fecero più tardi con gli Hispanici (altro popolo solo tardivamente contaminato dagli indoeuropei), che non accettarono mai il dominio di Roma, ribellandosi ripetutamente e ciclicamente.
(*) Per ‘civiltà villanoviana’ si consiglia di consultare Wikipedia
1 commento
Il commento è rivolto al “popolo Kurgan, i Volsci e gli Etruschi”.
Articolo veloce, puntuale, senza voli fonambolici. Quindi ricco di notizie e di spunti.
Complimenti. (approdo a questa lettura da “Origini di storie”, una summa culturale mostruosa).