Il mondo grande e terribile e la crisi della sinistra

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 12 marzo 2018

Ho letto molte ‘analisi della sconfitta’ in questi giorni. La maggior parte me le potevo risparmiare, diciamolo. Anche perché provo una certo disagio quando leggo “abbiamo sbagliato qui, abbiamo sbagliato là”, come se il mondo iniziasse e finisse sempre e solo con noi, col nostro smisurato ego politico, e tutto il resto fosse una variabile delle nostre paturnie. Non è così. Anzi, dirò di più, la crisi della sinistra è cominciata quando il ‘mondo grande e terribile’ ci è parso sempre più tale e sempre più incomprensibile. E perciò abbiamo iniziato a ripiegare su noi stessi, addebitandoci il bene e il male, che invece esistono fuori di noi e di cui noi siamo soltanto interpreti, nel migliore dei casi. Renzi è soltanto il culmine di questo atteggiamento, per cui “io sono io e voi non siete un cazzo” secondo la lezione di Belli e Sordi. Uno stile di pensiero che ci ha portati soprattutto a guardarci allo specchio e a chiudere porte e finestre. Un narcisismo culturale di cui il toscano è stato davvero il compimento finale. Bisogna partire dalla realtà attorno, invece. Che non è solo quella sociale e culturale, pur essenziale per le organizzazioni di sinistra. Ma quella politica. E dunque dallo ‘stato’ del sistema entro cui ci troviamo a operare. Ne ho già parlato, lo rifaccio.

Il ‘mercato politico’ italiano, in cinque anni (2013-2018), ha perso 1.800.000 elettori. Il bacino si è molto ristretto, e indica che la società ha maturato un distacco crescente verso l’attuale offerta. Se stringiamo il focus sulla ‘sinistra’, l’Istituto Cattaneo l’ha suddivisa in tre sotto-aree: quella di centrosinistra classico, quella di sinistra democratica e di riformismo ‘spinto’, quella di sinistra radicale. La prima ha perso in cinque anni 1.600.000 voti (2.600.000 il PD da solo, con il recupero di un milione di voti degli alleati). La seconda (occupata da Liberi e Uguali) ha abbondantemente mantenuto il suo milione e centomila di voti, che nel 2013 erano stati raccolti da SEL. La terza ha perso invece 352.000 voti, corrispondenti al 40% dei suoi consensi. Ne deduciamo, grosso modo, che il centrosinistra cala di appeal e di interesse per circa il 20% del suo bacino elettorale (il PD da solo lascia per strada il 30% della sua forza). Mentre la sinistra radicale si riduce ai minimi termini, assommando a circa 500.000 elettori.

La sinistra democratica, a sua volta, mantiene il proprio bacino elettorale (pur in presenza di un crollo generale dei votanti). Non vuol dire che ha ‘vinto’, anticipo le obiezioni, vuol dire che, insediatasi in quella nicchia di mercato politico, ne ha raccolto l’intero potenziale, saturandolo. Di più non poteva. Si tratta di un bacino in cui si collocano gli acculturati, una buona quota dei giovani che hanno votato, molti elettori della vecchia ‘Italia Bene Comune’. C’è poco malessere sociale, poco ‘disagio’, a dirla tutta. Si è trattato, con ciò, di un posizionamento quasi ‘naturale’ per la sinistra che si è raccolta in LeU, composta di dirigenti e militanti che scelgono culturalmente la democrazia rappresentativa, il dialogo istituzionale, la mediazione culturale, e che testimoniano in massima parte la ‘cultura politica’ della sinistra storica. Difficile chiedere al voto marginale, arrabbiato, alla sofferenza sociale, a chi si sente lontano dalle istituzioni, a chi ce l’ha con i partiti di aderire ‘serenamente’ a questa nicchia di mercato politico dopo soli tre mesi di campagna elettorale. D’altra parte, mi pare che anche Potere al Popolo abbia faticato a intercettare il disagio sociale, se è vero che la sinistra radicale è stata praticamente cancellata dalla geografia politica. Fatte queste considerazioni, probabilmente servirà un certo ‘riposizionamento’ per lavorare sul disagio sociale e sull’elettorato che ha scelto gli anti-sistema, e che nega il valore taumaturgico della mediazione politica, culturale, sociale. Servirà snaturarsi un po’. Servirà correre dietro alle forme del populismo, alla critica diretta contro le istituzioni rappresentative, lusingando chi preferirebbe le vie brevi? O no?

Ecco il punto. C’è una crisi della politica, delle istituzioni rappresentative, della democrazia che è stata molto, ma molto sottovalutata. Anche chi vorrebbe rappresentare da sinistra il disagio sociale e la ribellione, ha minimizzato il distacco, la sfiducia e l’abisso democratico che taglia in due il Paese. Minimizzato, nel senso di non tenerlo nel debito conto strutturale, di pensarlo marginale rispetto al punto centrale della ‘riconquista’ dei soggetti sociali. Una semplice variabile dipendente. Dovrebbe essere invece chiarissimo che la crisi della democrazia porta con sé la crisi della sinistra, almeno nelle forme storiche che noi conosciamo. La frammentazione e la polverizzazione dei profili politici sgretola le basi su cui nel tempo hanno poggiato la cultura e l’azione dei partiti storici della sinistra. Si tratta di una condizione che va oltre gli ‘errori’ e gli ‘sbagli’ di questo o quello di cui tanto si discute. La sinistra italiana, senza un Parlamento operativo e ben saldo al centro della nostra democrazia, senza forme composte di democrazia rappresentativa, ‘slitta’ sul bagnato piuttosto che marciare salda. La crisi democratica, prima ancora che motivo di allarme, è il segnale di uno sgretolamento sociale e, nello stesso tempo, la condizione dell’impossibilità della sinistra a intervenirvi.

Ecco perché il bacino di 1.100.000 voti stenta ad ampliarsi, ecco perché tutta la sinistra regredisce, compresa la sinistra-sinistra, che pure vorrebbe pescare direttamente nel sociale senza passare per il ‘via’ delle forme istituzionali. Oggi ‘vince’ chi parla il linguaggio della crisi, non quello di chi vorrebbe ricomporla, ammettendo che ciò sia possibile in un breve lasso. Negli anni settanta questo orizzonte ‘negativo’ era più chiaro, oggi appare invece molto offuscato; oggi i soggetti della sinistra si limitano a ripetere in coro dove abbiamo tatticamente sbagliato, invitando soprattutto a ‘rincorrere’ i soggetti sociali sul loro campo. C’è meno consapevolezza dell’orizzonte. È come se si trattasse soltanto di rinserrare l’abisso delle disuguaglianze con politiche adeguate, quando invece tutto sembra allontanarsi e divaricarsi. Non che non si debba ‘fare’ la sinistra. È che bisognerebbe ‘fare’ anche altro, concentrarci sul mondo sempre più “grande e terribile” e sulle difficoltà oggettive che la sinistra incontra anche quando è se stessa (soprattutto!). La mucca nel corridoio non era solo la destra in casa, non indicava solo un ospite inquietante ma la casa stessa, che cambia aspetto ancor prima che la si riesca a cambiare noi.

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