Il lavoro, l’ultima resistenza al partito unico della nazione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Michele Prospero
Fonte: Il Manifesto

di Michele Prospero 13 novembre 2014

Con le prove gene­rali di par­tito della nazione, si mar­cia spe­diti verso il par­tito unico. Nel senso gram­sciano del ter­mine ovvia­mente, e cioè con­ser­vando intatti i con­sueti riti delle prove elet­to­rali. Per offrire una rispo­sta orga­nica alla crisi, si legge nei Qua­derni, «il pas­sag­gio delle truppe di molti par­titi sotto la ban­diera di un par­tito unico che meglio rap­pre­senta e rias­sume i biso­gni dell’intera classe è un feno­meno orga­nico e nor­male». E poi­ché a scuo­tere l’Italia è una di quelle crisi che per Gram­sci «tal­volta si pro­lunga per decine di anni», un ten­ta­tivo estremo di darle una dire­zione nel segno della sta­bi­liz­za­zione mode­rata postula il ricorso al par­tito unico che raduna i vari spez­zoni dei ceti poli­tici post-ideologici.

 Così si spie­gano i patti del Naza­reno, le aggre­ga­zioni in corso attorno al carro del vin­ci­tore con i tran­sfu­ghi di Sel e dei cespu­gli cen­tri­sti, la scom­parsa di ogni trac­cia dell’opposizione par­la­men­tare. Emble­ma­tica è soprat­tutto la vicenda di Scelta civica. Nata sulla base di un espli­cito dise­gno dei set­tori dell’economia, della finanza e dei media di ordi­nare una rivo­lu­zione pas­siva per bloc­care la resi­sti­bile ascesa di Ber­sani e Ven­dola, le truppe di Monti sono ora in pro­cinto di entrare, con l’onore delle armi, nelle file del par­tito che hanno con­tri­buito a distruggere.

 Con il ren­zi­smo trion­fante, i fram­menti delle for­ma­zioni poli­ti­che, a stento soprav­vis­sute come simu­la­cri, sen­tono una pro­fonda con­ver­genza di intenti. È nor­male che, sulle mace­rie delle fun­zioni di rap­pre­sen­tanza sociale ormai defi­ni­ti­va­mente esplose, affiori l’immagine di un meta­par­tito che assorbe tutte le ten­denze, le meta­bo­lizza senza traumi in un indi­stinto cal­de­rone. Cadute le frat­ture sociali come fon­da­mento delle orga­niz­za­zioni poli­ti­che, il tra­sfor­mi­smo diventa una pra­tica nor­male entro le aule par­la­men­tari, dove ope­rano depu­tati che subi­scono il richiamo di una mede­sima classe sociale che dirige le ope­ra­zioni fondamentali.

 Rele­gato il lavoro al di fuori dei gio­chi poli­tici che con­tano, il nuovo potere uni­fi­cato è così certo della sua rag­giunta ege­mo­nia che, schiac­ciate le resi­stenze interne, dibatte solo sulla oppor­tu­nità di sosti­tuire i man­ga­nelli, che si sono eser­ci­tati sui crani nudi degli ope­rai di Terni, con i meno san­gui­nari idranti. La que­stione sociale viene così scac­ciata dalle isti­tu­zioni e ricon­dotta a effi­caci misure di poli­zia. Sicuro del suc­cesso, e certo di vivere senza l’incubo di pos­si­bili alter­na­tive rav­vi­ci­nate, il governo da Bre­scia lan­cia il segnale elo­quente di una totale con­di­vi­sione della ideo­lo­gia della con­fin­du­stria (e delle tec­no­cra­zie euro­pee che esi­gono lo scalpo del sin­da­cato del conflitto).

Il con­te­nuto di classe dell’esecutivo, sinora ben camuf­fato dalla cami­cia bianca, dagli infi­niti tra­ve­sti­menti ludici del lea­der che vaga per le sco­la­re­sche e dà il cin­que ai bam­bini per strada, ora può affio­rare in un modo indi­stur­bato. Senza fasti­diosi infin­gi­menti, il governo cri­mi­na­lizza il con­flitto, espunge dal voca­bo­la­rio pub­blico la parola inde­si­de­rata “padroni”, con­danna il mondo del lavoro alla gogna e lo dipinge quale ceto di pri­vi­le­giati che bloc­cano la moder­niz­za­zione e spin­gono verso il declino.

Il pecu­liare amal­gama del ren­zi­smo, e cioè carezze ai poteri forti da sem­pre suoi amici e recita a sog­getto sullo spar­tito dell’antipolitica, è sal­tato. Il volto della con­fin­du­stria che si acca­ni­sce su bat­ta­glie iden­ti­ta­rie con­fe­ri­sce al governo un mar­chio pecu­liare. L’universo padro­nale pare ancora forte per orien­tare, inci­dere, con­di­zio­nare ma non è così potente da garan­tire uno sfon­da­mento elet­to­rale. Con­sa­pe­vole dei numeri elet­to­rali scarsi a dispo­si­zione dei poteri forti, nep­pure Ber­lu­sconi aveva mai ridotto la sua coa­li­zione alla ragna­tela con­fin­du­striale e al com­parto finan­zia­rio pre­oc­cu­pan­dosi anzi di pene­trare nei mondi peri­fe­rici con mani­fe­sti con­tro le élite, con sim­bo­lo­gie populistiche.

 Ora Renzi tenta quello che a nes­suno è mai riu­scito, cioè un governo e un par­tito unico in per­fetta sim­biosi con ciò che resta del grande padro­nato ita­liano. L’azzardo sca­tu­ri­sce dalla per­ce­zione forte che, dopo la sua sca­lata celere ai ver­tici del potere, nel ceto poli­tico in via di com­pleta omo­lo­ga­zione cul­tu­rale nes­suno gli farà scherzi di cat­tivo gusto. Tran­quillo nel palazzo, e con­vinto di aver addor­men­tato anche la base con la pater­na­li­stica con­ces­sione di poter tenere ancora le feste dell’Unità, Renzi decide di cor­rere il rischio dello scon­tro aperto con la Cgil. Lo fa per ten­tare un pro­sciu­ga­mento defi­ni­tivo delle risorse elet­to­rali della destra in affanno, e per ingra­ziarsi i favori di Bru­xel­les in vista di una qual­che fles­si­bi­lità nei conti.

 Accan­tona per­ciò la sedu­zione popu­li­sta e ingag­gia delle bat­ta­glie alta­mente sim­bo­li­che per cat­tu­rare il con­senso mode­rato e can­cel­lare in maniera irre­ver­si­bile il ricordo della vec­chia sinistra.

 Senza più con­tare in effi­caci sponde poli­ti­che, nel clima con­ta­gioso del grande par­tito unico della nazione che in nome del bene comune isola i disob­be­dienti, il lavoro rimane l’unico foco­laio di resi­stenza. Privo di ogni rap­pre­sen­tanza poli­tica rico­no­sci­bile, lo scon­tro sociale ripiega nella piazza e la fre­quenta come un ter­reno obbli­gato. Si svolge così una par­tita ine­dita, che il sociale, dinanzi al governo che denun­cia la trat­ta­tiva come un misfatto, è costretto a gio­care al di fuori delle isti­tu­zioni. Non può sot­trarsi alla prova di forza, anche se attorno al lavoro risuona il tri­ste rumore della sua soli­tu­dine politica.

Dal Manifesto del 13/11/2014

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