Il lavoro che manca, la responsabilità della politica, il jobs act

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Vannino Chiti
Url fonte: http://www.vanninochiti.com/?p=15837

Un po’ di numeri

di Vannino Chiti – 21 novembre 2014
Voglio iniziare questo mio intervento esponendo un po’ di dati sull’occupazione in Italia, o forse è meglio dire sulla “disoccupazione”, dal momento che si tratta di dati che testimoniano una situazione critica. Critica a livello nazionale, dell’intero paese, ma certamente con intensità nettamente più forti nel Mezzogiorno. Cercherò poi anche di indicare alcuni obiettivi possibili, positivi – non miracolosi, perché questo non è possibile -, per evitare di abbandonarsi alla rassegnazione. E’ difficile, ma cambiare si può: si può, anzi si deve, migliorare la società.
Siamo dentro una crisi profonda, non solo italiana; è europea e mondiale.
Dura da più tempo degli anni della 2ª guerra mondiale.
Esige per tutti un rinnovamento profondo di culture: partiti, istituzioni, sindacati, imprese, cittadini. E’ il portato di una cattiva globalizzazione, di una rivoluzione tecnologica-informatica, alla quale vanno dati strumenti di governo, perché i suoi benefici si diffondano in modo equilibrato e non aumentino i divari, le disuguaglianze all’interno delle nazioni e tra i popoli.
Secondo quanto riferito dall’Istat, il tasso di disoccupazione  a settembre è salito al 12,6%, in aumento di 0,1% punti sia rispetto al mese precedente, sia rispetto al settembre 2013. Il numero di disoccupati è pari a 3 milioni 236 mila, in aumento dell’1,5% rispetto ad agosto e dell’1,8% su base annua: è il dato più alto dall’inizio delle serie storiche dell’Istat (2004).
Ancora più inquietante è vedere quante persone non lavorano e si arrendono di fronte all’impossibilità di trovare un impiego: il numero di inattivi tra i 15 e i 64 anni a settembre è pari a 14,156 milioni di persone. L’unico aspetto positivo è che si tratta di un numero in calo dello 0,9% rispetto al mese precedente e del 2,1% rispetto a dodici mesi prima.
Vi è poi il capitolo che suscita maggiore preoccupazione: il tasso di disoccupazione tra i giovani a settembre è del 42,9%, 1,9 punti in più rispetto a settembre 2013. Tra i nostri ragazzi che hanno un’età compresa tra i 15 e i 24 anni 698 mila non studiano e sono disoccupati, l’11,7% del totale della popolazione in questa fascia di età.
Infine le previsioni: nel 2014 il tasso di disoccupazione si attesterà al 12,5%, per poi lievemente a diminuire nel 2015 (12,4%) e nel 2016 (12,1%).
Dati significativi emergono anche dal Rapporto SVIMEZ 2014 sul Mezzogiorno. In particolare, nello studio si evidenziano due grandi emergenze nel nostro Paese: quella sociale con il crollo occupazionale, e quella produttiva con il rischio di desertificazione industriale, che caratterizzano ormai per il sesto anno consecutivo il Mezzogiorno.
Nel caso del Sud la peggior crisi economica del dopoguerra rischia di essere sempre più paragonabile alla Grande Depressione del 1929. Gli
effetti della crisi si sono fatti sentire anche al Centro-Nord, e non certo per colpa del Sud; ma anche l’area più forte del Paese rischia di non
uscire dalla crisi finché non si risolve il problema del Mezzogiorno, in quanto una domanda meridionale così depressa ha inevitabili effetti negativi anche sull’economia delle regioni centrali e settentrionali. Secondo la SVIMEZ, dopo il fallimento delle politiche di austerità che hanno contribuito all’aumento delle disparità tra aree forti e deboli dell’Ue, è giunto il momento di mettere in campo una strategia di sviluppo nazionale che ponga al centro il Mezzogiorno.
In base a valutazioni SVIMEZ nel 2013 il Pil è crollato nel Mezzogiorno del 3,5%, approfondendo la flessione dell’anno precedente (-3,2%), con un calo superiore di quasi due percentuali rispetto al Centro-Nord (-1,4%). Da rilevare che per il sesto anno consecutivo il Pil del Mezzogiorno registra segno negativo, a testimonianza della criticità dell’area.
Il peggior andamento del Pil meridionale nel 2013 è dovuto soprattutto a una più sfavorevole dinamica della domanda interna, sia per i consumi che per gli investimenti.
In termini di Pil pro capite, il Mezzogiorno nel 2013 è sceso al 56,6% del valore del Centro Nord, tornando ai livelli del 2003, con un Pil pro capite pari a 16.888 euro.
I consumi delle famiglie meridionali sono ancora scesi, arrivando a ridursi nel 2013 del 2,4%. Dal 2008 al 2013 la caduta cumulata dei consumi delle famiglie ha sfiorato nel Sud i 13 punti, risultando di oltre due volte maggiore di quella registrata nel resto del Paese.
Il Mezzogiorno ha perso il tradizionale ruolo di bacino di crescita dell’Italia: si conferma anche nel 2013 il fenomeno già emerso nel Rapporto SVIMEZ dello scorso anno, secondo cui al Sud i morti hanno superato i nati: un risultato negativo che si era verificato solo nel 1867 e nel 1918. Anzi: nel 2013 il numero dei nati ha toccato il suo minimo storico, 177mila, il valore più basso mai registrato dal 1861.
Pericolo da cui il Centro-Nord finora appare immune: con i suoi 388mila nuovi nati nel 2013 pare lontano dal suo minimo storico di 288 mila unità toccato nel 1987. Il Sud sarà quindi interessato nei prossimi anni da uno stravolgimento demografico, uno tsunami dalle conseguenze imprevedibili: è  destinato a perdere 4,2 milioni di abitanti nei prossimi 50 anni, arrivando così a pesare per il 27% sul totale nazionale a fronte del l’attuale 34,3%.
Nel 2013 le nascite complessivamente hanno continuato a diminuire nel nostro Paese, scendendo a quota 514 mila, il livello più basso mai raggiunto dall’Unità d’Italia. Per avere un’idea del profondo cambiamento avviato negli ultimi decenni, basti pensare che nel 1964, quando nascevano gli odierni 50enni, le nascite in Italia erano 1 milione 16mila, cioè il doppio.
Sembrano cifre aride: mi rendo conto che così possono essere percepite. Dietro ogni numero, però, c’è una persona.

La crisi dell’economia, del mercato e della comunità
Dal 2009, primo anno nero della crisi economica, il nostro paese ha perso oltre 9 punti percentuali di Pil: hanno chiuso negozi, aziende, società. Sono spariti posti di lavoro e si è ridotto il volume degli affari in quasi tutti i settori. Per questo motivo milioni di cittadini non hanno un lavoro e faticano a intravedere una prospettiva positiva per il loro futuro.
Inoltre, le politiche di austerità imposte da uno schieramento di destra e liberista, che ha governato in quasi tutta Europa per diversi anni, hanno peggiorato le condizioni dell’economia, eroso i redditi e le capacità di investimenti, senza neppure raggiungere lo scopo per cui sono state varate: il risanamento dei bilanci pubblici.
Infine, è importante sottolineare un altro aspetto più legato alle caratteristiche del nostro paese: abbiamo la necessità di avviare una grande fase di riconversione ecologica delle produzioni, con un ruolo di stimolo e guida del pubblico e il dovere di prendervi parte con responsabilità da parte degli imprenditori. Molte vertenze aziendali in corso dimostrano che l’Italia sarà costretta progressivamente a ridurre il suo ruolo in settori destinati a svilupparsi maggiormente in altri continenti – si pensi alla siderurgia, alla produzione di automobili tradizionali – e investire in produzioni innovative, ad alto tasso di ricerca e know how.
Anche l’organizzazione del lavoro va rivista: in questi anni siamo stati inondati dal pensiero unico neo liberista e qualsiasi forma di dissenso, ogni idea che guardasse in un’altra direzione era vista quasi come un sacrilegio. Tra le idee fatte assumere in modo acritico vi è anche quella secondo cui ogni lavoratore deve dedicare al suo impiego un numero di ore sempre crescente. Si lavora per tutto il giorno, in molti casi sei giorni a settimana. Insieme all’introduzione dei contratti flessibili, spesso in realtà strumenti di precariato indegno, si è così svalutato il lavoro. La produttività però nel XXI secolo non cresce comprimendo i diritti delle persone: esige formazione, consapevolezza, partecipazione alla scelta delle strategie aziendali.
Siamo a un livello di evoluzione tecnologica per cui quello che un tempo facevano 5 persone oggi lo fa una sola. Bisogna pensare allora a una redistribuzione non solo dei redditi ma anche delle ore di lavoro disponibili, per assicurare un impiego a più persone e per ridare a ogni cittadino gli spazi liberi da dedicare alla propria sfera personale, alle proprie aspirazioni, alla vita delle comunità. Viviamo in una società stressata e inaridita.
Il progresso tecnologico deve andare a beneficio di tutti, non rafforzare il privilegio di pochi.

Dignità del lavoro e Costituzione
Il lavoro è fondamentale perché ogni cittadino abbia piena dignità e autonomia. Il lavoro è il mezzo essenziale per l’integrazione nella società e per la costruzione del futuro di ognuno secondo le proprie inclinazioni e capacità di impegno.
Voglio citare – non è retorica, ma rappresentano riferimenti permanenti –  due articoli della nostra Costituzione.
Il comma 1 del primo articolo stabilisce che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Questo articolo viene richiamato spesso, meno di frequente si fa riferimento al quarto, che integra e consolida il principio contenuto nel primo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Siamo di fronte a un patto reciproco tra Stato e cittadini, un insieme di diritti e doveri inseparabili. È compito dello Stato la realizzazione delle condizioni migliori affinché un’economia equa e sana permetta a ciascuno di trovare la propria strada e un impiego almeno dignitoso. È dovere di ognuno di noi quello di impegnarci affinché la nostra società progredisca e si persegua tutti insieme il bene comune. È importante tenere sempre a mente l’inscindibilità di questi due aspetti.
Anche dal nuovo Papa,  Francesco, sono arrivati messaggi forti sul tema del lavoro. Al centro della sua missione vi sono i più deboli e il Pontefice ha speso parole importanti per chi vive il dramma della disoccupazione.
Durante una visita a Cagliari, dopo aver denunciato un sistema economico senza etica, centrato sul “dio denaro”, esaltato il lavoro come fonte di vita e chiesto per tutti il diritto ad averne uno degno, in grado di tutelare il riposo e il creato, ha rivolto a Gesù una preghiera commovente: «Signore aiutaci ad aiutarci tra noi, a dimenticare l’egoismo e a sentire il noi, il noi popolo … dacci il lavoro e insegnaci a lottare per il lavoro».

Investimenti, sviluppo, Europa
Cosa possono fare le istituzioni oggi per ridare slancio all’occupazione?
La parola chiave a mio avviso è “investimenti”. Servono investimenti pubblici che rendano il nostro paese più moderno e che creino occupazione, redditi e diano una nuova gerarchia di valore ai consumi. Bisogna inoltre realizzare le condizioni migliori per attirare gli investimenti anche privati, italiani e stranieri.
–    Vi è una dimensione nazionale nella quale dobbiamo migliorare per investire in innovazione ed efficienza, cambiando le vecchie priorità.
Si pensi ad esempio al dissesto idrogeologico: è il tema più attuale di cui si discute. Metà del nostro paese è in ginocchio per smottamenti, esondazioni, allagamenti, crolli, frane. Alcune persone hanno perso la vita, altre sono rimaste ferite, tante si sono ritrovate a perdere tutto – casa, attività lavorativa, beni personali – in poche ore. Anche nella provincia di Messina si sono verificate tragedie dovute al maltempo.
La messa in sicurezza del nostro territorio è un dovere, un’urgenza ma anche una formidabile opportunità per creare lavoro e innovazione. Lo stesso turismo trarrebbe opportunità da questo impegno, tante famiglie potrebbero operare in condizioni positive; i benefici diretti e indiretti sarebbero tanti e protratti negli anni.
Serve un patto di 5 anni tra Stato centrale e Regioni: ci vogliono risorse per superare le emergenze dovute a rischio ambientale: così da realizzare una continuità negli interventi. E occorrono una nuova visione dello sviluppo, che deve essere socialmente e ambientalmente sostenibile; una nuova cultura che fondi un’etica più sobria di vita.
Dobbiamo destinare più finanziamenti all’innovazione: ciò vuol dire privilegiare in primo luogo scuola e formazione. Bisogna realizzare gli obiettivi postici dalla strategia ‘Europa 2020′: l’abbandono scolastico deve essere inferiore al 10% mentre oggi in Italia è superiore al 18%. Inoltre continuiamo ad avere rispetto ai paesi europei più avanzati un minor numero complessivo di laureati e diplomati. Ancora: l’Italia non ha una legge stabile per affrontare la povertà, ma la povertà – ci dicono le stesse statistiche – negli ultimi anni è raddoppiata.
La vera grande risorsa di cui disponiamo sono i fondi strutturali europei. I fondi vengono stanziati dall’Unione Europea ogni sette anni e anche per questo settennato il nostro paese rischia di non spenderli compiutamente per un deficit di progettualità: non siamo in grado di presentare progetti credibili e realizzabili per lo sviluppo.
Entro il 31 dicembre 2015 dobbiamo impiegare tutti i fondi stanziati per il periodo 2007-13 o saremo costretti a restituire alcuni miliardi a Bruxelles. Non ce lo possiamo permettere.
Altre risorse possiamo raccoglierle attraverso politiche coraggiose di lotta all’evasione fiscale – su cui sono convinto che si debba e si possa fare più – e di contrasto alla corruzione. Secondo uno studio commissionato dal gruppo dei socialisti e democratici al Parlamento europeo nel 2013, nel nostro paese ogni anno vengono sottratti al fisco 180 miliardi di euro! Una cifra che pone l’Italia ai primi posti, se non al primo posto, in questa triste graduatoria europea. L’Italia è seguita dalla Germania a 159 miliardi e dalla Francia (121). Ci sono poi la Gran Bretagna (74) e la Spagna (73).
–    Vi è una dimensione sovranazionale che può incidere con maggiore efficacia sulle sorti della nostra economia e della società: l’Unione Europea.
Come dicevo in precedenza, l’Europa ha affrontato nel modo sbagliato la più grande crisi economica del dopoguerra: le politiche di austerità fine a sé stessa hanno favorito, non contrastato,  impoverimento, disoccupazione, disagio sociale, e non hanno centrato nemmeno l’obiettivo di un consolidamento stabile dei conti pubblici. Nei paesi dell’Unione Europea ci sono attualmente oltre 24 milioni di disoccupati.
Oggi il clima è cambiato: un ruolo importante lo ha avuto l’Italia con gli ultimi due governi – Letta e Renzi – nell’orientare verso lo sviluppo le grandi decisioni dell’UE. Si tratta di un percorso difficile: siamo solo agli inizi. Le resistenze sono tante, così come gli egoismi nazionali. Ma si è capito che per ridare slancio all’economia e avviare una fase di sviluppo bisogna allentare i vincoli di bilancio per gli interventi produttivi, ad esempio la modernizzazione delle infrastrutture, la ricerca, la formazione, le energie rinnovabili. Bisogna insomma dare spazio agli investimenti. Torniamo dunque agli investimenti.
L’Europa è un patrimonio che alcune menti illuminate hanno immaginato e che si è consolidato nei decenni. E’ stata una risposta ai drammi della storia nel nostro continente: nel XX secolo da qui sono partite due guerre mondiali. Oggi vive una fase di sfiducia dovuta a tanti errori commessi e ad una struttura istituzionale che viene percepita come lontana e burocratica. Ma rimane la patria della civiltà: è necessario che proprio dall’Europa giunga un sussulto, che si dia avvio a piani di sviluppo su scala continentale, di sostegno alla modernizzazione delle aree più arretrate. Il piano da 300 miliardi, pubblici e privati, ma aggiuntivi rispetto ai fondi strutturali, varato dalla nuova Commissione di Juncker – anche grazie all’impulso italiano – rappresenta una decisione importante: è necessario che nel giro di pochi mesi il piano si trasformi, meglio si attui in obiettivi concreti.
Non è sufficiente, certo, ma rappresenta un punto di partenza.
Bisogna anche ridare vigore all’idea comunitaria: una garanzia comune sui debiti sovrani – i cosiddetti eurobond – sbarrerebbe la strada alla speculazione finanziaria e assicurerebbe maggiori risorse ai singoli Stati, sottraendole al pagamento degli interessi. Da subito, almeno, si varino i cosiddetti projet-bond, risorse finalizzate a realizzare interventi, in settori chiave ai quali prima facevo riferimento: ricerca; produzioni ecologiche e innovative, si pensi al campo delle energie rinnovabili e del fotovoltaico; infrastrutture di comunicazione (reti ferroviarie, trasporti urbani e collegamenti tra città). La Bce deve poter utilizzare tutti gli strumenti di cui dispongono le banche centrali – come la Fed americana e la banca centrale del Giappone che in questi anni hanno varato politiche monetarie espansive per contrastare gli effetti della crisi – per influenzare l’andamento dell’economia e fare gli interessi dei cittadini e delle aziende europee.
Per giungere ad avere politiche economiche, monetarie e fiscali comuni, bisogna compiere passi importanti anche nell’integrazione politica. Non mi dilungo in questa sede perché non è il tema centrale del nostro confronto, ma la costruzione degli Stati Uniti d’Europa è una condizione necessaria per assicurare ai cittadini italiani, e di tutti gli altri paesi, un contesto di benessere nel quadro di uno sviluppo nuovo, che assicuri occupazione e diritti dei lavoratori.
In futuro il Parlamento europeo dovrà essere eletto con un’unica legge, comune a tutti i paesi, ed assumere quei poteri di indirizzo e soprattutto controllo che erano propri dei Parlamenti nei vari Stati, all’apice delle esperienze democratiche nazionali.
L’attuale Consiglio europeo, formato dai capi di Stato o di governo, dovrebbe trasformarsi nel Senato dell’Unione, con competenze decisive su bilancio e ingresso di nuovi Paesi. Non dovrà più essere la sede della contrattazione tra interessi egoistici, secondo quel metodo intergovernativo che è tornato ad assumere, o ad impedire, le grandi decisioni.
La Commissione Europea deve diventare il governo federale.
Siamo a un bivio: dietro di noi, l’Unione Europea sorta dalle distruzioni delle guerre e da inimicizie secolari, portatrice di pace, benessere, rispetto dei diritti umani; negli occhi, un’Europa incompiuta, frammentata, non pienamente capace di realizzare solidarietà, giustizia, uno sviluppo fondato sull’occupazione; davanti a noi l’Unione che ci potrebbe essere, con un governo federale, un Presidente eletto dai cittadini, in grado di decidere sulla politica estera e di sicurezza.

Il Jobs act
Parlare di lavoro in queste settimane non può prescindere da un riferimento al Jobs act, il disegno di legge delega per la riforma del mercato del lavoro.
È una legge necessaria. In Italia il lavoro troppo spesso è incerto, precario, divisivo. Chi non ha un impiego è abbandonato a se stesso.
Il testo approvato al Senato non è, nel suo complesso, un provvedimento pienamente positivo e convincente: si tratta di una delega molto generica, con difetti e carenze. Con quel testo non centreremmo l’obiettivo di un mercato equo e inclusivo. Questa la mia personale valutazione.
Riaprire la questione dell’articolo 18 è stato un errore: è ormai acquisito che non si tratta di un ostacolo per le assunzioni ma di un presidio di civiltà. Era già stato modificato precedentemente dalla riforma Fornero. In ogni caso, alla Camera in questi giorni è stato raggiunto un accordo: il reintegro sarà previsto per i licenziamenti discriminatori e per specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
L’aspetto ambiguo, trattandosi di una legge delega, è che non si precisano le fattispecie, ora, ma si rinviano ai decreti attuativi, sui quali le Camere avranno solo la possibilità di esprimere un parere, obbligatorio ma non vincolante.
Altre questioni dovranno essere risolte in via definitiva nell’esame del Parlamento: occorre precisare soprattutto le risorse aggiuntive necessarie per rendere universali gli ammortizzatori sociali. La cifra ipotizzata, 1,5 miliardi, è largamente insufficiente. Anche prevedere 2 miliardi appare allontanarci dall’obiettivo che fonda e giustifica l’intero provvedimento. Se vogliamo garantire un sostegno pubblico a tutti quelli che perdono il lavoro, sono necessari investimenti importanti; va definita sulla base di parametri oggettivi e comunque attraverso un accordo tra le parti la possibilità di cambiare le mansioni di un lavoratore; i voucher devono continuare a essere utilizzati per i lavori saltuari e occasionali, senza cambiare il tetto massimo del compenso previsto per ogni lavoratore; occorre realizzare nei servizi per l’impiego l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; i controlli a distanza devono riguardare gli impianti e non le persone.
Infine, è indispensabile sia cancellata la giungla indegna di contratti che hanno favorito il precariato. Bisogna lasciare a disposizione delle imprese poche tipologie, che assicurino il giusto tasso di flessibilità e dare centralità a quello a tempo indeterminato, così da renderlo progressivamente il più conveniente.
I contratti devono essere pochi: apprendistato, lavoro autonomo (reale, non finto), tempo determinato o indeterminato. In caso contrario il contratto a tutele crescenti accrescerebbe solo la pletora dei troppi rapporti che nascondono precarietà e favoriscono lo sfruttamento.
Il tema centrale è: si mantiene un dualismo di situazioni tra lavoratori rispetto ai diritti si ricostruisce una unità del mondo dei lavori riducendoli a tutti, o invece – questa è la mia ferma convinzione – si realizza progressivamente una uguaglianza «in alto» non «in basso», di diritti e doveri? Si guardi davvero al modello tedesco,  a tutto quanto, non a singoli spezzoni, compresa la scelta della cogestione, la presenza cioè di rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di Amministrazione delle imprese, sulla quale si fondano l’articolazione dei contratti a livelli aziendali e le stesse concrete esperienze di solidarietà.
Conclusione
Centralità della persona, uguaglianza, lavoro degno per tutti, sostenibilità dello sviluppo: sono le sfide del futuro. Il compito della Politica è quello di elaborare un progetto e lottare per realizzare un sistema che ne consenta l’attuazione.
Lo stesso Papa Francesco si schiera in modo netto e guida la Chiesa a contrastare una globalizzazione orientata a ridurre i lavoratori a merce, a stabilire il primato della finanza sull’economia reale, a far arretrare i diritti e la democrazia. Il suo messaggio parla anche alla politica, almeno a  quella delle forze progressiste. Si tratta di ridefinire dei valori guida – primato della dignità della persona, del suo diritto alla formazione, alla salute, alla casa, ad un lavoro; primato della Madre Terra, cioè di uno sviluppo e di una convivenza ecologicamente coerenti; primato della non violenza – e di costruire dei programmi concreti, accompagnandoli con l’impegno ad affermare nella società una nuova cultura solidale.

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