di Nicola Boidi
In che senso si può dire che il Nord Italia e l’intero Paese si siano, prevalentemente in questi ultimi vent’anni, «meridionalizzati» nel senso deteriore del termine: corruzione, clientelismo, malagestione, mafie, sottosviluppo economico, lentezza, incapacità o impossibilità di prendere decisioni ? O, detto in altri termini, com’è che la «questione settentrionale», tradizionale contraltare dell’altrettanto tradizionale «questione meridionale», si sia in questi anni caricata di un suo «lato oscuro»? Chi sono i protagonisti che hanno tradito i «Pro-Pro» (acronimo che sta per «Professionisti-produttori») del nord che a loro avevano affidato le loro sorti per riuscire a cambiare lo status quo generale del Nord? Cosa significa dire che non ha ormai più senso parlare di Nord e Sud geografico del Paese in senso di costumi etici, professionali, culturali, economico-sociali, ma che è molto più sensato richiamarsi alla distinzione in due categorie di persone – i «Luigini e i contadini» – trasversali all’intero paese, di cui ci parlava già negli anni trenta Carlo Levi nel suo bel romanzo L’orologio?
Si potrebbe dare una prima risposta dicendo – celiando ma non troppo – che veramente c’è un ossimoro (l’unione di due concetti opposti) tra due temi che rappresenta lo stato dell’arte attuale della questione settentrionale: l’epopea avventurosa e drammatica dei Racconti del grande Nord di Jack London, da una parte, e il tono agrodolce, tra il comico e l’amaro, tragico-grottesco come è nelle corde delle vicende storiche e di costume italiche, della commedia Miseria e Nobiltà del commediografo meridionale, il napoletano Scarpetta, dall’altra parte.
Una seconda risposta ci viene dalle inchieste giudiziarie che negli ultimi due anni hanno fatto emergere tre tangentopoli dalle dimensioni gigantesche, per intrecci di classe dirigente politica e imprenditoriale «nordista» e per entità di tangenti erogate e ricevute, superiori alla Tangentopoli del bienno 1992-1994) i 20 filoni d’inchiesta aperti contemporaneamente nel 2012 sul governo della Regione Lombardia, con, tra gli altri, i ciellini Pierangelo Daccò e Antonio Simone indagati insieme all’allora governatore Formigoni e al presidente leghista del consiglio regionale Davide Boni; 2) le tre indagini aperte su Expo Milano 2015 – cupola degli appalti, turbative d’asta legate ad Infrastruttura Lombarda, il maxi appalto della Piastra; 3) e infine la più recente tangentopoli veneta degli appalti sul “Mose”, diga mobile sulla laguna destinata alla protezione di Venezia dalle alte maree e dagli allagamenti, per cui sono indagati dalla magistratura veneziana – per reati che vanno dall’ evasione fiscale alle irregolarità contabili, dalla corruzione alla concussione, dal finanziamento illecito a comitati elettorali a elargizioni dirette a uso personale, – amministratori e politici di primo piano di entrambi gli schieramenti, centro-destra e centro-sinistra, manager e imprenditori, un ex generale delle guardie di finanza, un magistrato della Corte dei conti, un ex presidente del Magistrato delle acque (per un totale di un centinaio di persone di cui 20 in carcere e 10 agli arresti domiciliari).
Queste nuove tangentopoli hanno riportato in primo piano la questione settentrionale e il suo lato oscuro edificato proprio sulle ceneri della tangentopoli di vent’anni fa. Da sempre la questione settentrionale non è altro che il negativo o l’immagine capovolta dell’ annosa «questione meridionale». Tradizionalmente a un Sud arretrato economicamente, politicamente e socialmente, che si dimostra «ruota di scorta » o «vagone al traino» dell’Italia, si contrappone la locomotiva dello sviluppo del Nord delle regioni più ricche – attualmente Lombardia , Veneto e Emilia-Romagna, in un recentissimo passato (ahimè) anche il Piemonte – Nord in cui si trovano quasi tutte le fabbriche del settore manifatturiero, cuore del nostro sviluppo economico. La questione settentrionale ha sempre avuto come suo «basso continuo» la lamentela per il «drenaggio di risorse» che dal Nord va al Sud, sotto forma di «residuo fiscale» – la quantità d’ imposte versate dagli abitanti di una regione italiana e messa a disposizione per le spese di altre regioni – pari a circa l’11,5% del Pil annuo della Lombardia, al 10, 3% del Veneto e al 10,1% dell’Emilia-Romagna (pari rispettivamente a 38 miliardi di euro annui per la Lombardia, 15 miliardi per Veneto e Emilia -Romagna). A sua volta il Pil di queste tre regioni corrisponde al 39% dell’intero Pil nazionale (Il Nord nel suo insieme, a fronte del 45,5% della popolazione nazionale, produce il 54,5 % del Pil nazionale).
Ugualmente le regioni del Nord hanno sempre lamentato la mancata soluzione di una serie di questioni o problemi strutturali che ostacolano le loro attività: le tasse più alte del mondo, ( a fronte anche però di una delle evasioni più alte al mondo e una sperequazione tra ricchezze di rendita e improduttive – patrimoni immobiliari e «mobiliari», cioè titoli finanziari in ingentissime quantità – e povertà, tra le più alte al mondo); l’eccessivo accentramento amministrativo; la corruzione; la burocrazia soffocante e inutile; le infrastrutture inefficienti, gli oligopoli e i monopoli.
Al problema della destinazione di risorse finanziarie al Sud (problema di conflittualità di allocazione di risorse tra regioni ricche e povere comune a molte nazioni del continente europeo) il Nord fino a pochi decenni fa ovviava con il recupero di quelle risorse attraverso la vendita ai consumatori del Sud dei propri prodotti e servizi. Due fattori intervenuti negli ultimi anni – la globalizzazione prima e la grande recessione economica poi – hanno modificato questa situazione e reso molto più appetibile la vendita dei propri prodotti sui mercati polacchi, canadesi o cinesi, che su quelli campani o siciliani (questo naturalmente per le aziende medie e grandi in grado di stare sul mercato mondiale, mentre per la miriade di piccole imprese «appese» al consumo interno, il calo drastico di quest’ultimo ha significato solo la loro morte, oltre 70.000 chiusure in questi ultimi anni).
A quegli altri problemi o ostacoli strutturali alla loro attività i «Pro-Pro» del Nord hanno pensato di trovare una soluzione affidandosi prevalentemente negli ultimi vent’anni, dopo il crollo del sistema dei partiti della Prima Repubblica successivo alla Tangentopoli del 1992-1994, a una nuova classe politica dirigente che prometteva di risolvere quelle questioni e di liberare «la gente produttiva del nord» dal soffocante e vessatorio «centralismo romano», una classe dirigente rappresentata da figure quali Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Formigoni, Maroni, e i loro dirigenti di partito.
Questa nuova classe dirigente (politico-imprenditoriale) eletta a salvatrice del nord, ha in realtà determinato lo sviluppo di quel lato nuovo e oscuro della questione settentrionale, la «meridionalizzazione», in senso deteriore, del Nord e dell’intero paese. I reati di tangentismo, per cui è indagata nelle recenti maxi-inchieste della magistratura, non costituiscono essi stessi il principale fallimento di questa classe dirigente; essi semmai sono la cartina di tornasole di un più generale fallimento morale, gestionale, politico e culturale dell’economia del Nord. Se all’interno del macrotrend negativo globale dell’economia e di quello dettato dalle regole di austerity e di pareggio del bilancio dell’Unione europea, l’Italia va peggio di tutte le altre economie occidentali ed europee paragonabili ed è ben al di sotto della media Ocse, ciò è imputabile proprio alla guida di questa classe dirigente, inetta e incompetente nella migliore delle ipotesi , criminale e arrivista nella peggiore.
La recessione economica iniziata nel 2008 ha determinato nel Nord il crollo verticale e di alcuni distretti industriali, un numero cospicuo di suicidi d’imprenditori e lo stallo di interi sistemi produttivi; i dati ci dicono che in questi anni di crisi il settore manifatturiero nordista è passato dal 20 % al 16 % del Pil nazionale. In particolare nel Nord Est il fatturato è sceso del 13% nel 2009, ha recuperato un 5% nel 2010 e un 2,5% nel 2011 , mentre nel 2012 è calato del 15,2%. Nel nord ovest invece il fatturato delle aziende è sceso del 11% nel 2009, per poi salire del 4,8% nel 2010 e del 1,5 % nel 2011, con un misero incremento del 0,5% nel 2012. Gli investimenti in tutto il Nord sono scesi del 18% nel 2009 e risaliti del 0,5% nel 2010, nel 2011 sono calati ancora del 4,5% e nel 2012 del 3%.
Secondo i calcoli dell’Istat il 34% della popolazione attiva italiana è attualmente disoccupata o in cassa integrazione; a questa cifra si dovrebbero aggiungere le centinaia di migliaia di lavoratori che risultano occupati con contratti a tempo determinato (i famigerati co.co.pro), contratti precari, saltuari ed effimeri, con stipendi da meno di 700 euro al mese. Mentre l’ascensore sociale di ascesa economica e professionale per molti giovani è bloccato e questo fatto li costringe ad emigrare all’estero in cerca di migliore fortune, risulta da dati Ocse che il 10 % della popolazione italiana ha un reddito rispetto al restante 90%, più alto che ovunque in Europa, comprese Francia e Germania ( il 55 % delle risorse nazionali).
A fronte di tutto ciò le classi dirigenti del Nord – rappresentati dai partiti di Forza Italia (poi Popolo delle Libertà), e Lega Nord, hanno governato per circa 9 anni l’Italia e negli ultimi vent’anni le sue regioni più ricche senza mai affrontare in alcun modo la questione settentrionale acuita e devastata dalla crisi, senza apportare nessuna vera innovazione di sistema. Al loro meglio le elites politiche ed economiche dirigenti settentrionali sono rimaste ferme, al peggio, in moltissimi casi, si sono rivelate incapaci, inefficienti, corrotte e truffaldine: hanno rubato a man bassa. Si tratta per lo più di gruppi di potere fallimentari che tutt’ora conservano un ruolo centrale nella direzione del Paese in tutte le sue articolazioni: la guida leghista di Lombardia e Veneto (fino a pochi mesi fa anche del Piemonte) la sua presenza forte in altre regioni settentrionali; il controllo Cl-Cdo (Comunione e Liberazione e Compagnia delle opere) della sanità della regione Lombardia, glango vitale del suo governo, che non è stato smosso dallo scoppio degli scandali del 2012.
Le due riforme della costituzione approvate nel 2001 – la riforma del titolo quinto e l’affermazione del principio di sussidarietà nell’articolo 118 – dando competenze e autonomia di spesa su diverse materie alle regioni, le hanno trasformate in voraci macchine clientelari, prive di freni e controlli, senza alcuna forma di controllo da parte degli enti locali superiori e nemmeno dal parlamento e dal governo.
Il Coreco, comitato regionale di controllo, che in passato poteva intervenire se annotava incongruità o problemi di varia natura, rimandando indietro i provvedimenti o chiedendo correzioni, è stato abolito dalle regioni dopo il 2002, e regioni, province e comuni possono spendere e spandere senza chiedere il permesso o rispondere ad alcuno dell’utilizzo di tale risorse, a meno che non intervenga la magistratura a chiedere conto e responsabilità degli eventuali atti illeciti. Lo Stato non può nemmeno più introdurre tetti di spesa. I comuni o enti locali in genere non rispondono delle loro spese ai loro cittadini-elettori, poiché i soldi li ricevono dallo Stato centrale e li utilizzano a piacimento. Le regioni sono fallite per questa riforma così come per la sussidarietà ciellina.
Solo la «draconiana » legge Spending rewiev introdotta dal governo Monti a partire dal 2012 obbliga i comuni in acclarata bancarotta di bilancio a imporre una politica di risanamento «lacrime e sangue » ai propri cittadini sotto forma di tariffe massimali di tutti i servizi e parametri massimi della tassa (Tasi-Imu) sulla casa. Morale: prima s’incentivano i comuni ad essere irresponsabili e poi li si trasforma in enti vessatori, non verso i responsabili dei disastri gestionali -amministrativi ( cioè le giunte comunali precedenti) ma verso i propri cittadini spesso ignavi di tutto ciò. La riforma del titolo quinto ha di conseguenza in generale incentivato un localismo amorale e irresponsabile; inoltre essa ha introdotto una concomitanza e conflittualità di competenze tra Stato e regioni sulle stesse materie :energia, trasporti, infrastrutture, coordinamento della finanza pubblica. Ne è derivata un’enorme confusione, infiniti ricorsi alla corte costituzionale e una complessità ulteriore della burocrazia italiana. Dalla approvazione di quelle riforme le regioni hanno aumentato la spesa corrente di oltre 40 miliardi e del 40%.
Il principio della sussidarietà, che per la sua trattazione meriterebbe un capitolo a parte, è il segno di come Comunione e Liberazione e il suo braccio operativo economico, la Compagnia delle Opere, (Formigoni e la sua pattuglia di «combat soldiers» all’interno dell’allora Forza Italia) è riuscita a modificare la costituzione italiana, sull’abbrivio del governo Amato di centrosinistra del 2001 , in particolare il suo articolo 118 , che a partire da quell’anno impone il principio di sussidarietà orizzontale, cardine ideologico di Cl ma anche della intera dottrina sociale della Chiesa cattolica. La sussidarietà implica la questione politica gigantesca per cui all’amministrazione pubblica spetterebbe il compito di favorire, erogando finanziamenti, un rapporto d’integrazione e reciproca collaborazione tra pubblico e privato per il raggiungimento del bene comune.
Prima della modifica, tale articolo prevedeva il principio di parallelismo per cui spettava allo Stato e alle regioni le potestà amministrative oltre che quelle legislative su una determinata materia, ad es: se la regione legifera sugli ospedali , allora essa deve gestire gli ospedali. A partire da quella modifica invece è previsto che servizi che possono essere forniti da spa, cooperative, enti non profit, (quest’ultimi non tenuti a presentare bilanci certificati) o semplicemente aziende private parificate (parliamo naturalmente del cuore della sussidarietà nelle regioni, la sanità), in quanto rispondenti al criterio costituzionale di maggior vicinanza e rapporto con i cittadini del territorio di riferimento, hanno il diritto di erogare le stesse prestazioni che spetterebbero alle istituzioni pubbliche, ricevendo gli adeguati finanziamenti e rimborsi da quest’ ultime. Questo criterio, questa ideologia della sussidarietà orizzontale, applicata in modo distorto e utilizzata ai fini degli interessi economici ciellini, ha fatto sì che venisse privatizzata buona parte della sanità, del welfare , dei servizi sociali, della gestione dei beni comuni in Lombardia.
La Lombardia è stato il vero proprio campo di sperimentazione (e in misura minore anche aree di altre regioni del Nord) del welfare affidato ad aziende non pubbliche possedute e gestite da ciellini che si sono arricchiti. Un modello che, nel minare le basi dello Stato di diritto e dello Stato sociale, ha prodotto sprechi (ingigantimenti delle richieste di prestazioni mediche e loro relative coperture finanziarie), disastri e perfino rischi per la salute dei cittadini. Come modello generale la privatizzazione sussidiaria apre la strada alle riduzioni della spesa sociale pubblica tout court.
Se guardiamo alla «altra faccia della luna» del potentato politico del centro-destra che tutt’ora gestisce regioni e molte amministrazioni ed enti pubblici del Nord – la Lega Nord – i danni materiali che il suo governo della «Padania» ha prodotto in questi ultimi vent’anni non si sono limitati a scandali più o meno noti. Quale ad es. il «cerchio magico» tra Belsito e la famiglia Bossi (l’intascamento dei soldi dello Stato da parte del tesoriere della Lega Nord Belsito e l’utilizzo per scopi personali degli stessi fondi da parte dei familiari e degli amici di Bossi, con possibili intrecci indagati dalla magistratura tra Belsito e personaggi legati alla ‘ndragheta). O il caso dei giri di tangenti tra Finmeccanica e la Lega e le presunte mazzette elargite al presidente del consiglio regionale della Lombardia Davide Boni indagate dalla magistratura. O ancora il meno noto scandalo del CrediEuronord, la banca leghista originariamente costituita per aiutare le famiglie e le piccole imprese, ma poi trasformatasi rapidamente, ad opera del suo management scelto dalla Lega, in «idrovora» dei risparmi versati dai quattromila soci. La Padania Bank ha conosciuto «disavventure» quali riciclaggio di denaro sottratto allo Stato, giri di truffe, affarismi come quello del fallimentare finanziamento al Bingo net. di Maurizio Balocchi, o infine il suo «salvataggio» strumentale da parte del banchiere bancarottiere Fiorani in vista della tentata scalata ad Antonveneta o dell’appoggio finanziario alla scalata al Corriere della sera dell’immobiliarista Ricucci. Tutte manovre fallite e arrestate dalle inchieste della magistratura che porteranno Fiorani a condanne, prima per i reati di truffa, associazione a delinquere e appropriazione indebita, e poi per aggiotaggio e ostacolo alla commissione di controllo sulle operazioni bancarie .
Le colpe imputabili alla Lega Nord non saranno nemmeno limitate ai danni arrecati per l’affaire delle «quote latte », noto anche come Black Milk: il debito dei produttori di latte in seguito alle multe affibiategli per sovraproduzione dalla comunità europea fu totalmente scaricato su tutti i contribuenti italiani sotto forma di maggiore pressione fiscale (aumento delle tasse). La prima tranche di 1 miliardo e 900 milioni di euro fu fatto pagare dalle casse dello Stato mediante l’accordo Ecofin del 1994 siglato da Tremonti. A questa prima tranche si aggiunse il grosso, in seguito al decreto del Ministero dell’Economia concordato con il Mipaaf: questo decreto dettò le regole sui modi di riscossione delle vecchie multe. Un arretrato storico di 4 miliardi di euro di cui 700 esigibili. Di tutto questo dobbiamo ringraziare il migliaio di produttori protetti dalla Lega suddivisibili tra quelli duri e puri che non vogliono pagare e che vanno avanti mediante ricorsi al Tar, e i «furbetti del latticino» che qualcosa hanno pagato ma, protetti da una filiera di rateizzazioni volute dai governi di centrodestra, continuano a rinviare il dovuto.I rimanenti 40.000 produttori e oltre, che vogliono produrre legalmente, che alle rateizzazioni hanno aderito in modo onesto, versano lacrime e sangue.
Neanche la costumanza di praticare il clientelismo, la spartizione partitocratica del potere e delle cadreghe, di collocare parenti e amici su poltrone istituzionali, che semmai non fa altro che accomunare la Lega nord ai costumi diffusi negli altri partiti, è il suo principale capo d’imputazione. Sostanzialmente sono invece due i fallimenti che possono essere considerati come le colpe gravi attribuibili al partito nordista.
1) Il fallimento politico: la Lega non ha portato a casa neanche uno degli obbiettivi che rappresentano la sua ragion d’essere: né il federalismo, né la riduzione delle imposte, né provvedimenti a favore delle piccole imprese e delle partite iva, né un miglior accesso al credito, né la semplificazione burocratica. In tante occasioni la Lega ha agito addirittura all’opposto. In quegli anni le condizioni del Paese e proprio del suo Nord sono precipitate in una crisi di sistema .
2) Il fallimento leghista di modello culturale, di convivenza civile e di prospettiva futura per i ceti produttivi del Nord: chiusura invece di apertura alla globalizzazione e alle sue opportunità, tradizionalismo invece di innovazione, sfiducia invece di investimento sul futuro, luoghi comuni invece di argomentazioni, razzismo e xenofobia invece di gestione della multiculturalità inevitabile, grande enfasi sulla microcriminalità e mancata gestione dell’emergenza dettata dalla grande criminalità che ha invaso il Nord. Il blocco di governo Polo-Lega è stato un autentico freno allo sviluppo economico, sociale, civile e culturale del Nord.
Nonostante questa cosiddetta elite, l’economia italiana sta ancora in piedi per merito del cosiddetto «Quarto capitalismo», una generazione di medi imprenditori semisconosciuti, gente che produce il 92% del valore aggiunto italiano grazie ad aziende che fatturano fra i 40 milioni e i 4 miliardi di euro, aziende che, nate da lavoro e capitali familiari, innovano, fanno ricerca e sviluppo, investono i loro denari senza appoggi politici, senza la protezione dei patti di sindacato o di relazioni preferenziali con le istituzioni bancarie. Tra questi imprenditori vi è anche la nuova generazione di imprenditori pro-legalità e anti-mafia della nuova Confindustria meridionale, uomini e donne d’imprese del Sud competitive in tutta Italia e anche all’estero. Sono rappresentanti di un capitalismo opposto a quella altra parte influente del «capitalismo senza capitale» (così battezzato dal suo ispiratore Enrico Cuccia), capitalismo familistico e vorace che utilizza scatole cinesi e abusa delle stock options, e si affida agli appoggi politici e alle protezioni presso le istituzioni bancarie. Infatti l’imprenditoria italiana, purtroppo, è fatta anche di coloro che hanno cessato d’investire da trent’anni in qua, in parte per le loro eccessive piccole dimensioni, e quindi per mancanza di autofinanziamento, in parte per la mancata innovazione del prodotto e del processo produttivo. Ne è seguita la «caduta libera» dell’occupazione e la sostituzione dell’attività di finanza borsistica all’attività industriale con ricadute sulle esportazioni e soprattutto sulla domanda interna e una crescente dipendenza dal sistema bancario.
Si potrebbe concludere l’indagine sulla questione settentrionale facendo proprie le considerazioni che il giornalista d’inchiesta Filippo Astone sviluppa nel suo splendido saggio La disfatta del nord, a cui questo articolo si è largamente ispirato: «…Ma il Nord e il Sud che si contendono queste risorse, dove si trovano realmente? Coincidono con il Settentrione e il Meridione della carta geografica oppure si tratta di riferimenti politici? Non sarà che un po’ dappertutto in Italia sono presenti un Settentrione produttore sempre chino a lavorare e un Meridione parassita e consumatore?..La questione settentrionale….si può definire come il rapporto tra quelli che producono concretamente lavoro e ricchezza e coloro che li assorbono in modo parassitario e assistito, restituendo poco o nulla ai primi».
É la celebre suddivisione posta già a suo tempo da Carlo Levi nel suo romanzo degli anni trenta L’orologio tra «Luigini» e «Contadini», per cui alla prima classe appartengono tutti coloro che possono estrarre extraprofitti illegittimi da tutte le categorie con cui intrattengono stabilmente relazioni economiche. Questo è reso possibile ai «Luigini» per la loro capacità o potere d’impedire il sorgere di legislazioni puntuali in ambiti vitali dei loro affari (la sfera dei diritti dei consumatori, degli azionisti, delle liberalizzazioni delle libere professioni, etc.), di depotenziare l’attuazione pratica delle norme esistenti in questi ambiti (norme di origine prevalentemente comunitaria) e di indirizzare culturalmente e politicamente la produzione di leggi nei campi di loro interesse ( su tutti il diritto al lavoro).
A questa prima classe appartengono tutti i «profittatori parassitari » che abbiamo passato in rassegna in precedenza (politici, amministratori, affaristi intrallazzatori, professionisti «censitari» e capitalisti speculativi in primis) .
Alla seconda categoria dei «contadini» appartengono invece i contadini veri e propri; gli operai e lavoratori dipendenti pubblici e privati; i piccoli risparmiatori e i contribuenti schiacciati oggi come non mai da una pressione fiscale enorme senza un corrispettivo adeguato in servizi , prestazioni sociali o investimenti pubblici; lavoratori autonomi e partite iva; gli imprenditori che investono capitali di loro proprietà senza protezioni, sussidi o favori di alcun genere.
Molti tra i «contadini» in passato hanno ingrossato, nelle regioni del Nord, le file degli elettori di Forza Italia e Lega nord, credendo alla loro propaganda; ora, pentiti, ravveduti e sconfortati oscillano tra l’appoggiare il Movimento Cinque Stelle (alle ultime elezioni politiche) e, nella più recente tornata elettorale delle europee, hanno manifestato un voto quasi plebiscitario per il PD del nuovo corso di Renzi, Il futuro prossimo ci dirà se la loro scelta è stata più ponderata e provvida della precedente.