Fonte: Minima Cardiniana
di Franco Cardini – 24 giugno 2019
Ancora reduci dallo shock delle amministrative e dalle europee, turbati dall’ondata di maltempo che ci ha colpiti e da quella di calura torrida che sta arrivando, assorbiti dal problema stagionale degli esami di maturità, impigliati nelle questioni del procedimento europeo d’infrazione all’Italia e già quasi presi dalle postgoldoniane “smanie per la villeggiatura” che colgono gli italiani – recessione o no – alla fine di giugno, non stiamo granché notando la nuova messinscena vicino- e mediorientale avviata dalla bufala dell’attacco iraniano alle petroliere giapponesi e norvegesi nel golfo di Ormuz (notizia data per avviare il marchingegno meditato tra Casa Bianca e Pentagono e poi precipitosamente sparita nel gorgo mistico nel e dal quale entrano ed escono di continuo le fake news ingollate e metabolizzate da tutti anche se non ci crede nessuno), noialtri cittadini di un paese pieno di sovranisti distratti ci siamo fatti passare addosso tanto il pellegrinaggio a metà giugno del vicepremier Salvini ad limina Domnaldi Aenocomati[1, ]in cerca di appoggio contro il fronte europeista a testa francotedesca e di legittimazione del nuovo sistema fiscale destinato a rubare ulteriormente ai poveri per regalare ai ricchi, quanto il complementare e sottinteso – e, stavolta, quasi esplicito – omaggio, con la scusa del Settantesimo Anniversario della NATO, all’alleanza politico-militare che ci vincola sia all’acquisto di aerei destinati a macellare chi ci sarà forse tra breve comandato di farlo, sia a ribadire e a perpetuare il giogo che ci sottopone all’Alleanza Atlantica nel momento stesso nel quale una nuova aggressione all’Iran sotto forma di un annunziato aggravarsi dell’embargo ormai quarantennale sta per essere messa a punto dal governo USA e dai suoi complici internazionali, tra cui l’Italia figura come uno dei più solleciti e volenterosi.[2]
E’ stato detto e ridetto che una società iperbombardata da dosi eccessive d’informazioni impossibili a venir verificate, ordinate e discusse e destinate a confondersi e a venir subito dimenticate è di gran lunga peggiore di una nelle quali le informazioni siano rare, insufficienti e unilaterali. Quel che sta succedendo in questi mesi è la conferma di tutto ciò. E talvolta lo scandalo di qualcosa passata sotto silenzio o subito dimenticata è peggiore di dieci fake news destinate a far molto rumore. Prendiamo la guerra-lampo Gaza-Israele scoppiata ai primi del maggio scorso: 800 razzi lanciati seguiti da decine di raids aerei, con un bilancio in due-tre giorni di 31 palestinesi e 4 israeliani uccisi. Ce n’erano di domande da porsi, di problemi da esaminare. Perché attaccare Israele, dal momento che la superiorità militare di Tsahal e la determinazione del governo Netanyahu in materia di rappresaglie è ben nota? Dovrebb’essere abbastanza chiaro ormai ai palestinesi che, qualunque cosa accada, il mondo – vale a dire le Nazioni Unite e l’opinione pubblica internazionale – non si mobiliterà mai in loro favore, a parte qualche effimera manifestazione. Ma la questione di fondo, la necessità che sia Israele (la sola che può farlo) a prendere l’iniziativa per avviare di nuovo il progetto di soluzione del problema israelo-palestinese e la ferma decisione di Netanyahu di non muoversi in tal senso e anzi d’intensificare l’impianto di nuovi insediamenti di coloni israeliani in territorio palestinese (un territorio che in pratica non esiste più), non è toccata: al massimo, la si rinvia al settembre prossimo, dopo le elezioni destinate nella sostanza a dirci se Netanyahu riuscirà a sfuggire alla sentenza dell’Alta Corte di Giustizia dalla quale è minacciato o no. Insistere sulle donazioni che giungono dal Qatar e da altre fonti arabe alla “striscia di Gaza” e che servirebbero ad Hamas a mantenere comunque il controllo sulla sovrappopolata area ch’essa dovrebbe governare nonché all’organizzazione rivale, Jihad, di acquistare armi e macchinari (come le scavatrici tedesche che consentono la realizzazione dei tunnels dall’Egitto alla “striscia”) equivale ad ingorgare le linee mediatiche d’informazioni secondarie e spesso inquinate per distorcere l’attenzione dell’ opinione pubblica dai veri problemi.
Mentre si profilano i presupposti di una stretta nella politica vicinorientale che riguarderà soprattutto l’Iran, ai danni del quale si sta profilando nelle più rosse delle ipotesi un inasprimento dell’embargo mentre Trump continua a inveire contro la sua politica vòlta al conseguimento dell’arma nucleare – un obiettivo che Teheran non solo nega formalmente, ma riguardo al quale la stessa organizzazione internazionale di controllo nucleare si è già espressa con larghezza di prove confermando le dichiarazioni del governo iraniano –, le celebrazioni per il Settantesimo della fondazione della NATO (il patto nacque nel 1949) sono state adeguatamente aperte dall’ambasciatore statunitense in Italia Lewis Eisenberg nella sede romana del Centro Studi Americani con un discorso che definire un incrocio fra un ukase e un ultimatum è dir poco. Se ai primi dell’Ottocento un pascià turco avesse tenuto un’allocuzione di questo tipo in una città armena, i maggiorenti cittadini si sarebbero andati e se ne sarebbero andati per protesta. Non risulta che nulla di analogo si sia verificato nella sede romana della conferenza, durante la quale Eisenberg ha definito la Russia “minaccia numero uno dell’Alleanza Atlantica” e ha esposto i motivi per i quali la “comunità euro-atlantica” deve ad essa fermamente opporsi. Per l’ambasciatore USA, l’Occidente è la sommatoria del continente europeo e del subcontinente nordamericano ed è minacciato anche dalla Cina. Il diplomatico ha proseguito infatti accusando di spionaggio il sistema Huawei e impegnando i partners dell’Alleanza Atlantica a contrastare il suo ruolo egemonico che, fra l’altro, comprometterebbe la produzione dei caccia F-35 ai quali l’Italia è stata costretta a prender parte. Anche l’obiettivo polemico di Eisenberg a Roma, come più tardi quello di Salvini a Washington, è stato la forma del Memorandum italo-cinese relativo al programma One Belt One Road. Le pressioni statunitensi sono comunque già riuscite a ottenere dal governo italiano lo “stralcio” dal Memorandum della parte relativa alla collaborazione nel campo delle telecomunicazioni: potremo rimediare alla gaffe di aver fatto una volta tanto di testa nostra tirandoci indietro da eventuali contratti con i cinesi che fossero in conflitto con la nostra “sicurezza nazionale”, cioè con i piani della NATO che dobbiamo accettare a scatola chiusa. Tutto ciò è pienamente coerente con quel che accadde nell’aprile del 1949, quando – dopo aver rinunziato alla “neutralità” per evitare “i rischi di un isolamento internazionale” – il governo De Gasperi, contro il parere di buona parte del parlamento italiano, riuscì ad accedere tardivamente – ma in modo di figurare come un membro dei paesi fondatori dell’Alleanza – alla firma del Patto Atlantico senza aver partecipato ai lavori preliminari della sua stesura e senza conoscerne neppure in dettaglio i contenuti. Un patto siglato senza limiti di durata, che si disse sarebbe servito solo per difenderci da aggressioni armate. Non era vero. In forza di esso, tra il marzo e il giugno del 1999, il governo italiano retto allora da Massimo D’Alema accedette alla decisione incostituzionale di far partecipare l’Italia all’operazione Allied Force contro la Jugoslavia, che procurò numerose vittime civili delle quali siamo corresponsabili. Solo Craxi, nel 1985, si oppose a un colpo di mano della NATO nel nostro paese: e sappiamo quanto gliela fecero pagare. Ora, la NATO ci obbliga a sborsare alte somme di denaro per i reattori F-35 e a prender parte a tutta una serie di azioni direttamente o indirettamente vòlte contro Russia, Iran e Cina nonché a ospitare incostituzionalmente sul nostro suolo armi nucleari impiantate in aree extraterritoriali.
Eppure, non siamo in pochi a continuar a sperare un domani nel quale si possa giungere alla costituzione di un’autentica unità federale o confederale d’Europa: un’unità politica, non soltanto economico-finanziaria come l’Unione Europea di Bruxelles e di Strasburgo. Un’Europa libera da vincoli precostituiti di schieramenti internazionali e che pertanto posso costituire una cerniera indipendente al servizio della comprensione e della collaborazione tra i popoli e gli stati. Per questa Europa – la “patria europea” auspicata da Massimo Cacciari nel suo splendido elzeviro del 19 maggio scorso su “L’Espresso”, pp. 10-14 – è necessario combattere anche se la battaglia appare oggi disperata e la vittoria tanto lontana dal ritenerne impossibile il conseguimento.
[1]Il nome inglese Donald dipende dal gaelico Domhnall, il significato del quale – ohimè – si può rendere con l’espressione “Signore del Mondo” e del quale si può proporre la traduzione latina Domnaldus; l’epiteto Aenocomatus,calco analogico sul modello Aenobarbus (“dalla barba di rame”), cognomenportato da un ramo della gens Domitia e che Svetonio, I,1, attesta usato quale soprannome di Nerone, può forse venir proposto quale traduzione latina plausibile dell’epiteto Chiomarancio che può adattarsi a Trump. Il color arancio, in effetti, è quello che più si avvicina al rame. Purtroppo, dal momento che in tedesco tale colore, nei capelli o nella barba, è detto Rotblond,non siamo con ciò lontani dall’epiteto appunto svetoniano di Enobarbus (in volgare italico “Barbarossa”) che i comuni italiani attribuivano polemicamente all’imperatore Federico I (definito così “Nuovo Nerone”) e ch’egli polemicamente e fieramente rivendicava. E’ ovvio che io mi scusi, vergognandomi per aver accostato la venerabile santa memoria del grande Svevo (e anche la pur discussa memoria di Lucio Domizio Nerone Augusto) all’inqualificabile inquilino odierno della Casa Bianca. E’ comunque carico di tragicomica ironia della storia il fatto che un tizio il quale porta all’occhiello l’effigie del ritratto di Alberto da Giussano (personaggio peraltro per fortuna mai esistito) ed è di frequente ospite a Pontida passi l’Atlantico per l’omaggio del bacio alla pantofola di un Aenocomatus, personaggio dall’epiteto che tanto ricorda quello di Aenobarbus. Vero è che, se Parigi val bene una messa, un viaggio (“di stato”) a Washington val bene il nullaosta del Boss per l’eventuale prossimo scranno di presidente del consiglio: senza il permesso della Casa Bianca – avallato e trasmesso dall’autorevole inquilino del palazzo di Via Veneto in Roma – nessuno, com’è noto, può dall’ormai lontano 1948 ambire né a Palazzo Chigi, né alla Farnesina (e forse nemmeno a qualcun’altra delle sedi romane di governo). Salvini è un sovranista: di tal fatta sono i sovranisti con i quali oggi abbiamo a che fare, e che peraltro forse pienamente ci meritiamo.
[2]Salvini non è stato ammesso al Bacio della Sacra Pantofola: in quanto vicepremier, quel che gli è spettato è stato un incontro con i suoi omologhi, il vicepresidente Mike Pence e il segretario di stato Mike Pompeo. Egli tiene evidentemente ad accreditarsi come il più sicuro gregario di Trump in Italia: e afferma di condividere le preoccupazioni statunitensi a proposito del programma One Belt One Road cinese, criticando la firma del Memorandum sulla nuova Via della Seta da parte italiana e parlando di “ingerenze da parte di un paese autoritario” sulle “nostre infrastrutture strategiche” (dove il “nostre”, riferito con ogni evidenza a quelle della NATO, è alquanto fantasioso), schierandosi apertamente per un riconoscimento italiano al fomentatore venezuelano di guerra civile Guaidó contro il presidente Maduro definito “un dittatore criminale” (questo il linguaggio adottato non già a un taovlino del Bar dello Sport, bensì in sede ufficiale, da colui che attualmente è il nostro ministro degli interni) e appoggiando la linea antieuropeista di Trump ch’egli interpreta riduttivamente come solo antifrancotedesca dimenticando che, nella questione dei dazi, siamo coinvolti e colpiti anche noi. Per quanto Salvini cerchi di prender le distanze da Trump almeno a proposito di Putin, che sarebbe meglio avvicinare che non “spingerlo tra le braccia della Cina”, la mappa dei possibili e in parte già effettivi alleati internazionali ch’egli delinea nel suo fronte trumpista-sovranista sarebbe composta per ora dal Brasile, da Israele, dalla Polonia, dall’Ungheria e prossimamente dall’Argentina.