Fonte: il fatto quotidiano
Url fonte: http://www.eddyburg.it/2018/05/il-fallimento-di-alexis-tsipras.html
di Filippomaria Pontani Il Fatto Quotidiano, 17 maggio 2018
Amaro resoconto dal luogo dove era nata la speranza di una Europa dei popoli e delle civiltà, assassinata dall’inettitudine della politica e dei politici dell’Unione europea, serva del capitalismo finanziario
«La resa – Non è rimasto nulla di quella spinta che voleva ribaltare le politiche di austerità dell’Ue, tra privatizzazioni, tagli al welfare e una nuova crisi migratoria in preparazione causata dalla Turchia di Erdogan»
All’ingresso di Lepanto (l’odierna Nàfpaktos), lo scheletro semivuoto di un grande China Mall: forse i cinesi non hanno sfondato? Ma no, i cinesi in Grecia hanno da tempo varcato le Termopili, conquistando tramite la Cosco buona parte del porto del Pireo, e investendo ovunque ingenti capitali che hanno aperto loro le stanze della politica; ormai, nel quartiere dell’omonima strada di Atene (odòs Thermopilòn), gestiscono decine di negozi all’ingrosso, fiancheggiati da ombrosi locali dalle insegne equivoche, assediati da un odore di piscio degno delle più sordide metropoli mediorientali.
Nel centro di Atene, a pochi isolati dal Museo Archeologico, è quella una zona franca piena di stranieri poveri e di edifici in rovina: tutto a due passi dalla sede di Syriza, il partito del premier Alexis Tsipras, e dagli headquarter delle Ferrovie greche e dell’Ente per l’elettricità, vittime sacrificali dell’ultima ondata di privatizzazioni. Se a qualcuno interessasse creare una coscienza europea, le gite scolastiche che sciamano a pochi metri da qui, dopo aver delibato i marmi dell’Ellade, dovrebbero venire a vedere cos’è diventato in pochi anni il cuore di una capitale, cercando il demo di Colono (dove finiva Edipo nell’omonima tragedia) tra i copertoni e gli sfasciumi di odòs Lenormant, o il demo di Acarne (reso celebre dagli Acarnesi di Aristofane) nel caos variopinto e sulfureo di odòs Acharnòn. Al numero 78 di questa via, dovrebbero visitare il City Plaza Hotel, esempio di solidarietà autogestita e abusiva che ha rifunzionalizzato un albergo in disuso come rifugio organizzato di migranti, con tanto di pasti, assistenza medica e corsi di lingua.
“Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo”, mi dice in un greco perfetto e senza un sorriso Nasim Lomani, l’afghano dell’associazione che aiuta il City Plaza. Nonostante sia concreta l’eventualità di uno sgombero della polizia, qui si va avanti come se non dovesse fermarsi mai il viavai di Nigeriani, Pakistani, Irakeni, Somali, Siriani; come se questo esperimento, che da due anni dà un tetto a 100 famiglie (tempo medio di permanenza 6 mesi, poi i più tentano la sorte per vie oscure), avesse il dovere morale di tener viva un’idea di accoglienza diversa da quella – sposata da Tsipras e dall’Ue tutta – dei campi di detenzione di Lesbo o di Salonicco, dove sono trattenuti in 14.000 (contro i 6.000 dell’anno scorso) e il ritmo dell’esame delle richieste d’asilo è di 250 al mese.
Agli studenti dei nostri licei in gita Nasim vorrebbe raccontare che a Lesbo, in piazza Saffo, poche settimane fa c’è stato un pogrom contro i migranti esasperati in fuga dal campo di Moria e i responsabili delle violenze ancora non si trovano. All’opinione pubblica europea, ormai dimentica della “rotta balcanica” sigillata pagando la Turchia, Nasim vorrebbe segnalare che da mesi il presidente turco Erdogan ha riaperto la frontiera lungo l’Ebro e allentato la vigilanza sulle coste, con il risultato che migliaia di nuovi sbarcati hanno rotto i delicati equilibri del Pireo, di Salonicco, di Samo, di Patrasso. Proprio a Patrasso – l’avamposto per chi è pronto a intrufolarsi nella stiva di una nave o nel doppio fondo di un camion per l’Italia – le recinzioni del porto sono state divelte, il centro città è bazzicato da migranti senza cibo e un murale rappresenta una colomba mitragliata mentre in lontananza oscilla un barcone strapieno. Tutto attorno prosperano le mafie dei passeur.
La Grecia è nuda e sola dinanzi ai ricatti del sultano di Ankara che da due mesi tiene in carcere due soldati dell’esercito greco catturati in Tracia con l’accusa di sconfinamento in armi – li libererà, pare, solo in cambio degli otto ufficiali golpisti dell’esercito turco che trovarono asilo ad Atene nell’estate 2016. E così la Grecia di Tsipras, nata sotto la stella dell’antimilitarismo, fa la faccia feroce con la limitrofa Repubblica di Macedonia, agogna alle fregate francesi, e investe centinaia di milioni per riparare gli F-16 difettosi venduti dagli USA.
La Grecia di Tsipras, nata per rovesciare la politica dell’Europa, si balocca ora con un’anemica crescita del Pil (+1,4%) e con un avanzo primario originato da una tassazione danese applicata a salari bulgari; tributa ovazioni di palazzo all’antico nemico, il presidente della Commissione Jean Claude Juncker, vagheggiando l’uscita dal piano dei memorandum per il 21 agosto prossimo, e pregustando un ritorno sui mercati che sarà in realtà, se va bene, una sorta di protettorato sotto l’egida del Fmi e della troika (restano da applicare 12 misure sulle 88 prescritte al governo!). I ministri, dopo aver promesso la cancellazione del debito greco (che la Germania continua a escludere), la tutela dei più deboli, la solidarietà nella crisi umanitaria, e un sussulto di dignità nazionale, si trovano nel 2018, a valle di anni di sacrifici, a imporre ulteriori tagli alle pensioni basse, a ridurre la no-tax area, a contenere l’immigrazione con la forza, e anzitutto a privatizzare porti, aeroporti, ferrovie, autostrade, cantieri navali, industrie metallurgiche, enti energetici, e quel che resta del sistema bancario.
Il nerbo del Paese è ormai in mano straniera, talché fa sorridere la pretesa del governo di applicare, all’uscita dai memorandum, un piano di sviluppo e di investimenti su realtà produttive e finanziarie che non controlla più. Altro che la visionaria modernizzazione del Paese intrapresa nella seconda metà dell’Ottocento, e in una situazione di bilancio non meno critica, dal premier Charílaos Trikupis: la casa di Trikupis, a Missolungi, sorge a pochi passi dal monumento a Byron e dal parco degli eroi dell’indipendenza del 1821. Mentre di Tsipras resterà ben poco. Perfino dalla sua bandiera, la lotta alla corruzione e all’evasione, sono arrivati non già i miliardi promessi ma pochi spiccioli, e soprattutto nessun cambiamento di mentalità: la procuratrice dell’Areopago (oggi, la Corte Suprema) denuncia senza giri di parole che ancor oggi la corruzione, figlia di un potere troppo spesso opaco e inefficiente, è pervasiva nella società e mette a repentaglio la tenuta democratica.
In questa bancarotta ideale, i cittadini disorientati hanno perso fiducia e speranza: il fallimento del radicalismo di sinistra non ha per ora spostato il pendolo verso i fascisti di Alba dorata; ma non sarà un caso se il protagonista della pièce teatrale più popolare degli ultimi anni, Seme selvaggio di Yannis Tsiros, è un venditore greco che dinanzi alla chiusura del suo baracchino abusivo sulla spiaggia (dovuta ai sospetti della polizia e alle accuse dei turisti tedeschi) promette minaccioso: “Noi dobbiamo vivere, e se la legge non ce lo permetterà, la violeremo!”.