Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 24 settembre 2014
Ieri sera sono andato a vedere ‘arance e martello’, di Diego Bianchi. Ero al Maestoso, sulla via Appia, e siccome il film era ambientato lì a due passi, sembrava che quello schermo fosse in realtà un finestra spalancata sulla vita del quartiere. Cinema verità, per certi aspetti. Un affresco di Roma vivo, popolare, multietnico. Ma anche una fotografia bella, ravvicinata di cosa fosse il PD solo tre anni fa. Sarà per questo, sarà perché vedevo rappresentata una Roma che conoscevo, popolare e appassionata, che ‘arance e martello’ mi è piaciuto davvero un sacco. Anche se, più che un fim, per certi aspetti mi è parso un documentario archeologico. A tre anni dalla sua ambientazione (il 2011) il partito di cui si parla è scomparso, volatilizzato – mentre i cantieri della Metro C sono sempre lì. È evidente a tutti come la renzizzazione abbia impresso un segno di discontinuità devastante. Altro che liquidità. Direi evaporazione. Una nube di gas dilatata, semovente e senza confini precisi, su cui, in cima, in precario equilibrio mediatico, stazionano legati a un palloncino il premier e i suoi fedelissimi collaboratori. Nel partito di Diego Bianchi, peraltro, al congresso straordinario indetto in quattro e quattr’otto, non c’è nemmeno il mitico ‘compagno della federazione’ a fare le conclusioni. Il microcosmo è perfettamente circoscritto. Ma c’è il corpo dei militanti, donne e uomini impregnati del loro quartiere, dove sono nati e dove fanno militanza. Una piccola patria? Mannò! Solo il senso di un forte radicamento del partito all’esterno. Così come all’interno, verso la propria storia, perché la sezione (pardon, il circolo) è davvero un trionfo di radici e di padri. Ci sono foto, simboli, anche una falce e un martello veri. E c’è persino la foto di Totti a un certo punto. Tant’è che il fortunato titolo del libro di Francesco Piccolo (Il desiderio di essere come TUTTI) qui potrebbe essere sopravanzato, scavalcato, superato di slancio, potremmo dire, da un estasiato e riunificante “desiderio di essere come TOTTI” che serpeggia tra tutti meno che uno, il banchista pakistano di fede laziale.
Nel film scopri che il concetto di ‘popolo’ può avere un senso politico e una realtà. E non essere l’evocazione mitica (e mistica) di un Capo. Scopri che la sinistra vive di quel popolo, di quei cittadini in carne e ossa, di quelle differenze quasi ‘carnali’ che la camera restituisce molto bene, anche in termini un po’ grotteschi. Scopri che è quello il radicamento verso l’esterno che ci vorrebbe, ma intuisci che senza un radicamento anche interno perdi connotati e magari rischi di ritrovarti pure in un partito di destra-sinistra con Berlusconi. I banchisti del mercato dentro la sezione a un certo punto si chiedono chi fossero i volti nelle fotografie appese. Ed è proprio il più giovane dei piddini a spiegarlo nell’interesse generale. Vuoi vedere che le radici si perdono anche per mera dimenticanza, e che forse basterebbe poco a rievocare un senso storico, una paternità, una filiazione, un filo rosso? Ma Diego Bianchi non si limita a raccontare, vorrebbe anche indicare un percorso. Le ‘primarie’ evocate e praticate nel film sono sì (non senza contrasti) aperte ai non iscritti, ma poi si tramutano in un congresso vero e proprio, dove si espongono (all’europea, in cinque minuti) opinioni, si dichiara il proprio voto, e poi si vota, non prima di aver fatto partecipare concretamente i votanti a una discussione pubblica. E passi che alla fine si ‘decida di non decidere’ sulla chiusura del mercato e non si prenda subito una posizione netta, e che ciò provochi la reazione sdegnata dei banchisti.
Ci sta in democrazia che serva qualche giorno in più e una certa ponderazione. ‘Lo faremo costi quel che costi’ lo può dire un cittadino inviperito e indignato (tant’è che i banchisti occupano il circolo), ma non lo può dire un uomo di Stato (a patto che lo sia davvero). Anche perché, a esito di tutte le frettolose menate di ‘una riforma al mese’ o di ‘mille giorni mille asili’, qui non s’è vista una beneamata cippa, come dicono in Francia. E meno male in taluni casi! Decidere di non decidere e pensarci tanticchia in più (per farle meglio e comunque le cose!) è sicuramente preferibile ad accelerare per non fare poi nulla, se non annunci o gragnole di hashtag. La prima è ponderazione, la seconda è una truffa. Diego Bianchi credo voglia indicarci proprio la ponderazione, purché lì al tuo fianco vi siano le persone, con i loro problemi, i loro dubbi, la loro forza, non un mero teleutente della tv o della rete. Il ‘collettivo’ è una squadra di gente reale, non di figurine Panini.