Fonte: Limes
. Per la prima volta nella sua storia unitaria, l’Italia rischia di scadere da soggetto a oggetto. Se non lo è già. Soggetto è chi partecipa a fare storia. Oggetto chi si riduce a subirla. C’è chi l’oggetto lo fa per noia, chi se lo sceglie per professione, noi italiani né l’uno né l’altro: lo facciamo per passione 1.
Siamo o non siamo il Belpaese, autocertificato da Dante e Petrarca? Titolo d’un prezioso «libro di lettura per il popolo» pubblicato con enorme successo nel 1876 dall’abate Antonio Stoppani 2. Tanto che nel 1906 Egidio Galbani, fondatore dell’omonima azienda casearia, indignato dall’arrogante dominio dei formaggi francesi sul mercato nostrano, fiero vi oppose il patriottico cacio fresco Bel Paese (o Italo), stampigliandovi sulla crosta una carta d’Italia affiancata al ritratto di Stoppani. Marchio di permanente successo, conferma della continuità nel tempo delle papille gustative nazionali, contro gli apocalittici della sostituzione etnica. Tanto da ispirare nel 1990 agli agit-prop (copyrighters) della presidenza del Consiglio una pubblicità regresso che in nome dell’Europa assegnava ai vicini continentali golose porzioni del dolce paese-formaggio «ch’Appennin parte e ’l mar circonda et l’Alpe» 3.
Quale crisma migliore per una nazione oggetto? Forse l’unica nella folta classe dei paesi a disposizione che in quanto oggetto reciti a soggetto. Fedeli a nostra antica tradizione teatrale, improvvisiamo come nessuno. Siamo geni del fuori contesto. O forse soffriamo d’una forma assai attenuata della sindrome di Clive Wearing, musicologo britannico cui un’encefalite virale indusse l’incapacità di ricordare il passato (salvo di aver moglie) e di pensare il futuro. Amnesia bilaterale profonda che impone di sopravvivere nel presente permanente. Momento per momento: «Giorno e notte per me sono la stessa cosa, il bianco. È esattamente come la morte. Non ho alcun pensiero» 4. Il bioingegnere Rodrigo Quian Quiroga, che si è appassionato al suo caso, ce lo descrive così: «Si ripete più volte, senza ricordare ciò che ha appena detto, fino a che sua moglie rientra nella stanza e lui fa un salto dal divano per abbracciarla con una passione che commuove. E ballano e si baciano come se non si fossero mai visti da anni» 5.
Vivere fuori contesto nel presente che presumiamo eterno esonera da ogni responsabilità. Ricorda qualcosa? A noi sì. Eppur non ci commuove.
2. Nel volume scorso abbiamo avviato la perlustrazione del Belpaese, nave senza nocchiero nella tempesta della transizione dall’egemonia americana a X: un’altra improbabile America o il caos della Guerra Grande, epidemia bellica in espansione.
Ripartiamo dal paradigma di Ardrey, tuttora influente nella percezione altrui del nostro piccolo mondo. Vi si bipartisce l’umanità in tipi ideali: italiani, stadio supremo delle collettività ad antagonismo interno, nucleo produttore di geni; e non italiani, nazioni che poggiano sulla pace domestica per esprimere potenza verso l’esterno 6. Un altro modo di distinguere il paese oggetto, qui negato alla competizione geopolitica, dal soggetto, sinonimo di nazione attiva.
Il modello Ardrey è stereotipo. Precipitato delle percezioni altrui che determinano il nostro rango geopolitico ben più delle italiche autodefinizioni. Stranianti quando ci proiettiamo nel mondo e scopriamo di non venir percepiti per quel che avremmo potuto pensare di essere. Come se il Belpaese ci rendesse forti e rispettati. Però siamo amati perché non pretendiamo granché dagli altri. E comunque ci adeguiamo. Così si sopporta meglio l’ingiustizia di non partecipare della competizione fra soggetti. Nostro paradigma esterno. Nel trittico che distingue potenze, satelliti e inerti, restiamo in bilico fra secondo e terzo grado. Con tendenza ad agognare quest’ultimo, fosse solo per la sindrome abbandonica diffusa fra i satelliti dal pallore improvviso del nostro Sole di riferimento 7.
Qui ci concentriamo invece sul fronte interno della partita. Sfidiamo il senso comune che ci vuole confitti in irredimibile declino. Quasi una legge della storia. Storia dispettosa, che di leggi ne rispetta una sola: il mondo cambia. L’attuale non è mai eterno. Poi, se smania di classificazione opprime, ognuno s’inventerà i suoi cicli. Abbastanza lunghi da evitare figuracce a chi li proclama. Fra gli italici difetti, manca questo. Sostituito da uno peggiore: considerare che il lungo tempo di pace ci abbia immunizzato dalla guerra.
L’oggi è fortissimamente incardinato nel passato in reinterpretazione permanente, che muta molto più velocemente del presente. Però è la chiave del futuro, per chi vuole esercitarsi su come affrontarlo. Con speranza: la dinamica geopolitica apre su evoluzioni impreviste, tristi o affascinanti che siano. Di qui l’impossibilità di interpretare linearmente traiettorie e incroci delle collettività umane. E la necessità di determinare la nostra rotta, sempre rivisitabile, considerando il nostro passato, sempre rivisitato. Se rinunciamo a conoscerci per quel che fummo, se trascuriamo i nostri vincoli interni – limiti con spiragli sul futuro, tutti da conquistare – allora sì il declino è segnato. E si svelerà brutale.
Per ironia della storia questo paese di storia stracarico – il nome della sua capitale è universale sinonimo di impero (figura) – sta perdendo memoria e coscienza del suo imponente passato, dove luci e ombre s’alternano asimmetriche. E non a causa di chissà quale grandiosa pedagogia negativa, ma per il suo speculare opposto: deculturazione di massa. Galoppante nell’Occidente in confusione, di cui due millenni fa Roma pose le fondamenta quando Ottaviano prevalse ad Azio sulla coppia Marco Antonio-Cleopatra, simbolo della potenziale virata asiatista dell’impero. Da cui la sua forma Italiae (carta a colori 1 – in apertura). Peccato che nei club geopolitici non si ammettano soci vitalizi mentre pullulano i sedicenti fondatori. Come nell’attuale loggia Occidente, a geometria molto variabile (carta 1). Tanto peggio per chi soccombe alla carenza di memoria collettiva, moda suicida.
Eppure vogliamo restare attivi, nel sentir comune sinonimo di ottimisti. Non solo perché lo dobbiamo a noi stessi. È che ci piace giocare, in omaggio a Jean Cocteau, con la tentazione di identificarci francesi di buon umore. C’è luce nel rimuovere. Torniamo al simpatico Quian Quiroga, filosofo travestito da neuroscienziato: «Io credo che dimenticare definisca l’intelligenza umana, ne sia la caratteristica essenziale» 8. Memorizzare è processo dinamico. Non sinonimo di intelligenza. Però a scuola ci insegnano che vince chi ricorda di più. Quian Quiroga si oppone: la chiave del funzionamento dell’intelligenza umana sta nel dimenticare. Processo dinamico selettivo, necessario a immaginare. Addio alla partizione fra corpo e mente di cartesiana memoria. Benvenute le «cellule concetto». Dimenticare dettagli aiuta a sviluppare pensieri concettuali, libera l’inventiva. Ricetta consigliata dal nostro ai lettori, fate come me, rinunciate allo smartphone: «Io posso permettermi di non possederne uno. Quell’oggetto uccide i momenti di noia in cui ti sembra di non far nulla, ma da cui improvvisamente scattano gli ingranaggi della mente e ne emergono idee cui non avevi pensato» 9. In slogan: o cellule o cellulari. Ci permettiamo di suggerirlo per la prossima pubblicità progresso della presidenza del Consiglio, affidata a creativi incorrotti dal fascino del Belpaese.
La neuroscienza apre frontiere stimolanti alla geopolitica. Conviene richiamare quanto Antonino Cattaneo, neuroscienziato romano, ha già descritto su queste pagine. Constatato che la memoria non è pura registrazione del passato giacché il nostro cervello è prospettico, stabilisce: «La costruzione mentale che ci porta a immaginare o simulare una scena futura si determina con i medesimi circuiti nervosi con cui ricordiamo una scena passata. (…) Una funzione essenziale della memoria consiste dunque nel fornire elementi e dettagli dal passato e di ricombinarli come mattoni per simulare e immaginare scenari futuri. (…) I nostri processi mentali sfumano dunque la distinzione fra passato e futuro, come pure la distinzione tra spazio e tempo, in un continuum spazio-temporale che trova la sua espressione massima nel sogno». Dall’attivazione di certi neuroni modificati da stimoli adeguati si derivano tracce della memoria, ovvero diverse mappe del cervello, che «sono utilizzate per costruire e codificare in modo implicito un nostro modello della realtà e del mondo» 10. Affidiamo al nostro reparto cartografico, d’intesa con l’augusto linceo, la verifica della reciproca utilità delle mappe cerebrali per la maggior gloria della neuroscienza e del nostro modesto artigianato.
Massimo Luciani, costituzionalista, critica la teoria di Pierre Nora che drastica separa memoria e storia. Intanto perché «ogni storia, per quanto sia deontologicamente tenuta a ricercare l’obiettività e la “verità”, è essa pure condizionata dalla memoria. Non solo: se storia e memoria fossero davvero così nettamente separate non si spiegherebbe il fenomeno dell’uso pubblico della storia» 11. Dove scopriamo, seguendo lo storico Nicola Gallerano, che «la storiografia è un’impresa non solo cognitiva ma anche affettiva» 12. Geopolitica allo stato puro. Immersione di memoria storicizzata nel discorso pubblico, nei suoi miti e riti.
Questo ci permette di schivare la versione fissista, dunque antiumana, del fattore umano. Affermandone l’indifferenza allo spaziotempo, ne inverte il senso. Ogni nazione confitta nel proprio destino. Tesi che recupera forse inconsciamente l’intraducibile Völkerpsychologie – riduttivo il calco «psicologia dei popoli», pessimo l’inglese «folk psychology» – elaborazione ottocentesca di germanici cervelli tardo-hegeliani, rielaborata dai nazisti in chiave razzista. Controgeopolitica per definizione. Il fattore umano esprime dinamiche collettive – abbiamo visto quanto radicate nelle individuali – cui l’analista deve porre ogni attenzione per distinguere tra le specifiche tecniche di potere che muovono collettività diverse o ne tetanizzano altre. Tipo Italia. Di oggi, non di sempre. Né si dà soggetto geopolitico che possa prescindere dal fattore umano maturato nella sua comunità. Esiste invece, eccome, la pseudopolitica che ne saccheggia pro domo sua stilemi utili a infiorare la sua recitazione. Retorica dalle foglie secche.
Da noi il fattore umano cozza contro l’individualismo o peggio il corporativismo di burocrazie, accademie, lobby di settore. Qui confessiamo una punta di scoramento. Alle descrizioni sociologiche di tanta tabe preferiamo le rivelazioni della letteratura alta. Per esempio le struggenti pagine di Anna Maria Ortese, poco riconosciuta grandissima del Novecento, dedicate al piacere di scrivere. Perché sì, siamo da due millenni abbondanti terra di letterati, talvolta votati a privilegiare lo scrivere sul leggere. L’italiano che scrive tratta la lettura da arte, da esprimere di preferenza risfogliando i libri propri. Così Ortese, che firma «Il piacere di scrivere» sull’Unità, edizione milanese, del 13 novembre 1957.
Vale citarne per esteso l’esordio, anche per il piacere di rileggerlo. E per non scrivere troppo: «Non c’è forse, dopo l’Italia, un altro Paese al mondo dove ciascun abitante abbia come massima ambizione lo scrivere, e ce n’è pochi altri dove quel che ciascuno scrive – pura smania di dilettante o regolarissima professione – scivoli, per così dire, sull’attenzione dell’altro, come la pioggia su un vetro.
Ma scivola è un’espressione indulgente: inquieta, offende, avvilisce, si vorrebbe dire. Ogni abitante-scrittore se ne sta sul suo manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella sua scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell’altro: e se quello è più colmo sono occhiatacce, lacrime… si sente parlare del tale, del tal altro che ha pubblicato o sta per pubblicare un nuovo libro. Subito, chi ha questa italianissima passione dello scrivere, o dello scrivere ha fatto il suo mestiere, si precipita a vedere di che si tratta, e in che cosa il rivale si mostri inferiore a quel che se ne dice, o si temi. Se il sospetto, la paura, si rivelano infondati, è un sollievo tinteggiato di nobile comprensione: “Un buon libro… Hai letto l’ultimo libro di T.? Certo potrebbe far meglio… L’ho sfogliato appena – e me ne dispiace – ma non ho mai tempo di leggere…» 13. Infatti scrive.
Scoraggia l’Ortese osservare come il piacere di scriversi addosso rifiuti «la costante ricerca di una verità che non sia soltanto quella della nostra pelle, ma la verità tua e mia» 14. Condivisione che feconda il nostro fattore umano, oseremmo noi. Allora «si capisce perché la nostra letteratura sia in genere un soliloquio, uno sfogo forbito oppure curioso, mai un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo. Noi scriviamo per piacere a noi stessi, nel migliore dei casi, nel peggiore, agli altri» 15. Escludiamo che la seconda parte del testo sia ossequio all’organo comunista fondato da Antonio Gramsci, o al lancio dello Sputnik, poche settimane prima. Però citiamo: «Esemplare espressione di un costume e anche di un Paese dove le lettere, nella loro generalità, non furono mai fini a sé stesse, ma modo di esprimersi di quegli interessi e passioni che, soli, fanno umana la vita dell’uomo, e proprio per questo diventano a volte altissima letteratura, è il carteggio M. Gorki-A. Cechov. (…) Ciascuno di essi sa che la propria vittoria è nulla, in un certo senso, che la lotta è comune, che la meta dell’altro è la propria verità, ma non senza la verità dell’altro, degli altri» 16. Fattore russo e sovietico.
La convocazione di neuroscienza e letteratura al fianco della geopolitica obbedisce al principio speranza cui attingiamo in questa ricerca intorno al futuro della patria. Ottimismo dell’intelligenza e della ragione. Non per contestare Gramsci. Perché ci rifiutiamo di credere che il declassamento della storia, con annessa geografia, dalla scuola primaria all’accademia alta, insomma dal pubblico discorso, sia sopportabile in eterno. Non abbiamo inventato la cultura della cancellazione, ci mancherebbe. La recepiamo per riflesso condizionato in quanto di controllata origine americana. L’oggettivazione dell’Italia comincia dal provincialismo culturale, succube di occidentalismi in salsa angloamericana, come nei suoi primi cent’anni delle sirene tedesche o francesi. La moda che liquida la storia, recepita lungo lo Stivale su impulso di una cultura transatlantica in crisi di identità, è troppo insulsa per non consentirci di confidare nel suo rigetto. Per scampare al crollo nell’inerzia infinita necessita non rassegnarsi alla deculturazione importata dal nostro protettore strategico in affanno, al quale auguriamo di guarirne.
Valga un episodio vissuto. New York, 25 marzo 2022. Limes è presente all’appuntamento di formazione al dialogo internazionale organizzato ogni anno dall’Associazione Diplomatici nell’aula dell’Assemblea Generale. Vi partecipano tremila giovani e giovanissimi provenienti da 116 paesi, al 45% italiani. Dal palco si domanda: «Chi di voi conosce il politicamente corretto?». Tutte le mani scattano in alto. «Chi di voi l’approva?». Le mani sono due. Onore al loro coraggio. Ma quanta speranza in quel moto spontaneo di ragazze e ragazzi d’ogni origine. Concentrazione di apoti: gente che non se la beve. E quanti compatrioti.
Il «voto» nel non-luogo del «parlamento» onusiano, dove per dettato originario dei padri sovietici e americani delle Nazioni Unite si parla per parlare, è raggio di luce. Di più: forse qualcuno fra i nostri giovani intuiva che l’Italia è vittima speciale del perverso innesto fra political correctness e cancel culture, coppia micidiale impegnata ad asfaltare il passato schiacciandolo sul presente, mentre i suoi fervidi interpreti woke estendono l’arte della character assassination dalla calunnia individuale alla scomunica di comunità e nazioni intere. Altro che declino dell’Occidente: tentato suicidio in diretta social.
Questa ondata d’Oltreoceano rischia di annegarci. E non solo perché nell’America scoperta dal genovese Cristoforo Colombo si abbattono i monumenti dedicati all’usurpatore dell’autoscoperta di chi già vi era insediato, e a molti altri «scorretti», capi confederati in testa (carta 2 e tabella). No, qui ci giochiamo tutto. L’Italia custodisce nel suo codice genetico la matrice latina che, recepita la superiore sorgente greca e altre ispirazioni non solo orientali, produrrà la cultura classica, cui l’elevazione dell’umanità deve qualcosa. E l’Italia la sua anima. «Assassinata» la quale nessuno ne guadagnerebbe, tantomeno i suoi killer. Il Belpaese non deve morire inghiottito dal vortice dell’antistoria. Ma può.
Scatta obbligo di reagire. La liberazione dalle strettezze del pensiero chiuso, intollerante, censorio e autocensorio, proviamo a cominciarla subito. Per non finire oggetto. E per gettare i semi che matureranno il recupero critico della storia nostra, condizione del ritorno dell’Italia al servizio geopolitico attivo. Se non ora, quando?
Cominciamo mappando il campo di battaglia. Viaggio di Colombo all’incontrario.
3. Università di Princeton, aprile 2021. Simbolo dell’Ivy League, fino allora aristocrazia incontestata dell’accademia su scala semiglobale. Il dipartimento di Studi classici comunica: «Si elimina dai nostri corsi di laurea superiore il requisito di studiare greco o latino». Motivo: «La storia del nostro dipartimento testimonia il ruolo dei Classics nel lungo arco del razzismo sistemico». Sviluppo: «Il nostro dipartimento è ospitato in un edificio dedicato a Moses Taylor Pyne, benefattore dell’Università la cui ricchezza familiare era direttamente legata alla sofferenza di schiavi impiegati nelle piantagioni cubane di zucchero. Quella stessa ricchezza consentì l’acquisto di iscrizioni romane possedute dal dipartimento, oggi installate al terzo piano della Firestone Library. A pochi metri dai nostri uffici, affacciati su Firestone, si trova una statua di John Witherspoon, schiavista e sesto presidente dell’Università, antiabolizionista inconcusso, che poggia su una pila di libri, uno dei quali esibisce il nome “Cicero”» (si apprezzino le virgolette, n.d.r.). Cassazione: «Noi condanniamo e respingiamo totalmente il razzismo che ha reso il nostro dipartimento e il nostro campo di studi inospitale per gli studiosi di colore, neri e non-neri» 17.
Il riferimento è alla polemica scatenata sul New York Times Magazine dal battagliero Dan-el Padilla Peralta, docente di colore d’origine dominicana, professore associato di Classics a Princeton, convinto che la tradizione classica sia inestricabilmente connessa alla supremazia bianca, di cui il Cicerone tra virgolette resta leader mondiale. Questa disciplina, distillata dall’Arian model che attribuisce lo sviluppo della civiltà greca all’invasione dell’Ellade da parte di popolazioni di pelle bianca calate dall’Europa settentrionale, non merita futuro. Parole d’ordine: «Risolvere immediatamente ed esponenzialmente la disparità demografica nel corpo docente di Princeton assumendo più docenti di colore. Riconoscere il lavoro invisibile che i docenti di colore sono obbligati a fare. Promuovere i docenti di colore a posizioni di primo piano». L’ultima frase chiarisce l’uso sindacal-corporativo della scienza di Peralta, peraltro desumibile dall’autobiografia, fieramente intitolata alla sua odissea da senzatetto dominicano all’Ivy League 18. Peralta sostiene che l’assunzione a Princeton gli spettava proprio in quanto nero.
Niente di troppo nuovo. La corrente decolonizzazione del classico era anticipata nel 1987 dal primo volume del trittico dedicato da Martin Bernal a Black Athena 19. Tesi che al modello ariano, concepito dal colonialismo europeo e dalle sue correnti antiebraiche, opponeva l’esaltazione delle origini afroasiatiche della civiltà di Platone e Aristotele, rinvenute nell’influsso che vi ebbero colonizzatori egizi e fenici (ceppi di colore, nell’accezione vigente). Dotta disputa. Dialettica di congetture e confutazioni, di cui fino a poco fa si sarebbe potuto godere l’eventuale lato scientifico. Oggi finita nel tritacarte antigreco e antiromano impugnato dagli araldi della storia senza passato. Opposto del presente come storia, che Luciano Canfora propone metodo per capire come il passato ci chiarisca le idee 20.
Il decreto di Princeton conferma scaduto l’approccio classico all’antichità e squaderna un Kulturkampf al cubo fra trumpiani assertori della superiorità bianca che s’impancano difensori di una monolitica civiltà occidentale compressa nello slogan «We are the West» e minoranze che antepongono l’esser tali ai criteri di merito nell’accesso allo studio e al lavoro. Sicché basano l’antirazzismo sul principio razziale e/o di genere. Boomerang che si ritorce contro di loro. Danneggia la qualità di studi fondati sull’intreccio tra filologia e storia. Riduce l’accesso che si propongono di aprire. Perché mentre contestano i criteri con cui i maschi bianchi viventi hanno consolidato nel tempo il loro modello di Classics, sviliscono senso e valore dei loro stessi studi sbianchettando a piacere il Gotha dei maschi bianchi morti. Tutti contemporanei, ovvio.
Con spericolato paradosso, il documento di Princeton avverte: «Poiché chi entra qui potrebbe non aver studiato Classics al liceo né essere stato esposto in precedenza al greco e al latino, riteniamo che avere questi studenti in dipartimento ne farà una comunità più vibrante» 21. Il suprematista bianco “Aristotele” si agita nella tomba contro le apocrife virgolette, implicite o esplicite, estese a tutti i classici da decolonizzare. Pare intenda denunciare Princeton per il reato di cancellazione del principio di non contraddizione. Ma l’abolizione fisica dello spaziotempo, conseguenza logica della cancel culture, parrebbe inattuale.
La brillante ricostruzione di Francesca Lamberti, romanista – intesa studiosa del diritto romano – le cui analisi ci orientano in questa ricerca, studia anche i riflessi dell’ultra-woke su Italia e resto d’Europa 22. Bilancio provvisorio, prodromo di tempeste a venire. Il contesto europeo sembra contenere a fatica l’arrembaggio anticlassico stile americano, pur a costo di gravi perdite. Per esempio il boicottaggio delle Supplici di Eschilo nell’anfiteatro Richelieu della Sorbona (marzo 2019) perché militanti del politicamente corretto non gradivano il colore nero dunque razzista delle maschere indossate dalle Danaidi, uso corrente per gli attori del teatro greco. Antico.
In Italia s’accumulano venti di tempesta. I numeri disegnano il calante fascino del liceo classico e dei curriculum umanistici in accademia. Specialmente al Sud. È aritmetico che restringendo l’offerta didattica si riduca l’entusiasmo dei discenti, destinato nel tempo a contribuire all’ulteriore deculturazione. E gli studenti alla disoccupazione.
Sono passati alcuni decenni da quando lo spettro di Ettore Paratore terrorizzava i discenti di Lettere all’Università di Roma. Non c’era bisogno di invitare le matricole ad approfondire nell’ordine lettura e scrittura della lingua di Cicerone (inconcepibili le virgolette), stabilito che avessero cominciato a leggerla e scriverla sul serio nelle scuole dedicate. Nella virtuale Ivy League mondiale della formazione classica, linguistica, filosofica o archeologica, l’Italia svettava, l’italiano era lingua franca. Aiutava (aiuta?) il fatto di giocare in casa. L’alta qualità media degli studi classici negli omonimi licei era dovuta a insegnanti che in molti altri paesi sarebbero stati ammessi al rango universitario, ma che qui respiravano l’aria di quella storia come realtà vivente. Oggi qualsiasi testo greco o latino è a portata di traduttore automatico. La tecnologia arriva dove nemmeno il woke. Analoga funzione svolge il timore di scomodare i giovani che risolvono il diritto allo studio nella pretesa di non essere stressati con argomenti difficili. Per di più inutili.
L’assalto agli studi umanistici ha valore strategico per l’Italia. Ne minaccia il marchio storico. Attaccato frontalmente dal tristo utilitarismo per cui con la cultura classica non si mangia, più subdolamente da chi spesso in buona fede (pessima notizia) è convinto che sbarazzando il campo da greci e romani in nome della promozione di gruppi etnici oppressi prepariamo la rivincita del «Sud Globale» sull’Occidente. In senso culturale, non geopolitico. Civiltà di cui i nostri antichi sono riconosciuta origine, almeno finché Roma resta in Italia.
4. Nel festival delle narrazioni contrapposte che rende interminabili le guerre, la nostra patria visceralmente paciosa rischia di sbandare. E intanto sbandarsi. Se l’autonomia differenziata per le Regioni diventasse legge – forma che nel regime nostrano non significa norma chiara e cogente – se ne scatenerebbe il mercato delle interpretazioni pelose, ciascuno per la sua piccola causa. Café para todos, nella metafora autonomistica diffusa in Spagna. Ogni Regione potrebbe produrre il suo caffè corretto: la storia come storie, filastrocche da recitare magari nella lingua/dialetto locale. Litanie da campanile.
Vorremmo esplorare il percorso opposto. È tempo di riconnettere negli studi e nel senso comune i fili della storia patria alle sue origini, impossibile senza riconoscerne le tracce profonde nell’universalismo greco-romano. Nella sua ineguagliata produzione culturale. Dovremmo vergognarcene?
Ripartiamo da Cavour: «In un popolo che non può essere fiero della sua nazionalità, il sentimento della dignità personale esisterà solo come eccezione in pochi individui privilegiati» 23. E dal suo biografo massimo, Rosario Romeo, che quasi un secolo e mezzo dopo statuiva: «Un paese idealmente separato dal proprio passato è un paese in crisi di identità e dunque potenzialmente disponibile, senza valori da cui trarre ispirazione e senza quel sentimento di fiducia in sé stesso che nasce dalla coscienza di uno svolgimento coerente in cui il passato si pone come premessa e garanzia del futuro» 24.
Ora, non siamo popolo di apolidi. Né figli di ignoti. Ma siamo indotti a credere di poggiare su radici corte. Avventizie. Dalle quali può derivare rapsodico adattamento alla necessità dell’agire comune in emergenze esistenziali – ultimo venne il Covid. Come l’edera incapace di reggersi da sola, il nostro sentimento nazionale ha andatura da rampicante in cerca di appigli. I famosi vincoli esterni.
Nulla di straordinario. Come tutti, siamo ragni impigliati nella tela planetaria che connette e sconnette potenze e impotenze. Rete a corrente alternata. In breve, siamo e resteremo nella storia universale, ma molto peggio di quanto potremmo se non ci fossimo amputati base e consapevolezza della nostra identità. Per starci bene, occorre ricomporre i tasselli del nostro mosaico identitario. Solo la storia ci aiuterà a riattivare la memoria che stringe i cittadini in nazione, senza pretendere di smacchiarne le tracce nere. Anzi, urge affrontarla in piena libertà. Per scoprire che più di qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure. L’Italia, appunto.
Nella battaglia della cultura storica l’obiettivo è ricontestualizzare. Alfa e omega della geopolitica. Ma anche imperativo morale, seguendo il monito di Cavour. Perché la condivisione della storia patria ne impedisce il sequestro da parte dei ceti prevalenti, che si beano nella presunta autosufficienza senza considerare che sarà precaria finché non coinvolgerà un sentimento diffuso inconcepibile se prodotto da un’élite minima, strumento di una sola classe. In confusione.
Il conte fondatore e il suo moderno studioso erano entrambi liberali, convinti che libertà e nazione siano condizione l’una dell’altra. Quel liberalismo ha fatto una brutta fine, anche per la deriva declaratoria, ormai insita in qualsiasi idea politica che voglia stare sul mercato. La dannazione della retorica nostrana allarga la distanza fra i nomi e le cose. Per ridurla serve l’esercizio della storia. Come disciplina, anzitutto. Poi quale collante identitario, dunque sociale, in grado di resistere all’usura del tempo.
Questo compito invita ad affrontare il tema che ci ha reso tristemente celebri nel mondo e che soggetti esterni rispolverano per stabilirsi a noi moralmente superiori: il fascismo. Che posto può avere il Ventennio nella vicenda nazionale, anno centosessantreesimo dell’èra unitaria? Qui si salta questo colosso di Rodi oppure si rinuncia a ogni progetto pedagogico.
5. Il 27 ottobre 1923, vigilia del primo anniversario della marcia su Roma, esce sul Giornale d’Italia un’intervista a Benedetto Croce. Titolo: «Tenere fede al liberalismo e aiutare cordialmente il fascismo» 25. Dopo Cavour e Romeo, citare questo grande liberale di terzo tipo suggerisce una diagnosi generale e una specifica: mai prendere troppo sul serio le ideologie, la storia le eccede sempre; tanto meno le «rivoluzioni», come quella fascista, in cui il passato da abolire dispettoso rispunta anche se lo prendi a manganellate.
Dobbiamo a Sabino Cassese la sintesi delle persistenze nel nostro Stato: «Come c’è continuità tra lo Stato liberale-autoritario del prefascismo, c’è continuità tra lo Stato del periodo fascista e lo Stato democratico post-fascista» 26. Per lui «il fascismo dura fino al 1962» 27. In certi settori dello Stato profondo molto di più. Ma allora perché dalla microstoria che quantifica le permanenze nella traiettoria dello Stato unitario non scaturisce un’interpretazione d’insieme della parabola italiana? Forse ne è causa l’antico deficit di base nazionale condivisa dalle forze politiche, escluse le attuali perché politiche non sono e nemmeno forze. Gli immangiabili avanzi dei partiti, ciascuno con la sua infima Bibbia, si contrappongono nel vuoto di cittadinanza, mentre lo Stato si appesantisce. Faceva eccezione la Prima Repubblica, deprecata partitocrazia che surrogava carismi e funzioni istituzionali grazie allo status di semiprotettorato americano. Preambolo geopolitico non scritto della costituzione materiale, prius logico e fattuale della Carta vigente. Quanto al Partito nazionale fascista è stato subordinato al fascismo regime, lo Stato di Mussolini. Dalle sue fibre sclerotizzate come dalle associazioni collaterali e del welfare littorio, si dirameranno infatti, dopo il 25 luglio, molti tra i futuri esponenti della classe politica post-fascista. Mentre le tecnocrazie dello Stato profondo migravano da un regime all’altro restando al loro posto, il collo più mobile della mente.
Nulla di eccezionale se comparato al resto d’Europa. Nella Germania spartita Adenauer riciclava nazisti a manovella perché non aveva altro materiale umano cui affidare il suo paese dimidiato e rieducato a stelle e strisce, mentre all’Est Mosca imponeva schemi e vertici alla sua repubblichetta, vincolo «esterno» agli steroidi: dittatura è dettatura. Nella Francia gollista calava il sipario su Vichy, complice il tabù imposto dalla monarchia repubblicana al sistema educativo, sofferto persino da una storiografia altrimenti così ricca. In Inghilterra le fondate chiacchiere sulle simpatie naziste della molto germanica famiglia reale, forse estinte con Filippo, raramente valicavano le caffetterie di Oxbridge e i pettegoli club della City.
Nell’Italia antifascista a struttura post-fascista, finalmente sorgeva negli anni Sessanta-Settanta il primo laboratorio accademico dedicato a studiare il fascismo con metodo storico. Cenacolo universitario romano guidato dall’ex comunista Renzo De Felice, che studiando il fascismo con la distanza necessaria, ne produsse un’interpretazione troppo originale. Bollata provocatoria, anzi apologetica, dal perbenismo non solo di sinistra. Libertà di tanatologo, posto che il «fascismo storico – come si è attuato dal 1919 al 1945 – è morto, ed è irresuscitabile. (…) E proprio per questo è possibile studiarlo storicamente, con un metodo e una mentalità da storici» 28. I suoi contestatori, non solo comunisti, a ogni seriale uscita dei volumi dedicati alla biografia di Mussolini gli rinnovavano l’accusa di simpatizzare per il Duce, di travestire da storia un monumento al dittatore. Oggi finirebbe a urlacci e schiaffoni nei talk show.
Se dovessimo scegliere un prototipo di dibattito pubblico sul fascismo da cui rilanciare una pacata pedagogia nazionale, suggeriremmo di inserire nei curriculum scolastici e universitari il dialogo televisivo fra De Felice e il suo molto critico collega britannico Denis Mack Smith proposto dalla Rai nel 1976 29. Dove ciascuno contesta le tesi dell’altro, ma solo dopo averlo ascoltato. E magari recepito questo o quell’aspetto della sua versione. Sicché lo spettatore si forma un giudizio avendo capito le tesi dei duellanti.
Nel confronto fra i due storici si esprime l’arte dello storicizzare, fedele alla definizione del dizionario Sabatini-Coletti: «Considerare qualcosa frutto di un processo storico». Processo significa revisione permanente. Eppure perseveriamo nel rialzare e rifucilare all’infinito i morti «cattivi» per santificare i «buoni» nell’eterno presente. Per qualche like in più.
In verità, il primo grande storicizzatore del fascismo era stato Palmiro Togliatti (foto) nel «corso sugli avversari» (fascisti, socialdemocratici, massimalisti e repubblicani, anarchici) professato a Mosca nel 1935 davanti a una platea di militanti e dirigenti non solo italiani 30. Storia in diretta. Con linguaggio piano scandito per farsi capire dall’ultimo operaio o contadino. Seguendo il metodo dell’analisi differenziata, che scarta le false analogie e avverte contro le trasposizioni meccaniche dell’etichetta fascista ad altri regimi – ciò che non impedirà ai comunisti di attingere alla categoria di nazifascismo, quasi-ossimoro da propaganda, euristicamente sterile. Il miglior modo per non capir nulla dell’uno e dell’altro. De Felice riconoscerà il debito verso Togliatti, che studiando il rapporto Mussolini-masse e l’irradiamento del regime nella società anticipava la defeliciana tesi del consenso, indigeribile per gran parte dell’accademia e impronunciabile nel gergo tardo-resistenziale che sminuendo il nemico sviliva l’eroismo dei partigiani. Fino a compiacersi di osservare come nessuno dei suoi critici, tantomeno comunisti, avesse mai citato il Migliore.
Da Togliatti ricaviamo una traccia utile a intendere quanto difficile sia stato per Mussolini convincere gli italiani della bontà del suo nazionalismo guerrafondaio. E come per noi sia arduo maturare una pedagogia nazionale. Siamo paese di cultura universalista, figlia di universalismi diversi, ciascuno dotato di formidabile profondità ed elaborazione storica. Parlando a Mosca il 26 novembre 1943, il capo in esilio dei comunisti italiani spiegava: «Il fascismo, nonostante tutti i suoi sforzi, non riuscì a penetrare nel fondo dell’anima popolare ed a corromperla. Si urtò con tradizioni profonde, legate a tutto lo sviluppo della civiltà italiana. Tutte le volte che i popoli abitanti l’Italia riuscirono a dispiegare le loro volontà, le idee che essi affermarono furono di portata universale, e non ristrettamente, egoisticamente nazionali». Dalla civiltà di Roma, «capace di assimilare, fondere e trasmettere tutti gli elementi della cultura del mondo antico» (a Princeton Togliatti finirebbe in castigo, n.d.r.) alla civiltà cattolica, dai geni del Rinascimento ai «profeti dell’Unità d’Italia, Mazzini e Garibaldi», che «non seppero concepire la rinascita nazionale del paese se non come uno dei momenti della lotta per l’indipendenza di tutte le nazioni». Per culminare nell’internazionalismo del movimento socialista 31.
Togliatti apre una prospettiva da considerare: fare dello spirito universalista il profilo della nazione. Al quale adattare l’interesse nazionale, per declinarlo nella geopolitica che di analisi differenziata vive. Come mostrano gli esempi citati scarrellando per duemila anni da Augusto a Turati, non abbiamo alternative al respirare a polmoni alternati. Meccanicamente assurdo quanto dialetticamente potente. A meno di non buttare nel cestino tutta la nostra storia e trascorrere, ombre di esiliati, un mondo che non ci riconosce.
E se invece De Felice si fosse sbagliato? Se il fascismo non fosse affatto morto? Parrebbe così, a giudicare da quanto la patente di fascista circoli per bollare questo o quel regime autoritario e bellicoso. Davvero aiuta gettare nello stesso calderone Trump e Mussolini, Putin e Hitler, Le Pen e Codreanu? Non crediamo. Specialmente misurando le radicali differenze tra fascismo italiano e nazionalsocialismo tedesco.
Insomma sì, il fascismo storico è stramorto. Ma qua e là riaffiorano certi suoi «stilemi» – peraltro non esclusivi: dalla demonizzazione dell’avversario alla guerra igiene del mondo, dalla militarizzazione delle masse con sprezzo del ridicolo al culto dell’istinto, postulato superiore alla ragione. Su tutti, il darwinismo sociale: la vita è lotta e chi sopravvive ha ragione. Veleno tuttora diffuso, almeno quanto lo era in Europa prima che i nazisti se ne impadronissero.
De Felice preconizzava che un «fascismo» rinnovato sarebbe molto peggiore dell’originale: «Un nichilismo assoluto, un rifiuto totale di quello che è l’attuale civiltà, una negazione che coinvolgerebbe tutto e che perciò assumerebbe l’aspetto del peggior nazismo» 32. Parole di mezzo secolo fa. Ma echeggiano sinistre nel contesto bellico che ci avvolge dall’Oriente europeo al Medioceano. Senza guerra niente fascismo. Appunto: senza guerra.
Ma in guerra siamo. Cerchiamo di non completare l’equazione.
6. Stiamo scivolando dalla guerra in Europa alla guerra europea. Sicché i costi del conflitto ucraino che gli americani non vogliono né possono sostenere di qui all’eternità vanno ripartiti fra gli alleati disponibili. Washington invita europei e canadesi a stringere con Kiev accordi bilaterali più o meno impegnativi di sostegno finanziario, diplomatico e militare. Scadenza decennale, rinnovabile. Intese a geometria variabile, stipulate al volo o in corso d’opera. Dovrebbero coprire tutte le fasi della vittoria, o di qualcosa battezzabile tale: dall’armare la resistenza sul terreno volta a riconquistare le province cadute in mano russa alla futura ricostruzione dell’Ucraina integrata nell’Unione Europea. Ma nei magazzini dei Ventisette di armi ne restano poche e non tutti fremono dalla voglia di cederle a Kiev. Quanto ai soldi, misurabili nelle centinaia di miliardi, non è chiaro da quale sorgente magica sgorgheranno. Propaganda più che sostanza, specie nel nostro caso (vedi schede di Mirko Mussetti). Attenzione però: se la propaganda poggia sul nulla, o peggio sul travisamento della realtà, la tentazione di trarne una strategia operativa potrebbe prevalere sulla ragione fredda e spingerci inavvertitamente alla guerra totale.
Il cessate-il-fuoco cui parte degli apparati americani ed europei inclina e che la maggioranza delle opinioni pubbliche continentali, italiana inclusa, vorrebbe subito (grafici 1-3), è impraticabile perché sanzionerebbe la vittoria russa. O peggio preparerebbe la seconda ondata dell’aggressione, nei tempi scelti da Putin o dal suo successore. Almeno così temono i dirigenti ucraini e l’avanguardia antirussa della Nato, convinti che il Cremlino si lancerà alla riconquista dell’ex impero europeo dell’Urss. Ipotesi ardita, visto che scatenerebbe la guerra atomica. Il Cremlino non è club di suicidi.
La virata tattica elaborata dalla Casa Bianca e accettata più o meno convintamente dai governi atlantici serve anche a mascherare le profonde faglie che dividono la nostra alleanza. Incompatibili, fra l’altro, con la visione occidentale che designa la guerra d’Ucraina epicentro del nuovo ordine bipolare in costruzione: Est autocratico (Russia, Cina e seguaci) contro Ovest democratico, con i pluriallineati del cosiddetto «Sud Globale» invitati a optare per noi – ma refrattari. Opzione rigettata da India, Brasile, Sudafrica, altri Brics e dintorni. Ma anche dalla Turchia, con un piede atlantico l’altro «globale» e orecchi non sordi alle sirene russe e siniche, disposta a rischiare di inciampare su sé stessa pur di accelerare la scalata neoimperiale (carta 3).
Lo slogan «mondo libero contro dittature», recuperato dalle cantine della guerra fredda, eccita la controretorica del Citrus, sigla con cui l’Università di Oxford introduce lo stranissimo quartetto Cina-India-Turchia-Russia. Il 77% dei cinesi è convinto che la «vera democrazia» sia la propria, come il 57% degli indiani, il 36% dei turchi, ma appena il 20% dei russi, quasi pari alla quota di chi preferisce la democrazia americana (18%). I moscoviti in guerra contro l’Occidente sono più filo-americani degli atlantici turchi, mentre gli indiani correttamente fanno gli indiani 33.
E noi facciamo gli italiani. Le quindici pagine dell’accordo sulla cooperazione di sicurezza fra Italia e Ucraina ondeggiano fra vacuità e ambiguità. E non ci impegnano a nulla, perché altrimenti sarebbero dovute passare al vaglio del parlamento – tabù nell’autoproclamata repubblica parlamentare. Continuiamo a fare «politica» invece di geopolitica. Per «politica», accento sulle virgolette, s’intende il teatrino provinciale cui ci siamo accomodati dalla fine della Prima Repubblica in avanti, con progressione geometrica. La sceneggiata è come la droga: più ne prendi più ne dipendi. Della politica manca l’ingrediente base: culture politiche in competizione organizzate in partiti radicati nella società e usi di mondo. Quanto alla geopolitica, senza politica è impossibile, se non come gioco da tavolo. Senza dibattito pubblico qualche ragionamento geopolitico può esprimersi al massimo negli apparati dell’intelligenza e della forza. Per restarci. Lo Stato profondo suppone lo Stato, mai virgolettabile, sicché anche gli esercizi dei tecnici tendono al futile. Questa repubblica ad amministrazione disaggregata diagnosticata da Cassese, ridotta ad arcipelago, «mal si presta a eseguire direttive altrui e a elaborare procedure proprie» 34.
La propaganda è il sale della guerra, assicurano i propagandisti. Non concordiamo. Ma seppur fosse vero, quando l’incendio ti circonda e già lambisce le pareti di casa hai l’obbligo di dire la verità almeno a te stesso e ai tuoi. E di non credere alle balle che racconti per consumo esterno o per confondere il nemico, confondendoti. Salvo scoprirti sonnambulo alle soglie della terza guerra mondiale.
Noi europei non siamo pronti alla guerra ultima. In realtà non lo è nessuno. Tantomeno gli abitanti del continente più ricco, vecchio, disarmato, pacioso. E fra i veterocontinentali gli italiani meno di tutti. Del bellicismo futurista da salotto che apparecchiò la tavola all’intervento nella Grande guerra resta il salotto. Le rodomontate del Duce contro le «plutocrazie democratiche e reazionarie» ci hanno almeno aiutato a perdere dalla parte giusta. Se slittassimo dalla guerra in Europa alla europea, a quel punto automaticamente mondiale, potremmo solo scegliere se arrenderci subito (a chi?) o scandire il conto alla rovescia dei giorni che ci resterebbero da condividere con altri umani.
In caso di guerra fuori tutto le faglie atlantiche volgerebbero in trinceramenti contrapposti. Intanto, noi italiani stiamo già perdendo più dei consoci/competitori – tedeschi esclusi – perché le nostre debolezze strutturali ne sono specialmente minacciate. Per esempio sul decisivo fronte medioceanico (carta a colori 2). La guerra Israele-Ḥamās-ḥūṯī – di fatto Occidente contro Iran – scombina le rotte commerciali Italia-Medio Oriente-Asia Estrema passanti per Suez e Bāb al-Mandab. Lo si scopre a occhio nudo seguendo con un dito la rotta medioceanica da Trieste verso l’Indo-Pacifico, che lambisce o attraversa (Mar Rosso) i fronti della Guerra Grande (carta a colori 3). Uno sguardo d’insieme alla ripartizione delle nostre missioni navali nel Mediterraneo allargato – gergo militare per Medioceano – ci rassicura abbastanza sulla concentrazione della Marina nelle acque per noi critiche (carta a colori 4). Fin qui l’aspetto securitario. Ma se osserviamo lo stesso spazio in termini geoeconomici, cogliamo i segni di una possibile ristrutturazione dei traffici marittimi che ci colpirebbe al cuore. Il periplo dell’Africa cui gli ḥūṯī costringono i supercontainer non si riduce a prolungarne il viaggio verso Rotterdam e cugini del Northern Range. Esalta il bivio di Gibilterra. Qui navi un tempo dirette ai nostri porti, specie Gioia Tauro (infiltrato dalla ’ndrangheta), invece che proseguire verso Olanda e Germania cominciano a scaricare e caricare ad Algeciras o Tanger Med, sponde spagnola e marocchina dello Stretto. Sommiamo questa tendenza alla non troppo futuribile (guerra permettendo) rotta artica, percorso più rapido per collegare Cina e Giappone a Europa settentrionale e America atlantica, che declasserebbe il Medioceano. Se i due bracci della tenaglia che stringono il mare di casa si congiungessero a Gibilterra, saremmo spacciati.
Proviamo a studiare lo stesso spazio con occhi americani. Che cosa vedrebbero gli apparati a stelle e strisce nella doppia erosione geoeconomica del Medioceano, da sud e da nord? A un primo sguardo forse nulla, tanto sono concentrati altrove. Poi però, congiungendo sulla mappa punti e frecce, scoprirebbero che in tanta distrazione si sta profilando un attacco strategico di Cina e Russia all’impero europeo dell’America, che nel nostro mare ha il baricentro. I russi controllano la rotta artica, ma i cinesi si apprestano ad affiancarli, forse a superarli (carta a colori 5). Pechino persegue da tempo la via marittima della seta, che penetra il Medioceano con la bandiera del commercio. Mosca ne ripercorre alcuni tratti, a stendardo di battaglia spiegato, per bilanciare la pressione della Nato artico-baltica.
Somma algebrica dei punti di vista italiano e americano: esiste una obiettiva convergenza di interessi sulla quale far leva per evitare il nostro declassamento a oggetto. Per assumere le responsabilità che ci sconsigliano di delegare la difesa della patria agli atlantici con testa a nord-est (perché mai dovrebbero aiutarci?), mentre potrebbero indurci a stringere un accordo bilaterale speciale con gli Stati Uniti. Decisamente più utile e concreto del prestampato siglato da Meloni e Zelens’kyj. Ricostituente per la nostra pressoché nulla deterrenza, onde anticipare guerre da cui saremmo sopraffatti.
Sondati sul tema alcuni amici americani, scopriamo aperture fino a ieri impensabili sulla collaborazione in aree di nostro interesse assoluto, per loro meno secondarie di quanto immaginassero (vedi l’articolo di Federico Petroni alle pp. 233-243 e la carta a colori 6). Scambio ineguale, certo. Meglio dell’isolamento totale. E possibile motore di intese ad hoc con altri Stati Nato. Su tutti Francia e Turchia.
7. In questo volume trattiamo le nostre fragilità strutturali e proponiamo idee su come affrontarle: dalla demografia all’istruzione, dalle mafie alle migrazioni (carte a colori 7 e 8), cui si aggiungerebbe l’autonomia differenziata, proposta da un governo capeggiato da chi nel 2014 aveva proposto una legge specularmente opposta. Alcune Regioni muterebbero in staterelli neofeudali, svuotando quel che resta dello Stato unitario (carta 4) e sancendo il distacco finale fra Nord e Sud.
Ammesso che cominciassimo a sciogliere davvero qualcuno di questi nodi, Guerra Grande ci lascerà il tempo per farlo? Forse no. Ma non è alibi per l’inerzia. Invece di precipitare verso la guerra allargata, potremmo contribuire a una tregua illimitata in Ucraina, premessa della futura pace, che di riflesso sarebbe anche nostra. Dalla voragine in cui è precipitata, l’opinione pubblica ucraina si divide su se e quanto le convenga continuare nella guerra per procura in nome di un successo totale possibile solo ove la Russia sprofondasse nel caos o sparisse dalla faccia della Terra. Ciò che non lascerebbe immune nessuno, a partire da coloro che se l’augurano. Mentre il licenziamento da parte di Zelens’kyj del capo delle Forze armate, il popolare generale Zalužnyj, sostituito da un russo etnico ex soldato dell’Armata Rossa (sì, questa è anche una guerra civile post-sovietica), annuncia che a Kiev è riaperta la stagione della caccia al potere. Come non chiedersi chi gestirà gli aiuti che invieremo agli ucraini? Domanda accompagnata dall’inconfessabile senso di colpa di quegli occidentali che stanno perdendo la voglia di sostenerne la resistenza dopo averli eretti a combattenti per la nostra causa (non chiarissima). Però senza di noi, troppo preziosi a noi stessi. Vi armiamo finché possiamo e voi morite per noi finché potete.
C’è ancora spazio per una morale pratica, guida di una strategia razionale? Crediamo di sì, anche nel nostro carissimo Belpaese.
Però forse ci illudiamo. La nube delle propagande incrociate ci ha intossicato. Solo la letteratura ci salverà. Nel suo strepitoso Nessuno imbraccia i fucili, Sandra Lucbert illumina lo scontro fra «lingua generale», fanaticamente coltivata dalle istituzioni, e ciò che dentro di noi vi resiste e produce una cacofonia interiore 35. Spaesamento che dalla parola si trasferisce allo sguardo e rende invisibile il mondo per eccesso di presenza. Contravveleno di Lucbert: montiamo un apparecchio ottico per vedere in prosa. «Al modo degli oculisti, il trattamento in prosa non è sempre piacevole. Quando è terminato, il tecnico ci dice: ora guardate. Ed ecco che il mondo ci appare interamente diverso dal precedente, ma perfettamente chiaro» 36. Ma questo era Proust.
Note:
1. Licenza di plagio da «Bocca di rosa» che ci concediamo in riconoscente memoria di Fabrizio De André.
2. A. Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali e la geologia e la geografia fisica d’Italia, Milano 1876, Casa editrice L. F. Cogliati. Reca in copertina la splendida coppia Italia-Galbani, geo-artistica invenzione di Egidio Galbani per decorare il suo buon formaggio. Fra le ristampe recenti: Santarcangelo di Romagna, 2018, edizioni Theoria. Per i nessi elvetici del volume, cfr. P. Redondi, «Le ascendenze svizzere di un libro diventato best seller», Il Cantonetto, n. 56, fascicolo 24, 2014, pp. 123-132.
3. F. Petrarca, Canzoniere, CXLVI.
4. Cfr. R. Quian Quiroga, Borges e la memoria. Viaggio nel cervello umano da Funes al neurone Jennifer Aniston, Trento 2018, Edizioni Centro Studi Erikson, p. 121.
5. Ibidem.
6. R. Ardrey, The Territorial Imperative. A Personal Inquiry into the Animal Origins of Property and Nations, Cambridge (Massachusetts) 1996, Athenaeum. In particolare le pagine 152-154. Cfr. l’editoriale «Cronache dal Lago Vittoria», Limes, 1/2024, «Stiamo perdendo la guerra», pp. 9-12.
7. Cfr. l’editoriale «Non moriremo guardiani di spiaggia», Limes, 10/2020, «L’Italia è il mare», pp. 7-33.
8. J. Mouzo, «Rodrigo Quian Quiroga, neuroscientist: “Forgetting is the essential trait of intelligence”», intervista pubblicata l’8/2/2024, elpais.com
9. Ibidem.
10. A. Cattaneo, «Ricordare il passato per immaginare il futuro: il cervello prospettico», Limes, 10/2021, «La riscoperta del futuro», pp. 65-73.
11. M. Luciani, «Itinerari costituzionali della memoria», Rivista Aic, Associazione italiana dei costituzionalisti, 4/2022, pp. 80-126.
12. N. Gallerano, «Storia e uso pubblico della storia», in Id. (a cura di), L’uso pubblico della storia, Milano 1995, Angeli, pp. 7-15.
13. A.M. Ortese, «Il piacere di scrivere», in ID., Da Moby Dick all’Orsa Bianca. Scritti sulla letteratura e sull’arte, Milano 2011, Adelphi, pp. 74-82. Qui pp. 74 s.
14. Ivi, p. 76.
15. Ivi, pp. 76 s.
16. Ivi, pp. 77, 79.
17. C. Spike, «Curriculum Changed to Add Flexibility, Race and Identity Track», Princeton Alumni Weekly, edizione del maggio 2021.
18. D. Padilla Peralta, Undocumented: A Dominican Boy’s Odissey from a Homeless Shelter to the Ivy League, New York (NY) 2016, Penguin Random House.
19. Nell’ordine, tutti dovuti alla penna di M. Bernal, si tratta di Black Athena: The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, New Brunswick (NJ) 1987, Vintage; Black Athena: The Afroasiatic Roots of Classical Civilization, 2: The Archaelogical and Documentary Evidence, New Brunswick (NJ) 1991, Vintage; «Afterword», in B. e D. Orrells, G.K. Bambra, T. Royon (a cura di), African Athena: New agendas, Oxford 2011, Oxford University Press, pp. 398-417. Per una ritmica versione musicale, si ascolti Black Athena degli Almamegretta, che statuita la negritudine dei nostri nonni cantano: «A casa mia ca è accuminciata ’a storia, rinfriscate ’a memoria (…) Look back look back, Athena was black if you look back».
20. L. Canfora, Il presente come storia. Perché il passato ci chiarisce le idee, Milano 2014, Rizzoli.
21. Cfr. nota 17.
22. F. Lamberti, «All’arrembaggio del “classico”. Riflessioni su “Politically Correct” e “Cancel Culture”», Codex, 4/2023, pp. 205-224.
23. C. Benso conte di Cavour, «Des chemins de fer en Italie», Revue Nouvelle, 1/5/1846.
24. R. Romeo, «I figli di ignoti», il Giornale, 22/3/1975. Si legga al riguardo il saggio di D. Cofrancesco, «La lezione di Tocqueville», huffingtonpost.it
25. B. Croce, «Tenere fede al liberalismo e aiutare cordialmente il fascismo», intervista concessa a F. Dell’Erba, Il Giornale d’Italia, 27/10/1923, poi in Id., Pagine sparse, vol. 2, pp. 475-78, Bari 1960, Laterza. Vedi al riguardo le osservazioni di S. Cingari, «Croce e il fascismo», treccani.it
26. S. Cassese, Lo Stato fascista, Bologna 2010, il Mulino.
27. Id., «Il vincolo esterno come rimedio al deficit di Stato», intervista a Limes, 5/2018, «Quanto vale l’Italia», pp. 117-120.
28. R. De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M.A. Ledeen, Roma-Bari 1985, Laterza, p. 6.
29. R. De Felice, D. Mack Smith, «La polemica sul fascismo», produzione Rai del 1976, YouTube.
30. P. Togliatti, Lezioni sul fascismo, Roma 2019, Editori Riuniti.
31. Id., «L’Italia e la guerra contro la Germania hitleriana», Opere, vol. 4**, Roma 1979, Editori Riuniti, p. 378.
32. R. De Felice, Intervista sul fascismo. Appendice, Roma-Bari 1997, Laterza, pp. 102 s.
33. Cfr. T. Garton Ash, I. Krastev, M. Leonard, «United West, divided from the rest: Global public opinion two years into Russia’s war on Ukraine», European Council on Foreign Relations, Policy Brief, 22/2/2023.
34. Cfr. S. Cassese, «Lo Stato arcipelago non funziona», Limes, 3/2021, «A che ci serve Draghi», pp. 89-92.
35. S. Lucbert, Personne ne sort les fusils, Paris 2020, Seuil.
36. Citazione che Sandra Lucbert estrae da Marcel Proust, ivi, p. 20. Cfr. M. Proust, À la recherche du temps perdu. Le côté de Guermantes, Paris 1919, Nouvelle Revue Française, t. 7, p. 185.