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IL CORAGGIO DEI GIORNI GRIGI. VITA DI GIORGIO AGOSTI – di PAOLO BORGNA – ed. LATERZA
Il coraggio dei giorni grigi: una biografia del magistrato e intellettuale azionista che fu questore di Torino dopo la Liberazione
recensione di Mirella Serri
«Ma cosa cavolo fa un questore?». Il magistrato Giorgio Agosti scherza, ben consapevole dell’avventura che lo aspetta. Il 28 aprile 1945, quando ancora non sono state deposte le armi, il comandante partigiano nonché giudice del Tribunale di Torino è stato insignito dell’impegnativo ruolo di questore del capoluogo sabaudo. Alto, magro, «tanto esile e nervoso quanto i suoi compagni sono robusti e calmi» – così lo ricorda un amico – nel 1942 è stato uno dei fondatori del Partito d’Azione.
Primula rossa
Dall’8 settembre 1943 il giovane torinese ha abbandonato le aule di tribunale ed è diventato una primula rossa. Braccato dai nazifascisti, sottrae bombe e mitra alla caserma di Torre Pellice, sequestra camion ma si occupa pure di distribuire maglie di lana e volantini di propaganda. Anni dopo ricorderà, con lo humour che lo contraddistingue, di essere stato veramente spericolato quando ha attraversato la sua città in bicicletta con un materasso in bilico sul manubrio. Da un giorno all’altro eccolo passare da latitante a capo delle forze di polizia negli anni più difficili della storia dell’Italia democratica.
Adesso arriva uno splendido ritratto di questo eroe per nulla per caso: Il coraggio dei giorni grigi. Vita di Giorgio Agosti (in libreria per Laterza, pp. 264, € 24) di Paolo Borgna, magistrato torinese e biografo di Alessandro Galante Garrone. Questa storia della complicata esistenza di Agosti, molto ben scritta e dettagliata, non si ferma agli anni della Resistenza ma pone anche l’accento sulle sue notevoli capacità di innovare le strutture e gli enti di cui fu responsabile (la Società idroelettrica piemontese e l’Enel di cui fu vicedirettore del compartimento di Torino).
Il disagio di Agosti nei confronti dell’Italia dei gagliardetti prende avvio al prestigioso liceo classico Massimo d’Azeglio: sono gli anni in cui è frequentato, tra gli altri, da Cesare Pavese e Vittorio Foa. Sono nella sua stessa classe Norberto Bobbio e Leone Ginzburg. All’università diventa intimo di Carlo e Alessandro Galante Garrone con cui condivide quello che Borgna definisce «antifascismo di stile», ovvero la scelta di essere dei «bastian contrari»: mentre gli italiani per ordine del despota affollano le spiagge, Agosti e compagni scalano le vette della Val d’Aosta; mentre il regime getta fango sulle democrazie d’Oltralpe, loro studiano le lingue e deridono le parate del Duce-Testa di morto (come Gadda chiamerà Mussolini). Dopo l’armistizio, l’uomo di legge, con Ernesto Rossi, Ginzburg, Foa, Franco Venturi, appena rientrati dal carcere o dal confino, trasforma la casa torinese di Ada Gobetti in via Fabro in una fucina antifascista.
Straordinarie capacità
Destinato dal Comitato di liberazione nazionale alla scomoda poltrona di questore, si troverà a fronteggiare una «situazione terribile di illegalità, di arbitrio, di insofferenza di freni». Ma la controllerà con le sue straordinarie capacità: farà lavorare uno a fianco dell’altro nuove reclute e vecchi funzionari, combattenti che vengono dalla macchia e colleghi che hanno levato con entusiasmo il braccio nel saluto romano e che hanno definito «banditi» i partigiani.
Successi e sconfitte
Numerosi sono i suoi successi, ma arrivano anche le sconfitte. Dal 1947 si accentuano le lotte sociali e lo scontro politico diventa sempre più incandescente con la nascita del neofascismo. Nel febbraio del 1948 il questore decide per l’addio, mentre i suoi uomini vorrebbero trattenerlo. Come medicina per lenire le delusioni vi sarà l’intensa attività culturale dedicata a tenere viva la memoria di Piero Gobetti e il ricordo della lotta di liberazione (dopo la sua scomparsa gli verrà intitolato l’Istituto storico della Resistenza in Piemonte), a cui si accompagnano le numerose battaglie della sua rivista Resistenza.
La passione politica è al centro dei suoi interessi anche quando le sue attese vengono ostacolate proprio da chi occupa scranni in Parlamento. Agosti, che è stato un attivo sostenitore della nazionalizzazione dell’energia elettrica, nel ’63 riflette scoraggiato: «Adesso sono un cittadino di seconda classe come nel ’29, quando mi prendevo le prime legnate dai fascisti». Ha saputo che la Dc non lo vuole nel consiglio di amministrazione dell’ente: è considerato un «rosso».
«Sono amareggiato e non tanto per il mio destino personale», riflette, «quanto per le conclusioni che ne traggo sulla democrazia italiana». Ribadisce comunque la sua autonomia: «Ho bisogno di essere io, di respirare coi miei polmoni, di non chiudermi in nessun convento, di non fare i conti con nessuna restrizione mentale e, se questo diminuirà la mia forza politica, non m’importa». La vita di Agosti ben rappresenta così l’intera vicenda del dopoguerra e la sua ricchezza di energie e di competenze. «È il paradigma», rileva Borgna, «di tutto quello che le istituzioni repubblicane e la nostra pubblica amministrazione avrebbero potuto essere». Un paradigma, avverte il saggista, ancora oggi da tenere a mente.
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Il coraggio dei giorni grigi di Paolo Borgna racconta la storia di Giorgio Agosti e, con lui, la storia di quella parte d’Italia intellettualmente impegnata che rimase fuori da ogni convento, politico e culturale, fedele solo all’imperativo morale e civile del ‘fai quel che devi’ non solo al tempo degli eroismi di guerra ma, soprattutto, durante il faticoso processo di ritorno alla normalità democratica.
Torino, primi mesi del 1945. La ragazza si chiama Lisa e ha meno di vent’anni. Cammina, lentamente, lungo corso Duca di Genova. Così le hanno detto: “Devi solo camminare, finché qualcuno ti avvicinerà e ti consegnerà un plico”. E infatti, a un tratto, dietro di lei sente una persona che la segue. Lisa la intravede girandosi per un secondo: è un uomo ancora giovane, il fisico asciutto, il passo secco e deciso. Deciso, come la sua voce che, alle spalle, le dice: “Vada avanti e non si giri, faccia finta di niente”. Ed è in quel momento che, sul lato opposto del corso, compare una ronda fascista. I militi guardano verso la ragazza e lei, istintivamente, accorcia il suo passo, in modo da coprire la figura della persona che la segue. Passata la ronda l’uomo le dice, parlando tranquillo: “Bene, ora so che mi posso fidare di lei”. E le affida una busta, che lei dovrà consegnare. Lisa lo guarda e finalmente capisce che quell’uomo, che già si sta allontanando, è Giorgio Agosti. Ancora pochi passi e Lisa vede, all’angolo tra corso Duca di Genova e corso Re Umberto, un manifesto: annuncia una grossa taglia promessa dalla questura di Torino per la cattura di Giorgio Agosti.
Poche settimane dopo, 28 aprile. Un uomo che indossa un impermeabile bianco scende da un’auto, guidata da un ufficiale della polizia in perfetta uniforme, che arriva dal palazzo della prefettura e si ferma davanti alla questura. È il nuovo questore di Torino, nominato dal Comitato di Liberazione nazionale. Quell’uomo è Giorgio Agosti.
Fino al giorno prima, Agosti è stato giudice al Tribunale di Torino. Ma negli ultimi venti mesi non ha avuto modo di scrivere molte sentenze. In compenso, ha fatto molte altre cose. Ha svaligiato l’intero armamento di una caserma della guardia di frontiera. È sfuggito miracolosamente a un arresto, subendo però il sequestro di un finanziamento ricevuto da Vittorio Valletta. Ha diretto la Resistenza in Piemonte, con l’incarico di commissario politico delle formazioni di Giustizia e Libertà. Ma non si è limitato a dare direttive. Ha affrontato e risolto problemi di finanziamento e di rifornimento di materiali di ogni tipo: dalle armi alle maglie di lana; dai camion alle calze e alle scarpe. Ha preparato volantini e giornali clandestini e li ha diffusi usando come base, sino alla fine del ’44, il suo ufficio in Tribunale. Ha fatto fuggire prigionieri alleati. Ha reperito camion. Ha attraversato la città in bicicletta portando sul manubrio un materasso (“l’unica azione eroica per cui meriterei la medaglia d’oro” – racconterà molti anni dopo). Si è salvato, durante un controllo di polizia in una scuola trasformata in caserma, appallottolando e buttando in una stufa un foglio di carta con le coordinate per i “lanci” da trasmettere per radio agli Alleati.
È stato costantemente ricercato dalla polizia e altrettanto costantemente avvisato, informato, aiutato da tanti poliziotti che lo avevano conosciuto e imparato a stimare come giudice istruttore. Bandito e latitante, ha pensato e scritto come organizzare la polizia nella futura Italia democratica. Ha minacciato la morte – facendogli recapitare la “sentenza” nella buca delle lettere del suo studio – a un noto penalista torinese che la sera, con il comandante tedesco Alois Schmidt, giocava a poker la sorte di ebrei e ostaggi politici prigionieri delle SS.
Ha visto morire, spesso in modo atroce, molti amici e alcune delle migliori menti della sua generazione. Per quelle morti, ha provato un odio feroce verso gli assassini e ha promesso a se stesso di compensarli con la morte. Per questa sua passione e determinatezza e per il suo impegno totale è stato definito “autoritario e generoso”, severo e duro ma allo stesso tempo “straordinario amico”. Ha saputo comandare, come richiedeva “il tempo del furore”. Ha saputo farsi amare, con la devozione che soltanto i grandi capi sanno suscitare.
Questo libro racconta la sua storia.
[…]
Negli ultimi mesi della guerra, il desiderio di placare, in modo intransigente, la sete di giustizia per l’oppressione a lungo subita, diventa sentimento diffuso e di massa. E, nei giorni della Liberazione, anche i timori repressi di chi era rimasto estraneo alla lotta, anche la manzoniana “funesta docilità degli animi appassionati”, gonfieranno paurosamente questo sentimento, trasformando il dolore in furore. Fu la marea ribollente di un profondo moto di popolo. Non la violenza fredda governata da minoranze giacobine. Gli antifascisti di sempre, gli intellettuali che, negli anni in cui il fascismo aveva celebrato i propri fasti, si erano difesi all’interno delle aristocratiche cittadelle della propria cultura minoritaria, furono casomai sorpresi da quell’esplosione di furore popolare. E la guardarono con un certo sgomento. “Ci ritroviamo, invece che consolati, umiliati dal disgusto e dalla vergogna” – scrive Piero Calamandrei, dopo aver appreso per radio, in una trattoria di Prato, la notizia del popolo esultante, in piazzale Loreto, di fronte al “mucchio di stracci insanguinati” di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi fascisti. Ma il perdono è una virtù individuale. Non può essere esercitata, se non in tempi storici, da un popolo terrorizzato e offeso. In quel clima, se un cecchino, che per ore ha seminato morte sparando da un tetto sugli inermi passanti, viene individuato, raggiunto e trascinato in strada, non si può pensare – come faremmo noi oggi – di arrestarlo e celebrare per lui un regolare processo. L’alternativa è soltanto tra linciaggio e fucilazione immediata.
C’è dunque qualcosa di eroico nello sforzo di chi, come Giorgio Agosti, vivendo dentro quella storia, non si sottrasse al compito di esserne protagonista, di dirigerne il corso, di tentare di fare giustizia al termine di una guerra civile durata quasi due anni, evitando bagni di sangue, foibe e fucilazioni di massa e avviando il Paese alla normalità anche sul terreno dell’ordine pubblico […]
Il “mondo umano” di Giorgio Agosti comincia un’ora dopo la fine della guerra.
Paolo Borgna è magistrato a Torino dal 1981, dopo una breve esperienza come avvocato ad Alba. Nella sua attività professionale si è occupato particolarmente di tratta degli esseri umani e di legislazione sull’immigrazione. È autore di vari saggi sulla giustizia. Ha curato il libro Il mite giacobino di Alessandro Galante Garrone (Donzelli 1994) ed è autore, con Margherita Cassano, di Il giudice e il Principe (Donzelli 1997).