di Alfredo Morganti – 23 marzo 2016
A Roma siamo in campagna elettorale. È la fase in cui la città dovrebbe essere il principale oggetto della discussione pubblica: è di essa d’altronde che dovrà eleggersi la nuova classe politica, non di altro. E invece le argomentazioni, i proiettori, le camere sono tutte rivolte verso i candidati, verso le loro battute, i loro tic, le loro idiosincrasie, gli spezzoni scarni di programmi che singhiozzano e galleggiano qua e là sui media. E sul resto è buio. Meno male che ad aprire lo sguardo, a spalancarlo direi, ci pensa il cinema, non la politica. Due film, in special modo, pongono la Capitale alla ribalta dei focus e della nostra attenzione. E non sono opere che si contentano della grande bellezza di Roma, non scivolano sulla patina, non propongono ‘Modelli Roma’ di genere artistico. Non sono forma nata in laboratorio, per quanto di classe, per quanto di talento. ‘Lo chiamavano Jeeg Robot’ e ‘Non essere cattivo’ sono due chiodi conficcati nel ventre di Roma, ne mettono a nudo aspetti, figure, scenari che dall’alto del Campidoglio si fa fatica a focalizzare, e quando accade li si rigetta come patologia. Da Ostia a Tor Bella Monaca (ma potrei citare San Basilio, Romanina, Morena, Trullo, Primavalle, Corviale, Laurentino 38) si apre un arcobaleno di colori sociali e una quantità di sfumature culturali (e anche sottoculturali) che ci vorrebbero le lenti da sole per non restarne folgorati.
Vedendo i due film (e rispecchiandoli nella mia quotidiana esistenza di borgataro) mi è venuto da pensare al modello Roma, di cui si tanto è favoleggiato. Funzionava come grimaldello per il consenso, ma non funzionava, non poteva funzionare come chiave di accesso alla città concreta (la ‘concrete jungle’ degli Specials, la Londra che brucia dei Clash) che, dalle Mura in poi, pian piano si palesa ma tutti si affannano a rimuovere dallo sguardo e dal cuore. La prima cosa che si dice è: ripartiamo dalle periferie. Ma che significa? Che vuol dire, se non che si deve ripartire dalla città che non si lascia digerire, e che in assenza di altro (in assenza di politiche adeguate: sociali, culturali, identitarie, di integrazione) scivola pian piano verso il disagio, la povertà cronicizzata , la marginalità, la radicalizzazione ideologica, e infine la devianza e la criminalità? Se una città, la sua amministrazione, la sua classe dirigente non investono risorse, politica, governo su queste periferie, e preferiscono (anche per ragioni di comunicazione-politica) soffermarsi invece sulla cartapesta dei modelli e sulla maestosità dei grandi eventi (riducendo la questione a più metropolitane e più ‘decentramento’), quale sarà il destino di milioni di persone che attendono solo risposte, nient’altro che risposte a una folla di domande spesso mute ma evidenti pure ai ciechi, dinanzi alle quali dei candidati volenterosi, ma nulla più, fuggono inquieti, forse terrorizzati, talvolta persino disgustati?