In Dario Bellezza si possono trovare a distanza di poche righe frasi come -nessuno ci capirà mai niente di quel guazzabuglio che è il cuore umano- e -Venere alzati: quanti cazzi respinti nei tuoi sogni di dolce represso?-; per riportare la meno ‘oscena’ delle tante battute più o meno pornografiche del libro. Pasolini, che ha scoperto e iniziato al mondo letterario il giovane Bellezza, dice che questa sua ambivalenza stilistico-tematica sia dovuta all’ambivalenza morale dell’io narrante, da lui paragonato sia ad -un predicatore seicentesco menicheo- che ad un -vecchio borghese benpensante-; così, per questa ricchezza che l’autore si porta dietro, per questo suo essere manifesto assoluto e vivente della poesia italiana degli 70 -l’unico decadentismo che abbiamo davvero avuto si è consumato in quegli anni a Roma-, per questa sua provocatorietà, quotidianità, per questo suo realismo, filosofeggiare sulla psiche, indagare il vizio, il masochismo, la paura, la fede, il corpo, il torbido, mi ha fatto un po’ soffrire vederlo relegato, rinchiuso, in quel sub-genere letterario che è la pornografia. O anche -letteratura dell’eros- (dolce moralismo di mezzo secolo fa!).
Il carnefice, che ho ordinato un po’ a casaccio credendo fosse una raccolta di poesie, è in realtà una raccolta, un diario di giorni nemmeno mai collocati nel tempo che il nostro protagonista spende a Roma, a Piazza Navona, campo dei Fiori, cercando marchette tra ragazzini giovani e drogati, eroinomani, distillatori professionisti di sciroppo per la tosse. Tutte queste -marchette-, appunto, se le può permettere perchè di mestiere fa il mercante di quadri. Si può permettere anche di mantenere una fiamma, Arturo drogato e traditore, Arturo ragazzo, malato di sifilide e violento, ma poi sempre piegato al sesso, e la Santa, una pittrice transessuale, muta osservatrice della sua vita disordinata. Altra figura centrale de ‘il carnefice’ è Dies Irae, urninga che fuggì il poeta dopo avervi convissuto: Dies Irae è un personaggio ingombrante, nel passato del poeta come nell’azione del romanzo: non la vediamo mai agire nel presente dei giorni ma sempre nel ricordo, ombra terribile e potente che soggioga, affascina, decide, sottomette. Questa tendenza sadomasochista e scandalosa, descritta nei più minuziosi e orrendi dettagli, akmè dell’antieroismo, palesa una seconda tendenza nell’autore: quella di desiderare silenziosamente il giudizio moraleggiante e catartico del lettore; potrebbero essere usate le medesime parole con cui la Fallaci parlava di Pasolini quando affermava che egli desiderava la crocifissione, l’insulto, l’assassinio. Il dualismo sembra dunque essere la chiave di lettura del romanzo, come risulta evidente dalla progettazione diaristica stessa: un ammasso disordinato di giorni e momenti che pure nasconde un’ambizione stilistica precisa, un’organicità attenta e sensata; la blasfemia e la negazione d’ogni moralità sottintendono un masochismo, un senso di colpa, un’automacerazione assolutamente cattolici; la sincerità sfacciata e buia del sesso precede un profondo desiderio di elevazione raggiungibile solo con la confessione; questo vomitare addosso al lettore l’impudicizia dei propri atti anela a una critica severa che possa contrastarlo, e se questa non giunge immediatamente da parte del pubblico allora è Bellezza stesso che la rivolge a sè stesso, prima di darsi di nuovo al misfatto. Affascinanti quanto non mai questi liceali persi e maledetti che scaldano eroina nei pentolini per il tè e si concedono se sentono citato Platone e poeti e ladri e vagabondi, splendide queste transessuali coltissime e pittrici e musiciste e prostitute, e ammalianti anche i depressi e vacui gesti di Bellezza; ma mi sento di scoraggiare il lettore che cerca D’Annunzio o il Nabokov edulcorato: qui c’è da fare i conti con la bestia, il pederasta, il coprofago, e per di più con una volgarità che non è critica politica o sociale (come quella di De Sade o Pasolini) nè pura ricerca dell’estetico (come appunto in D’Annunzio), una volgarità che non ha fini, non ha scopi, una volgarità autobiografica da leggere come se avessimo davvero in cura questo squilibrato depresso, che non ci chiede altro se non un altro sputo in bocca, un altro colpo di cintura feroce come i giornalisti degli anni ’70 furono con lui. Io sarò un’altra lettrice, con un’altra apertura mentale, e la soddisfazione che cerchi non te la posso dare: Il carnefice mi è piaciuto e davvero parecchio.
Il carnefice, Dario Bellezza
Autore originale del testo: Susanna D’Ambrosio