di Nicola Boidi
«Vuoi moneta di zecca? Ecco la banca. E se non c’è, basta scavare per un po’. Coppe e collane si vendono all’asta e la carta moneta subito ammortizzata fa vergogna all’incredulo che di noi se la ride»
Mefistofele, Faust II , J.W. Goethe.
Il tentativo di rispondere a tale quesito sembrerebbe pretendere di divinare il futuro, voler scrutare nella sfera di cristallo il destino non di un fenomeno tra gli altri, o di un processo in corso accanto ad altri, o di un problema assommabile ad altri problemi, ma il fenomeno preponderante, il processo totalizzante e il problema cruciale del nostro tempo. E’ pur vero che quattro altri grandi fenomeni si manifestano in modo prepotente e sembrano occupare l’orizzonte di quest’epoca e la sua configurazione futura: 1) la crescita esponenziale delle diseguaglianze economiche e sociali, della forbice tra smisurata ricchezza e smisurata povertà; 2) il mutamento radicale e traumatico della natura-ambiente (mutamenti climatici, rischio di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali, rischio di esaurimento o stravolgimento di risorse fondamentali quali acqua e aria, sfruttamento intensivo ed estensivo del settore primario dell’agricoltura e dell’allevamento, etc.); 3) la mediatizzazione potenziale delle coscienze individuali per cui l’individuo, immerso nel flusso delle relazioni lavorative, sociali e culturali mediato dall’ipertrofico sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, perde potenzialmente il contatto con l’esperienza primaria e immediata della realtà, per quanto illusoria quest’ultima possa dimostrarsi, surrogata dalla sua esperienza virtuale; 4) infine le frontiere della ricerca e della sperimentazione scientifica nel campo della biogenetica (mappatura del dna, ricreazione artificiale della vita con l’elaborazione delle cellule embrionali, sperimentazione della clonazione d’individui viventi di specie animali) pongono interrogativi sulla loro possibilità di applicazione e sulla loro opportunità.
Rileva il filosofo Slavoj Zizek che, complessivamente, ciò che si configura in questi processi in corso è il mutamento radicalizzato del rapporto dell’uomo con la sua « natura oggettiva» (la natura-ambiente e la natura sociale, economica e politica) e con la sua «natura soggettiva» (la sua natura biologico-genetica e la sua natura «interiore» psicologico-culturale). Ma ognuno di questi fenomeni in potente evoluzione, qualunque sia il giudizio che se ne dà, è mediato in maniera più o meno manifesta o più o meno occulta dal più recente stadio di sviluppo dell’economia di mercato, il capitalismo finanziario appunto. Al ruolo di protagonista del capitalismo finanziario nei confronti della «oggettiva natura» sociale e storica dell’uomo e della «oggettiva natura ambiente» abbiamo dedicato i due precedenti articoli rispettivamente incentrati sul tema dell’«estrazione di valore dall’uomo» e di «estrazione di valore dalla natura». Al ruolo interventista del capitale nei confronti della «natura soggettiva» umana, sotto forma dell’egemonia culturale della sua ideologia di riferimento, il «neoliberalismo» economico, e sulla sua capacità di penetrazione «totalitaria», onnipervasiva e capace di modellare sui suoi criteri ogni ambito della vita collettiva e individuale, esteriore e interiore, «la fabbrica ideologica del consenso» come la definisce il sociologo Luciano Gallino, ci dedicheremo prossimamente.
In questa sede ci preme innanzitutto interrogarci se il capitalismo finanziario costituisca in sé l’ultimo stadio possibile del sistema dell’economia di mercato, oppure se esso sia «sanabile» e superabile verso una sua ulteriore evoluzione. In caso di risposta affermativa al primo quesito, ossia se ciò che è in corso con tutte le sue conseguenze nefaste in maniera eclatante dall’inizio della crisi del 2007, annuncia il crollo prossimo venturo del sistema capitalistico, c’è da domandarsi naturalmente che cosa seguirà ad esso,in un futuro che al momento appare oggettivamente un’oscura nebulosa. Se invece si ritiene che pur con gravissime distorsioni e minacce potenzialmente mortali per il processo storico dell’umanità, per la presenza di pulsioni distruttive al suo interno, l’economia di mercato non presenti all’orizzonte possibili alternative a sé stessa, allora quello che c’è da fare è da «raccogliere le forze» scientifiche, intellettuali e morali per elaborare teoricamente e praticare sul piano economico, politico e culturale possibili soluzioni nel tentativo di «civilizzare» tale sistema.
Si dà qui per scontato che siano «fuori corso » quelle teorie e dottrine che propagandano ideologicamente che ciò che è accaduto con la grande crisi originata dalla speculazione finanziaria a partire dal 2007/ 2008 sia frutto di un incidente tecnico imprevedibile e anomalo capitato fortuitamente a un sistema finanziario fino allora perfettamente funzionante, oppure all’opposto un «fenomeno naturale» paragonabile ai cataclismatici fenomeni degli Tsunami o delle megaeruzioni vulcaniche. Entrambe queste posizioni, tra di loro antinomiche, non offrono nessuna spiegazione razionale degli eventi economici, politici e sociali accaduti in questi anni e si limitano a ribadire, in maniera manifesta o sottintesa, l’implicita assunzione del carattere di per sé armonico e capace di autoregolazione dell’economia di mercato, che necessita solo di seguire la sua «naturale legge di estrazione di valore» per continuare imperturbabile il suo corso. Posizione teorica e conseguente prassi che appartengono tipicamente alle tutt”ora egemoni dottrine economiche neoliberali già figlie dell’economia neo classica di inizio novecento.
Qui ci paiono più pertinenti e convincenti, più aderenti alla realtà dei fatti, due altre interpretazioni del processo economico in corso, concordi nel giudicare l’economia capitalistica necessariamente tendente alla stagnazione nel medio-lungo periodo dei suoi cicli economici, ma le cui rispettive posizioni presentano un’intonazione e un’accentuazione differenti. La prima è l’interpretazione neomarxiana che, richiamandosi alla originaria posizione marxiana, sostiene che l’economia di mercato non è affatto in grado di autoregolarsi e l’attuale forma di «accumulazione del capitale» lo starebbe a dimostrare. E’ opportuno qui richiamare in estrema sintesi alcuni dei concetti «classici» della teoria economica. Per «accumulazione del capitale» s’intende il processo di crescita del capitale esistente entro un’impresa, un settore produttivo o un’intera società, mediante l’aggiunta ad esso di nuove quote di altro capitale derivanti dall’eccedenza netta del valore realizzato della produzione sul consumo (di materiali, mezzi di produzione e lavoro) in un determinato periodo. Il «regime di accumulazione» è invece costituito dalle multiformi intrecciate modalità economiche, politiche, sociali e culturali che differenziano uno stadio storico da un altro dello sviluppo dell’accumulazione capitalista. L’accumulazione del capitale è il mezzo con cui l’economia capitalistica tende «idealmente» al suo fine: la massimizzazione del «plusvalore » o profitto.
Il concetto altrettanto classico di «plusvalore» o «profitto» è quell’eccedenza rispetto al valore investito in mezzi di produzione e forza lavoro da parte del capitalista, che è misurabile in denaro e costituisce un elemento o stadio fondamentale del processo di accumulazione del capitale. Il plusvalore o profitto può avere più suddivisioni del suo uso: una parte può essere utilizzata per effettuare pagamenti di varia natura (interessi sui prestiti, tasse e debiti in scadenza); un’altra parte viene utilizzata per distribuire dividendi ai proprietari e ai piccoli azionisti, per i compensi ai top manager a titolo di gratifica, di bonus o opzioni sulle azioni (stock option); un’altra parte ancora, nel caso di aziende quotate in borsa, può essere utilizzata per riacquistare azioni proprie. Le due ultime frazioni del plusvalore o profitto vengono la prima reinvestita in mezzi di produzione aggiuntivi o nel rinnovo dei mezzi esistenti, la seconda può essere talvolta investita in nuova forza lavoro.
Per l’interpretazione neomarxiana il processo economico capitalistico presenterebbe ciclicamente e in modo endemico una forte assimetria tra le due frazioni di quota di capitale reinvestito in un nuovo ciclo produttivo – tra la frazione investita in impianti e mezzi di produzione e la frazione investita in forza lavoro – poiché l’aumento degli investimenti in mezzi produttivi porta inevitabilmente a creare un maggior numero di unità di prodotto, o un maggior valore per unità o per ogni ora lavorativa e, conseguentemente, a volume di produzione costante, a diminuire il volume di lavoro utilizzato per produrlo. Ne deriva la diminuzione di forza lavoro necessaria a produrre un determinato volume di beni, il che a parità di orario comporta la riduzione della quantità di lavoratori impiegati. Ma riducendo il numero di lavoratori impiegati per una data produzione si riduce anche il numero dei clienti-compratori-consumatori delle merci prodotte.
L’economia capitalistica rischia di continuo di entrare in un processo di sovraproduzione in cui la sua capacità di produrre beni supera la sua possibilità di venderli. Nascono così i periodi , più o meno lunghi, di stagnazione dell’economia in cui il tasso di accumulazione del capitale rallenta, se non addirittura cessa. Solo eventi eccezionali provenienti dall’esterno del sistema, siano intenzionali o meno, sono in grado di rilanciarlo, originando così un nuovo processo di accumulazione. Ma a sua volta ogni nuovo processo di accumulazione è transitorio, e mentre si sviluppa prepara la propria futura crisi, mentre le risposte a ogni singola crisi sono atte ad alleviare oppure ad aggravare la crisi medesima, a ritardare oppure accelerare la successiva.
Nell’interpretazione neomarxiana il principale fattore che a partire dagli inizi del novecento produce questo meccanismo tendente alla stagnazione è stato lo sviluppo, in tutti i settori dell’economia, di grandi imprese monopolistiche e oligopolistiche. I monopoli per le loro gigantesche dimensioni e articolazioni sul mercato mondiale sono inattaccabili dalla concorrenza fondata sui prezzi poiché al contrario è l’impresa monopolistica a determinare il prezzo dei suoi prodotti, dato che sul mercato da essa dominato non ha nessun altro concorrente. Gli oligopoli tendono invece a stabilire un accordo, tra le poche imprese che dominano il mercato, su un prezzo prestabilito che sia remunerativo delle merci e dei loro correlati servizi. Sia i monopoli che gli oligopoli tendono verso quell’esito di stagnazione rilevato dalle teorie neomarxiste per cui la sovraproduzione sopravanza la capacità di vendita, calano i profitti, gli investimenti produttivi , la produzione e con essa gli stipendi, le persone impiegate e i consumi, etc. Per la teoria economica neomarxiana questa è una tendenza endemica del processo capitalistico che, ciclicamente, una crisi più grave dopo l’altra, prepara il crollo finale del sistema.
La teoria neokeynesiana (ispirata da quella keynesiana originaria) invece, pur riconoscendo la stagnazione come un tratto caratteristico del processo di accumulazione capitalistica, e mostrandosi consapevole delle potenzialità distruttive dell’economia di mercato, oscilla nell’attribuire alla stagnazione il ruolo di causa della crisi o quello di conseguenza della medesima, e in ogni caso ritiene che il capitalismo possa e debba essere riformato con adeguate politiche da parte delle istituzioni nazionali e sovranazionali. Per Keynes vi era una principale contraddizione interna al processo d’investimento capitalistico che porta a disincentivare gli investimenti stessi: l’ignoranza dei compratori sui mercati finanziari dei prodotti che comprano e l’attenzione esclusiva degli speculatori sui cambiamenti immediati dell’«opinione» dei mercati invece che sulle stime del rendimento futuro degli attivi dei capitali, a cui segue la disillusione rispetto a un mercato troppo ottimistico, e la conseguente improvvisa contrazione radicale degli investimenti che a cascata ricade sulla domanda, sui salari, sui consumi, sui bilanci pubblici, etc. Da qui nascerebbe un lungo ciclo di stagnazione economica.
Uno dei maggiori continuatori di Keynes nella seconda metà del novecento, Hyman P. Minsky, sottolineava invece con forza il ruolo che a partire dagli anni ottanta svolgeva il sistema bancario e la finanza in genere nel produrre questi stati di crisi dell’economia, in particolare tanto con il meccanismo da parte delle banche della creazione di denaro al computer, iscrivendo tra gli attivi in bilancio un credito e tra i passivi un deposito, quanto contraendo a loro volta debiti sui mercati finanziari e con altre banche. La funzione di per sé essenziale per l’economia – la banca che presta molto più denaro di quanto non ne possegga – una volta raggiunte dimensioni patologicamente gigantesche, non può che innescare una crisi esplosiva.
Un’altra posizione neokeynesiana, pur ammaestrata da queste analisi e previsioni che Minsky formulò venticinque anni prima che scoppiasse la bolla, quella di Thomas Palley, individua come causa centrale del disastro il paradigma neoliberista di crescita dell’economia statunitense degli ultimi vent’anni del novecento: 1) crescita basata sul debito e sull’inflazione del prezzo degli attivi per spingere la domanda, al posto della crescita dei salari legata alla crescita della produttività; 2) il modello dell’economia globalizzata che comportava spesa per le importazioni, la perdita di posti di lavoro nella manifattura e la delocalizzazione dell’investimento.
Neo marxismo e neokeynesismo sono comunque accomunati nel giudizio che il capitalismo finanziarizzato a partire dagli anni ottanta non sia stato affatto un meccanismo perfetto o capace di autoregolazione e autocorrezione, ma abbia costituito una risposta sbagliata da parte degli attori economici e dei loro«collaboratori» politici alla crisi del precedente regime di accumulazione capitalistica « produttivista », da cui quello finanziario si distingue come regime di «accumulazione per circolazione». Il regime di «accumulazione produttivista » è sorto a sua volta dalle ceneri della precedente grande crisi, anch’essa originata da una gigantesca bolla speculativa della finanza, la crisi del 1929, attenuata dalle politiche di «imprenditore in ultima istanza» da parte degli Stati negli anni 30 (New deal di Roosvelt, politiche d’intervento statale di Gran Bretagna, Francia e altri Paesi, tra cui anche, ahimè, la «politica di riarmo» della Germania nazista di Hitler) e definitivamente «risolta» solo dalla seconda guerra mondiale.
Il dopoguerra ha visto il rilancio di un processo di accumulazione capitalistica produttivista, basato sulla produzione e vendita principalmente di automobili, elettrodomestici (frigoriferi, lavatrici e cucine a gas) e televisori a decine di milioni di consumatori. Inoltre in Europa Occidentale il piano Marshall di ricostruzione finanziato dagli Stati Uniti ha dato vita al progetto di ricostruzione di intere aree urbane, reti stradali e autostradali, ferrovie, ponti, porti, etc, devastate se non completamente rase al suolo dalla distruzione bellica. Lo sviluppo del trasporto areo e delle conseguenti tecnologie aereonautiche (già stimolate dalle esigenze belliche), così come delle industrie degli armamenti, nel subentrato nuovo clima di guerra fredda tra il Patto Atlantico e il blocco comunista orientale, hanno dato un contributo importante a questo processo di rilancio dell’economia occidentale.
La spinta propulsiva di questo regime e stadio di accumulazione produttivista dell’Occidente si è esaurita intorno alla metà degli anni settanta del novecento, con la conseguente entrata nella fase di stagnazione sopra descritta. A questa stagnazione i grandi complessi economici e i principali rappresentanti dei governi degli Stati hanno pensato di ovviare liberalizzando i movimenti dei capitali, in particolare agevolando e facendo proliferare con una progressione geometrica le forme della loro circolazione finanziaria. La globalizzazione dei mercati finanziari e dell’ economia reale, agevolata dalla caduta del blocco comunista dell’Europa orientale e dall’apertura al capitalismo dei grandi mercati asiatici (Cina, Corea , Sud est asiatico), ha dato il là alla delocalizzazione delle produzioni e alla estensione planetaria dei consumatori delle loro merci, sembrando superare di colpo tutti i problemi della precedente fase di stagnazione: sovraproduzione, stagnazione dei profitti, riduzione degli investimenti, riduzione dei consumi, costo del lavoro, etc.
L’accumulazione del capitale per circolazione ha ritardato negli Stati uniti la stagnazione della crescita di circa un ventennio (fino alla fine degli anni 90 il tasso di crescita annua del pil statunitense si è mantenuto sul 3%) ma la peculiare configurazione di questo processo ha preparato le basi per la sua successiva catastrofe già annunciata dai crack economico-finanziari – «scosse telluriche» di avvertimento – dei primi anni 2000. Per chi sapeva leggere in profondità i processi e i fenomeni in corso tale esito era già prevedibile da tempo proprio per le caratteristiche, costitutivamente fragili e «aleatorie» dell’«accumulazione per circolazione». L’accumulazione finanziaria infatti salta tutte le fasi intermedie dell’accumulazione produttivista e si concentra sulle forme di circolazione del plusvalore o profitto misurabile in denaro, le implementa, ne inventa in continuazione di nuove, così come inventa nuovi attori di questo processo, perchè da questa innovazione delle forme di circolazione essa ne ricava il massimo profitto: il denaro produce direttamente altro denaro in questa accumulazione «contratta» e «deviata» dal suo percorso tradizionale. Questa ricerca della massimizzazione del profitto per mezzo della proliferazione delle forme di circolazione del denaro costituisce propriamente l’«estrazione di valore».
Due principi hanno guidato questo processo di accumulazione di profitto per proliferazione delle forme, attori e luoghi della circolazione del denaro negli ultimi trenta/trentacinque anni: 1) la crescita esponenziale del indebitamento di individui, famiglie e piccole e medie imprese – dunque del debito privato – in seguito prima alla stagnazione, poi alla riduzione degli stipendi e dei piccoli profitti (nei 15 paesi dell’Ocse mediamente tra il 1976 e il 2006 la quota percentuale di Pil riservata agli stipendi è scesa dal 65 al 55%,mentre nello stesso periodo in Italia è scesa di 15 punti, dal 68 al 53% ); 2) la facoltà illimitata, avvallata legalmente dalle istituzioni politiche degli Stati nazionali e diventata pressoché onnipotente e anarchicamente ingovernabile, tramite lo sviluppo delle tecnologie informatiche e internautiche, di creare denaro dal nulla da parte delle banche private con cui avviare questo processo di proliferazione del credito che incontrava una domanda in grande crescita, e la conseguente creazione di derivati finanziari. Questo processo di proliferazione della finanza globale che «premeva» con una massa sconsiderata di trilioni di dollari di prodotti finanziari – nell’imminenza della crisi nel 2007 per un valore nominale 5 volte superiore al Pil mondiale dell’economia mondiale, una condizione tutt’ora sostanzialmente immutata – proprio per la sua natura aleatoria di azzardo, di «finanza -casinò», era predisposto a crollare come un castello di carte o per effetto domino non appena avesse trovato un innesco «confacente».
E’ opportuno riassumere le figure e le fasi del meccanismo attraverso cui, nell’agosto 2007, l’innesco fu attivato, con una rapidità e una consequenzialità impressionanti. L’innesco, come è noto, fu dato dai cosiddetti mutui «subprime» («mutui scadenti») offerti sotto forte pressione e potere di persuasione da emissari delle banche a svariati milioni di famiglie in affitto negli Usa, Regno Unito, Spagna e Irlanda, non in grado di rimborsarli, ma persuasi a sottoscriverli dalla promessa dell’aumento certo del valore degli immobili.
Questi «prestiti immobiliari scadenti» cominciarono a non essere ripagati in massa tra il 2004 e il 2006, quando gli interessi ad essi relativi salirono di quasi quattro volte, da meno del 1,5 a più del 5 %. A questi mutui era collegata la loro rivendita da parte della banca creditrice sotto forma di titoli finanziari, la loro «cartolarizzazione», a società «veicoli per scopi speciali» (Spv) o «veicoli per investimenti strutturati» (Siv), appositamente costituite fuori bilancio dalle loro banche sponsor. I titoli finanziari rimessi in vendita erano composti da «derivati strutturati» (le cosiddette Cdo, Collaterated Debt Obbligations, «obbligazioni collegate a un debito») o canestri o portafogli di debiti/titoli finanziari appositamente congegnati da matematici finanziari, suddivisi in trance di rischio d’insolvenza e corrispondente quotazione finanziaria, avvallata dalle agenzie di rating, con un valore per ogni canestro o portafoglio mediamente di un miliardo di dollari. Questi derivati strutturati erano rivenduti principalmente a investitori istituzionali (fondi comuni d’investimento e compagnie assicurative, dietro di cui si trovano spesse grandi banche, e fondi pensione).
Inoltre la banca concedente il credito (non solo mutui immobiliari, ma prestiti di qualsivoglia genere a persone, famiglie imprese o altre banche), quando non ha capitali sufficienti per prestare il denaro, e per un qualsiasi motivo non lo vuole creare dal nulla al computer, li chiede in prestito o a un’altra banca privata o alla Banca centrale, oppure a un fondo comune specializzato in operazioni sui mercati monetari. Per alimentare con continuità il flusso di cassa di denaro liquido indispensabile al processo, la banca se lo procura prevalentemente con accordi interbancari di riacquisto a termine (repos): una banca richiede ad un’altra banca, o a un fondo comune facente funzione, una data somma offrendo in deposito un collaterale e impegnandosi a restituire la somma (e a recuperare il relativo collaterale) entro un periodo brevissimo (un lasso di tempo che può essere di un giorno o venire prorogato a qualche settimana o qualche mese). Se il collaterale depositato è considerato solido, il prestatore accetta che il valore del collaterale ecceda di pochi punti d’interesse quello del prestito; se invece il collaterale presenta dei rischi, il valore del collaterale richiesto può essere molto alto.
Il meccanismo del repos ha contribuito a ingigantire il debito delle banche verso altre banche o altri enti finanziari. Il processo della titolarizzazione dei crediti/debiti mediante derivati finanziari strutturati viene completato da un ulteriore elemento: i Cds (Credit Default swaps) «certificati di protezione dall’insolvenza del debitore», certificati «assicurativi» acquistati dalla banca stipulante il mutuo da un’altra banca dietro il pagamento di una commissione. Se la banca emittente il credito non viene ripagata alla scadenza da un creditore indicato nei certificati stipulati, la banca protettrice l’indennizza nella misura prevista dal Cds che ha venduto. La vendita di Cds comporta comunque lucrose commissioni e questo induce spesso la stessa banca che ha acquistato protezione a venderne a sua volta (a emettere i suoi Cds). A differenza di un’ordinaria polizza assicurativa i Cds possono essere stipulati anche riferendosi a un soggetto terzo, per cui nei primi anni 2000 banche americane ed europee acquistarono, oltre a quelli intesi a proteggere sé stessi, anche centinaia di miliardi di dollari di Cds che non garantivano una banca dal rischio che un suo debitore non ripagasse il suo debito, ma invece gli assicurava un notevole guadagno se era la banca vicina a subire perdite a causa di debitori insolventi. Ogni banca che acquistava questo tipo di Cds, dunque, aveva interesse che la banca concorrente avesse un buon numero di debitori insolventi: era la stipulazione di una scommessa sul suo fallimento.
Un edificio dell’accumulazione finanziaria eretto con queste modalità non poteva che sottoporsi a fortissimi rischi di crollo, ed è quello che puntualmente è avvenuto a partire dall’agosto del 2007. Con un inizio del crollo pressoché simultaneo negli Usa e in Europa, si è arrestata di colpo la circolazione della liquidità, linfa vitale dell’economia. Gli investitori istituzionali, principali acquirenti dei derivati strutturati, incominciarono a percepire che un numero elevato di debitori non ripagava i mutui all’origine di quei titoli finanziari. Per cautelarsi smisero di acquistare trance di essi. Si arrestò improvvisamente il flusso di liquidità di cui si alimentavano le società «veicolo per scopi speciali» (Spv) o «veicolo per investimento strutturato» (Siv). Ma i Sip o Siv erano comunque costretti a continuare a rinnovare i titoli a breve scadenza da loro emessi per poter pagare i titoli a lunga scadenza comprati dalle loro banche di riferimento. Anche se formalmente i Siv avevano veste giuridica indipendente, per cui i costi della loro bancarotta non potevano risalire formalmente alla banca sponsor, quest’ultima era costretta a salvarli a suon di miliardi per non giocarsi la reputazione. Anche le banche che avevano sia comprato che venduto protezione per mezzo dei Cds incontrarono gravi difficoltà perché i Cds comprati non venivano più ripagati dalla controparte mentre quelli venduti obbligavano a pagamenti esorbitanti. Per quanto riguarda i repos, alcune banche si rifiutarono di concederli da un giorno all’altro; altre chiesero collaterali in misura sempre più elevata, oltre al cinquanta per cento dell’ammontare del prestito richiesto.
Un sentimento di panico, un moto collettivo, questa volta non di risparmiatori che corrono allo sportello dei loro depositi temendo il fallimento delle banche, ma di enti finanziari indebitati gli uni con gli altri per centinaia di miliardi di dollari (o di euro), che non si possono più fidare dei loro rispettivi debitori, percorse come un’onda sismica il sistema finanziario.
Il prezzo che i governi dei Paesi occidentali dovettero pagare per tamponare la crisi tra il 2008 e il 2009, fu di almeno 20 trilioni di dollari (di cui oltre 4 trilioni nella Unione europea), tra capitali versati, somme destinate a salvare le banche, prestiti delle Banche centrali alle banche private (quasi per niente affluiti all’economia reale). Da qui la seconda fase della crisi, quella dei debiti sovrani degli Stati europei, tutt’ora in corso, sotto l’attacco dei fondi speculativi e con politiche di contrasto da parte della troika al governo della comunità europea non solo inefficaci, ma addirittura perniciose, regressive e recessive perché fondate sulle stesse logiche che hanno già portato al disastro (mentre gli Usa sono stati in grado di contrapporvi solo la debole Wall street reform del luglio 2010).
Per una legge generale di filosofia dialettica – il principio di «negazione determinata» – l’individuazione o determinazione precisa, di dettaglio, di ciò che in un oggetto o processo analizzato si è dimostrato sbagliato, da confutare o negare, già di per sé può dare indicazioni importanti anche se non esaustive sul modo in cui si può e si deve intervenire. E’ da qui che bisognerà ripartire la prossima volta, sulla base della considerazione preliminare che i due grandi fattori determinanti questo processo degenerativo dell’economia sono stati la crescita smisurata della forbice tra ricchezza e povertà (la redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto) , e la facoltà illimitata, legalmente concessa, di creare denaro dal nulla alle banche private. Corrispondenti processi di riforma del sistema finanziario e politiche economiche di contrasto alla disoccupazione dovranno essere i temi al centro delle prossime riflessioni.