Fonte: i gessetti di Sylos
Noi italiani, come al solito, presi dalle “baruffe chiozzotte” del piccolo cabotaggio della politica italiana, che tanto ci coinvolgono e ci motivano, illudendoci che si tratti di autentica partecipazione politica, quando invece è l’esatto contrario, non ci siamo accorti di un fatto di notevole importanza che proviene da Oltre Atlantico e che può darsi che indichi la rotta futura per il capitalismo occidentale.
La Business Roundtable è un’organizzazione che raccoglie i vertici delle maggiori imprese Usa, e quindi mondiali. Essa nei giorni scorsi ha redatto e diffuso una nuova “carta” per l’impresa che riprende, in pratica, quanto certa letteratura americana sull’argomento ha sostenuto a partire dagli anni trenta e fino agli anni settanta, e che fu rinnegata negli anni ottanta con la svolta reaganiana: lo scopo dell’impresa non è solo il profitto.
Diverse volte abbiamo sostenuto, sia nei libri che in questi “gessetti”, che la mossa che ha consentito al capitalismo nella versione neoliberista attuale, la mossa che ha dato scacco matto ai sostenitori di un capitalismo “ben temperato” (espressione di G. Ruffolo) di stampo keynesiano, è stata quella di aver portato i top manager dalla parte degli azionisti, dei capitalisti, concedendo loro stipendi stratosferici, senza alcun riferimento alla loro produttività marginale (per usare un’espressione tipica del neoliberismo marginalista teorico). I manager infatti, fino alla svolta neoliberista, svolgevano tutto sommato una funzione di mediazione tra tutti gli stakeholders, proprio in ossequio a quei principi che la letteratura su menzionata aveva evidenziato, e cioè che l’impresa è un luogo dove si incontravano diversi interessi; i quali tutti contribuiscono al successo e quindi tutti sono meritevoli di tutela (gli “stakeholders”: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori, comunità circostante, istituzioni, sindacati). La funzione dell’impresa e del management era individuata proprio nella mediazione di tutti questi interessi.
Dagli anni ottanta in poi questo approccio venne considerato poco meno che “comunista”: l’impresa doveva solo massimizzare i profitti e il valore in capo al capitalista-azionista. Il management si doveva occupare solo di questo, il resto era solo deviazionismo comunista. Questo approccio ha portato all’impoverimento delle classi medie e inferiori, all’umiliazione dei sindacati, al ridimensionamento del ruolo dello Stato e, infine e come conseguenza, alla crisi del 2007.
La crisi ha però avuto una conseguenza che i neoliberisti non avevano previsto e che chi scrive l’ha segnalato in più occasioni. Distrutta (o cooptata?) la sinistra democratica e umiliati i sindacati, la “difesa” delle fasce deboli è diventata appannaggio della destra “politica”. Così la destra economica ha evocato il suo nemico vero, la destra politica appunto. Il capitalismo è internazionalista, libertario, promotore dell’innovazione, ecc., mentre la destra politica è nazionalista, autoritaria, conservatrice, populista, ecc.. Per dirla in parole volgari: il neoliberismo si è scavata la fossa da solo. Ora, all’improvviso, vistasi sull’orlo di tale fossa, “sembra” che stia rinsavendo. Da qui la svolta con cui abbiamo iniziato questo “gessetto”.
Salutiamo la cosa positivamente e confidiamo che essa venga realmente affermata nei fatti e diffusa in tutto l’occidente, ma non possiamo fare a meno di esternare una considerazione: il capitalismo per assumere la dimensione “temperata” che ha caratterizzato per esempio i “trenta gloriosi” (1945-1975), ha bisogno di avvertire il “soffio sul collo” del “nemico” (prima la potenza sovietica, ora l’avanzata della destra politica populista e anticapitalista), altrimenti si abbandona ai suoi peggiori istinti arrivando sull’orlo dell’autodistruzione (crisi del ’29, crisi del 2007). A salvarlo sono sempre stati coloro che poi, una volta passato il pericolo, sono stati emarginati: keynesismo, liberalsocialismo, socialdemocrazia. E questa, per chi crede che comunque il capitalismo, se temperato da adeguato controllo pubblico, sia la forma di organizzazione economica che più di tutte moltiplica la ricchezza e libera l’innovazione, non può che essere una constatazione amara.