Il caos Province ingolfa il motore del Jobs Act

per Gabriella
Autore originale del testo: VALENTINA CONTE
Fonte: diritti globali
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di VALENTINA CONTE, la Repubblica • 5 aprile 2015

Il cuore del Jobs Act, il perno della riforma del lavoro, è bloccato. E rischia di non vedere mai la luce

 Il cuore del Jobs Act, il perno della riforma del lavoro, è bloccato. E rischia di non vedere mai la luce. Lasciando nel limbo 8 mila (ex) dipendenti delle Province, le loro famiglie e milioni di disoccupati italiani, in attesa se non di un posto, di un’indicazione, di una rete. Il decreto attuativo che istituisce l’Agenzia nazionale per l’occupazione, il nuovo collocamento ai tempi della flessibilità senza articolo 18, deve arrivare entro giugno, come prevede la legge. Ma il micidiale mix normativo tra l’incompiuta riforma delle Province, i tagli agli enti locali, la riforma costituzionale, le regole europee sta trasformando un’opportunità in un buco nero.

In bilico ci sono 8 mila addetti degli attuali 550 centri per l’impiego (di cui 2 mila precari), dipendenti non si sa bene di chi. Fino a marzo delle Province, che però sono state eliminate. Da aprile delle Regioni, ma poche hanno fatto la legge per attribuirsene le competenze. Entro l’anno dello Stato centrale, che per il Jobs Act è già dal 2015 il titolare della nuova Agenzia in cui far confluire le «competenze gestionali in materia di servizi per l’impiego, politiche attive e Aspi». Ma per la riforma Boschi della Costituzione lo sarà solo nel 2018, quando la materia “tutela e sicurezza del lavoro” diventerà di competenza esclusiva statale, mentre ora è materia concorrente, dunque affidata a Regioni e Province. Un bel pasticcio.

Le Regioni sono furibonde. Un problema di soldi, ha punzecchiato giovedì Sergio Chiamparino, al termine della conferenza Stato-Regioni. «Le Regioni sono pronte a fare la loro parte, ma il governo individui le risorse». Il governatore del Piemonte si riferiva a tutti i 20 mila dipendenti delle ex Province, sospesi tra il già e il non ancora. Ma la storia degli 8 mila è emblematica. Solo per loro, la legge di Stabilità ha stanziato 60 milioni di cofinanziamento di fondi europei che lo Stato anticipa alle Regioni (dunque da restituire) per pagarne gli stipendi. Che però valgono in tutto 250 milioni all’anno. Il resto lo devono mettere i governatori, attingendo a risorse proprie (che quasi nessuno ha, visti i tagli della spending review ) o alla loro quota di fondi europei. Con il rischio di una infrazione di Bruxelles, perché è vero che l’Europa stanzia 586 milioni per migliorare l’efficacia e la qualità dei servizi al lavoro nel periodo 2014-2020. Ma solo se c’è un progetto che aumenti il numero delle prestazioni in favore di giovani e disoccupati. Non per pagare gli stipendi a chi quelle prestazioni le eroga. Il timore delle Regioni è che il comma 429 della legge di Stabilità, ripreso e spiegato dalla circolare Madia di gennaio, li possa mettere nei guai. Ovvero usare i fondi europei per coprire la spesa di questo personale (gli 8 mila), destinato a un «percorso di ricollocazione separato», dice la Madia.

Tra l’altro, visto che l’Agenzia nascerà a costo zero, ovvero «con le risorse umane, finanziarie e strumentali già disponibili», è chiaro che il passaggio degli 8 mila dalle Province-Regioni allo Stato implica pure il transito della loro fonte di finanziamento. In pratica, la retribuzione di questi lavoratori rischia di essere versata dai Por regionali, dunque dai programmi finanziati con fondi europei (operazione già in odore di bocciatura), benché a quel punto siano diventati dipendenti di un’Agenzia nazionale, pari a quella delle Entrate. Inaccettabile per gli enti locali. E un bel caos.

«Sconcertante il ritardo del governo sulla cosiddetta rivoluzione delle politiche attive per il lavoro», reagisce Guglielmo Loy, segretario confederale Uil. «Tanta fretta per il decreto sui licenziamenti facili, calma piatta sull’altro che permetterebbe di non lasciare solo chi cerca un lavoro». L’Agenzia «non funzionerà senza risorse e senza un progetto valido», concorda Serena Sorrentino, segretario confederale Cgil. «Il governo dice di ispirarsi al modello tedesco, ma lì i centri per l’impiego hanno 110 mila dipendenti e 47 miliardi di investimento, tra politiche attive e personale. In Italia 500 milioni. Difficile fare un’Agenzia che funzioni a costo zero, figuriamoci a risparmio, come nelle intenzioni del governo».

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