Fonte: facebook
di Alfredo Morganti – 18 marzo 2015
“Accettare l’ideologia del cambiamento continuo significa accettare che la vita dell’uomo sia strettamente ridotta alla sua esistenza individuale, e che le generazioni passate e future non abbiano più alcuna importanza ai suoi occhi”. Lo scrive Michel Houellebecq nelle ‘Particelle elementari”, proprio nel corpo centrale del libro, dunque in un punto caldo della vicenda, con tutta la rilevanza che può derivarne. Che vuol dire? Questo. Se tutto cambia incessantemente e il cambiamento mi sopravanza, se debbo inseguirlo ed è più forte della mia capacità di tenervi testa, i legami tra le generazioni si decompongono, nessuno trasmette (né può decidere di trasmettere) più nulla a nessuno, perché non ha più senso consegnare alle successive generazioni dei valori, delle idee, delle pratiche che tra qualche anno non serviranno più a nulla, visto lo scenario totalmente mutato in cui vivranno la loro maturità.
Ne deriva che insistere sul cambiamento, o meglio sull’ideologia del cambiamento, ci consegna un mondo di individui isolati, dediti alla propria biografia e senza più un futuro. Paradossalmente, se pensate, perché il futuro appare proprio l’ossessione di chi ci fa una capa tanto col ‘cambiamento’ (cambio verso e cambiamo il futuro sono i due claim a cui mi riferisco, almeno in politica). Come sempre per le ideologie, chi ti parla di qualcosa in realtà te ne sta vendendo un’altra. Ti ossessionano mediaticamente con il cambiamento (change!), ma poi ti consegnano un futuro lontano, un presente fatto di individui soli, chiusi nella loro vicenda biografico-materiale, e un passato già rottamato. Ti propongono quale contesto di riferimento una dimensione temporale, il futuro, che (a rigore) non esiste, distruggono il passato come gli attuali rottamatori dell’archeologia assira, ti consegnano a un presente edulcorato e schiacciato dal continuo riferimento allo ieri e al domani.
Cambiare per non cambiare nulla, dunque. L’eterno ritorno del gattopardismo. Perciò non fidatevi di chi sventola in modo esagerato e sospetto la bandiera del cambiamento, vi sta fregando. Chi ne accetta la mera ideologia è condannato a un’esistenza individuale, e viceversa, come dice Houellebecq. È qui che la politica perde la sua dimensione sociale, il suo carattere storico, la sua capacità trasformativa a vantaggio della sola performatività (vincere, e vinceremo!) e delle sole, eventuali, benefiche ricadute individuali. Ma il ‘cambiamento’ non va accolto in termini sottomessi, passivi, subordinati (come fu per la Terza Via), né si deve farne mera propaganda (come con l’ultima leva democratico-renziana). Il cambiamento, se riguarda davvero la vita di tutti, deve essere ‘prodotto’, deve essere frutto di un’iniziativa sociale, organizzata, collettiva. Un’impresa vera e propria che coinvolga tutti a partire dagli ultimi. Questa ‘produzione’ di cambiamento è ciò di cui si difetta oggi, ed è il limite della sinistra, passata dalla sua accettazione passiva alla sua rappresentazione ideologica. Un cambiamento che abbia obiettivi, finalità, scopi: più giustizia sociale, più equità, più libertà, più fratellanza e solidarietà. Da qui dovrà ripartire la sinistra se vuole ricostruire se stessa, se vuole tornare a svolgere la propria missione storica, non dalle slides di Proforma.