Il brand

per Gian Franco Ferraris

di Alfredo Morganti, da facebook

Mario Adinolfi ha parlato, giorni fa, di un riuscito scambio tra simbolismo e politica. Ai post comunisti i simboli (PSE, Unità, Berlinguer, ecc.) a Renzi la manovra politica e il potere di decidere. Come dire, mentre quelli si contentano di un ‘brand’, un guscio vuoto, spolpato dalla storia, tu prenditi quello che conta, ossia l’agibilità politica, e lascia a chi è stato travolto un marchio di fabbrica, che è solo una zattera cui ingenuamente aggrapparsi nella tempesta di questi anni difficili. C’è del vero, purtroppo. Anche in politica c’è chi sventola bandiere e chi fa il corpo a corpo, chi si aggrappa ai vessilli e chi, invece, mena davvero le mani. Viene la tristezza a pensare che possa essere davvero così. Che, dopo decenni, di battaglie, sacrifici, scontri, ideali messi storicamente alla prova, qualcuno possa ritenere che ci basti un orsacchiotto di pelouche per tenerci buoni (e magari pure una presidenza dell’assemblea nazionale). Per questo sono quasi indignato, per almeno due motivi. Il primo, che ci considerino non solo degli “sconfitti”, ma anche dei bambini da consolare o raggirare, fate voi. Il secondo, che ‘Unità’, ‘socialismo’, ‘Festa dell’Unità’, siano oramai considerati dei semplici brand (come spiega il premier), dei marchi politico-commerciali, delle targhette adesive da appiccicare su un involucro di cui pochi conoscono il vero contenuto. E siano ridotti a pure componenti merceologiche della cosiddetta politica nuova.

Questa riduzione, questa tremenda enfasi sul brand, sull’idea che i simboli politici siano brand, non è una cosa che possa passare inosservata. Già ci stanno rifilando dei simboli al posto della cosa politica; per di più ce li restituiscono in forma di brand commerciale. Una doppia sòla, insomma. La brandizzazione del simbolo comporta, peraltro, delle conseguenze che andrebbero davvero valutate. Prima tra tutte, la modificazioni della cosa stessa: la politica, il partito. Perché il marchio si fonde con la merce, diventano un’unica cosa: quello che gli esperti chiamano ‘oggettile’. Il marchio ‘PD’ diventa tout court il PD, così come il marchio Dash diventa senza residui il detersivo Dash. Non si compra più quella concretissima merce, ma le suggestioni, le affettività, l’empatizzazione e il posizionamento del marchio. Che il detersivo deterga davvero e come, poco importa. Il detersivo entra nel mondo sognante e affabulatore del marchio, si trasforma in brand pur essendo cosa, oggetto, merce. Tutti i caratteri fisici, merceologici, le sue componenti chimiche, evaporano, si simbolizzano, entrano nel medesimo campo affettivo del brand che le marchia. E questo vale anche per il partito. Per Renzi stesso in persona.

Il marchio simbolico prende corpo, il prodotto si simbolizza, ed entrambi si fondono nell’oggettile. Entrambi vanno ad occupare una fertile terra di nessuno, un limbo nel quale agiscono soltanto le leggi ferree del marketing e della comunicazione mediale. Non c’è più un oggetto fisico, tantomeno è rinvenibile un soggetto, se non nella figura del consumatore-elettore. Un partito che non è più soggetto agisce nel mondo reale solo indirettamente, ma si muove in quello dei simboli e nel campo dei media. Più che un partito liquido, direi un partito digitale. Pura coscienza di sé, senza più inutili ramificazioni sociali, o nei quartieri, a cospetto dei cittadini in carne e ossa. Tempo perso a tutti gli effetti, perché si fa prima a riposizionare il marchio che a muovere le truppe dei militanti. Una specie di risiko digitale, al posto di quello reale. Un continuo far leva sul marchio, sulle ‘storie’, su dettagli mediatici. Ecco lo storytelling. Che non è un semplice ‘raccontare storie’, ma è far leva sugli schemi narrativi che infarciscono la nostra memoria, la nostra percezione e la quotidiana capacità di comprensione, è un modo per ‘penetrare’ nell’affettività degli elettori dalla porta laterale delle emozioni, piuttosto che da quella centrale della politica-politica. Un modo per scantonare le spiegazioni logiche, le ponderose relazioni, i lunghi programmi di governo, le spiegazioni di merito. Un modo per accedere presso la percezione delle persone senza annoiarle con i contenuti della politica, ma solo facendo leva sulla potenza di fuoco dell’advertising (anzi, dell’advertinement, visto che le storie divertono o fanno piangere, ma fanno comunque spettacolo, rapiscono gli elettori).

Cosa resta della politica, quando i nostri simboli più puri diventano dei brand (e magari ce li restituiscono al posto della politica-politica, che non scompare di certo ma resta ben salda in mano altrui)? Mentre prima un po’ di ideologia bastava a governare i tanti ideali che sgorgavano dal cuore, oggi serve un grande apparato mediatico-comunicativo, serve conoscere le leggi del mercato e della promozione commerciale, serve maneggiare la tecnica pubblicitaria. Lo sanno talmente bene un po’ tutti, che la ritirata della politica dalla società è davvero vasta e imponente: un giorno forse scopriremo che pure Renzi non esiste, ma è solo un sembiante, una cosa così, un uomo digitale che ha indovinato la strategia di marketing appropriata per il pubblico appropriato. E ha vinto, anzi stravinto, e con lui tutti gli altri sembianti digitali, compresi quelli che ancora evocano il comunismo del novecento. Uno scenario apocalittico, certo. Ma quel giorno, se ci sarà, saremmo tutti meno liberi. E meno reali.

(PS: scusate la prolissità, faccio ammenda)

 

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