IL BAGAGLIO MUSICALE
Nell’articolo precedente sul Viaggio dicevo che con la soddisfazione si prova poi delusione, desiderio del ritorno, che la sazietà genera inquietudine di nuovi arricchimenti e di nuovi viaggi. Vorrei fare un esempio auto biografico di viaggio spirituale legato alla musica e alle canzoni. Questo viaggio si è dato anche per gli spostamenti geografici, ma ha allo stesso tempo una dimensione tutta sua.
Da piccolo ascoltavo le canzoni che mia Madre e mio Padre cantarellavano a casa, quelle napoletane classiche degli anni d’oro, in primo luogo, veicolo naturale che mi fece apprendere a parlare in dialetto, rendendo arduo il compito della maestra che ci insegnava a parlare e scrivere in italiano. Ma sul piatto della bilancia pesava, eccome, l’arricchimento sentimentale e spirituale di tale pratica spontanea. Canzoni dalle cadenze dolci, dense d‘idillio lirico e da tutto ciò che non giungeva solo ai sensi ma toccava le corde del cuore. Parlavano di sentimenti sublimati in un dialetto dolce, etereo. Papà era amico di Roberto Murolo e le sue interpretazioni le ascoltavamo religiosamente. Inoltre, amava la musica classica e l’organo, più di una volta mi portò su in Chiesa a veder suonare da vicino l’Organista che era suo cliente. Fruivamo della musica per mezzo di un apparecchio radio Marelli a valvole, sintonizzando gli appuntamenti radiofonici imperdibili della canzone italiana, la lirica, le orchestre sinfoniche. Ad un certo momento, quella radio fu collegata a un piatto di giradischi-c ’era dietro la presa fono- e si potevano ascoltare gli LP e i 45 giri di mia sorella, cosa che arricchì l’ascolto innocente e a poco prezzo. Era una cortina che si sollevava a poco a poco. A volte poi c’è più vita nelle parole semplici delle canzoni che in certe poesie frutto di tensioni e sforzi, che non riescono ad esplodere nell’anima. Intanto cominciava a fare capolino la TV, veicolo di canzoni di vario genere e Festival. La canzone italiana, complici le trasmissioni di Bandiera Gialla e di Alto gradimento di Arbore, cominciò a interessarmi di più e ne ripetevo i motivi, mentre quella napoletana sfumava all’orizzonte. C’era stata, è vero, la parentesi di Carosone e di quelle poche napoletane nuove degli anni ’50, ma confesso che le canzoni di Modugno, Mina, Celentano, Tenco, Paoli, Cinquetti, Morandi, Battisti ed altre voci presero il sopravvento. Erano ormai già gli anni della maturità e dell’Università; grazie ad amici, conobbi poi De Andrè, Lauzi, Iannacci, Fo, Gaber, Vanoni, quando il mio orizzonte musicale cominciò a crescere su nuove direttrici. Gli amici di studio furono infatti i principali propagandisti e diffusori delle novità musicali, dei cantautori, delle interpreti. Ricordo con emozione i Swingle Singers per esempio. Intanto, già si stava imponendo la chitarra elettrica, la batteria, i gruppi musicali, l’inglese cantato, e noi giovani ci andammo dietro, come nella leggenda del pifferaio magico di Hamelin, trascinati dalla moda dei balletti e delle feste in quegli anni ancora spensierati. E poi il vento del ’68 soffiò fino a spazzare via quelle abitudini ormai considerate borghesi, lasciandoci in cambio canzoni rivoluzionarie per accompagnare marce, cortei ed assemblee. La musica però era sempre lì a tentarci, rinnovata anche da gruppi che ormai lasciavano da parte le parole per offrirci solo musica, effetti speciali e ritmi. Ricordo inoltre Philip Glass, Brian Eno, Ravy Shankar, Fela Kuti, Myriam Makeba.
Intanto a Napoli era sorta la Nuova Compagnia di Canto Popolare, che fu la scoperta sconvolgente di quelle passioni sincere in cui risuonava il dialetto” tosto” al declamarlo, che parlava della condizione umana ignorata, sulla strada, nella provincia e in campagna, senza abbellimenti, dai ritmi corali. Era la lingua napoletana nuda e vibrante, e imparavo di nuovo a sentirla, era una seconda pelle.
Si imponevano anche la voce e le sintesi musicali di Pino Daniele, con Napoli Centrale ed altre aggruppazioni, che vissi con passione e allo stesso tempo con dubbi sul senso di appartenenza culturale, perché l’anima si preparava inconsciamente ad allontanarsi dall’Italia. Mi attendeva infatti la novità musicale latino americana dotata di una ricchezza e varietà propria. La mia risposta allora fu lenta e debole, ma era questione di dare tempo al tempo, di attendere che quei sentimenti trovassero il loro spazio. Ma i miei contatti con la musica e la canzone latina, ora che ricordo, erano stati molto precoci, perchè formavano parte del repertorio amato da mio Fratello che si accompagnava occasionalmente con la chitarra su canzoni del Paraguay. Ricordo ancora la prima canzone, udita appena arrivato nel Venezuela, e la associo al Natale, con i suoi ritmi per me insoliti, quel festeggiare al mare e quella leggerezza di chi lascia indietro le penurie e i dissapori dell’anno che termina e si gode le feste natalizie. Era questa la musica che catturò la mia attenzione, e con ragione. Vivendo ai Tropici, appresi presto che la canzone possedeva un’altra dimensione, era più allegra, disponeva alla festa spensierata, la spiaggia e l’eterno presente. Il primo impatto per me fu l’eterna sfida del ballo al ritmo della salsa e del merengue, per me che avevo sempre mantenuto un certo controllo sui movimenti del corpo. Ma ciò non mi impedì apprezzare la varietà di proposte musicali, gli Aguinaldos natalizi, il coro Quinteto Contrapunto, la Serenata Guayanesa, l’Ensamble Gurrufio, Un Solo Pueblo. E poi conobbi l’arpa e il cuatro del joropo che dilaga nelle vaste pianure, il polo margariteño, la voce sentimentale di Jesus Sevillano e quella di Gualberto Ibarreto, i tamburi della costa.
Una sola volta, al mio arrivo, ebbi l’ardire di portare una cassetta di musica rock a una festa dove imperavano salsa e merengue; la cassetta fu ascoltata educatamente per un minuto, ritirata e riconsegnata con un sorriso eloquente. Da allora la musica latina spodestò quella che mi era stata familiare negli anni di formazione in Europa. La canzone italiana scomparve anche essa dal mio immaginario, e devo dire che la riascoltavo solo in occasione delle nostalgiche feste che il Consolato d’Italia patrocinava nelle comunità di famiglie emigrate dai tempi post guerra. Ricordo l’Orchestra Italiana di Arbore, le canzoni di Dalla, la voce di Nicola di Bari.
Imparai quindi ad amare gli artisti del suono e della parola del Sud America. Le loro voci testimoniano la ricchezza del castigliano assimilato e fecondato dall’anima dei popoli nativi originari. Spesso con toni laici, emerge la solitudine dell’individuo, il malessere nel cammino della vita condiviso con chi ascolta. In vicinanza delle coste, emana la passione per il ritmo musicale che aiuta a compensar la vita grama col ballo, con la coralità e la riunione. Le storie raccontano a volte piccoli dettagli ed allora ci tocca completare il quadro immaginando volti, luoghi e sentimenti. Le melodie, la chitarra e la voce si fondono. Per me è stata una scolarità dispersa nel tempo che risuona come eco e che spesso ancora oggi ripercorro nell’ascolto. Quanto scrivo è solo un tributo riferito alla Matria Grande, si mischiano ricordi di viaggi, di chi mi ha condotto a tale esperienza musicale, alla comprensione delle parole e quindi dei luoghi dove quella parola e quei suoni sono nati e a cui appartengono.
Credo che Atahualpa Yupanqui sia stato la prima iniziazione allo spirito dell’Altipiano andino tra Bolivia e Argentina, che ho conosciuto vari anni dopo. É il tema delle pene, della sofferenza dei popoli contadini, del destino dei mulattieri che conducono il bestiame, il lavoro duro e l’angoscia. È la voce che parla al sentiero che si inerpica, alle pietre del cammino, alla vegetazione, alla montagna, alla polvere, alla improvvisa pioggia. É la voce solitaria dell’albero in fiore cresciuto a stento tra le pietre, capace di restituire con colori e profumo la sua tristezza e il suo dolore. Se Atahualpa celebra il cammino che unisce la valle con le stelle, i Chalchaleros dell’Altipiano vivono una dimensione corale della vita che porta allegria e tristezza, tra la nostalgia straziante e il presagio di feste e balli, tra il congedo doloroso e il bicchiere di vino. Anche qui c’è il forte attaccamento alle montagne di Tucuman, là dove conducono i cammini e poi riportano indietro, sapendo che mai saranno dimenticati. C’è l’invocazione alla stella affinchè ascolti il canto che ci unisce al Mondo, l’appello alla montagna e al fiume che ci vedono passare avvolti nel nostro dolore. L’inutile ritorno al passato porta con sè solo sofferenze, perchè la casa non è più quella che lasciammo, e allora, a che scopo tornare e sentire di nuovo il dolore dell’assenza dell’essere amato? Invece, l’amore che finisce è cantato con ironia e leggerezza poetica, al riconoscere che l’affetto scivola via come una rondine che scappa dalle mani e come foglie che il vento porta via.
Con Facundo Cabral, poeta e cantautore argentino, si rinnova quella singolare attenzione e quella tensione verso la semplicità altrimenti tanto difficile da raggiungere. Con poche linee Facundo crea uno spazio fertile per catturare l’attenzione dell’anima, una singolare emozione di sentirsi rapiti. Il poeta cantore va per il cammino della vita con senso di libertà che rifiuta vincoli e convenzioni, in un nomadismo dell’anima che si ribella agli attaccamenti. L’essere umano è come Dio quando sogna ma diviene schiavo quando fa di conto. Che sintesi illuminante!
Ho appreso, come insegna il poeta, che non sono di qua nè sono di là, i luoghi non sono la mia patria, perchè dovunque mi trovi lì starà la mia anima e gli spiriti che la accompagnano.
Mi accorgo ora che sto citando solo autori argentini, e ne mancano ancora alcuni come Agustin Magaldi e le sue interpretazioni. Per contrasto con l’Altipiano e la estensione della Pampa, ora è la città crogiuolo di emigranti che coagula sentimenti e passioni. Magaldi mi avvicinava a una terra ferma, sentimentale e più familiare, preludio del tango lacerante, alle periferie urbane della povertà, agli amori impossibili e le dolcezze irraggiungibili. È stato il ponte ideale per arrivare a Carlos Gardel, Julio Sosa e Roberto Goyeneche, che mi hanno fatto apprendere espressioni e parole tipiche del lunfardo, frutto delle emigrazioni europee con radici nella Plata e in Uruguay. Di Goyeneche apprezzavo la voce forte e il ritmo impresso al tango, di Sosa la qualità lirica nello struggimento della passione, Gardel è l’espressione stessa della bellezza sonora. I concerti di Astor Piazzolla sono stati compagni di frequenti momenti nostalgici con quella singolare atmosfera musicale di stili ed assonanze delle più diverse origini.
Tutto questo viaggio musicale è stato facilitato dal fatto che la lingua parlata, al di fuori del Brasile, è dovunque il castigliano, naturalmente arricchito da espressioni e modismi locali, come accade nella canzone peruviana, colombiana, ecuadoriana, cilena, paraguayana. Riguardo al Brasile, samba e bossa nova le avevo ascoltato già in Italia per il film Orfeu Negro che la televisione trasmise quando ero ancora studente. Conservo ed ascolto registrazioni di Gaetano Veloso, Chico Buarque, Tom Jobim, Vinicius de Moraes, Elis Regina e altre voci di questo straordinario paese.
Ritornato in Italia, è cambiato il peregrinare musicale fatto di seduzione e di enigma. Oggi riascolto certe musiche, certe canzoni e certi ritmi in base a una scelta capricciosa, legata al momento e allo stato d’animo, come se volessi attingere da un serbatoio in base alla qualità della sete. Quando ne ho nostalgia, quando voglio assaporare una gioia, quando quella lontana vibrazione mi chiama. Il repertorio è vasto, il bagaglio è grande, e poi c’è tanta altra musica ancora da scoprire.
FILOTEO NICOLINI
Immagine: Pensieri, Ciurlonis